Maria Guarini, Sulla libertà religiosa
(Il testo che segue è tratto dal libro: Maria
Guarini, La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica
dopo il Vaticano II, Ed. DEUI Rieti 2012, richiedibile anche a
maria.guarini@gmail.com - Euro 21 comprese le spese di spedizione) - La
riflessione sul pensiero di Giovanni Paolo II è stata aggiunta dall'analisi
successiva.
Sulla
libertà religiosa
Il pensiero
post-illuminista, che purtroppo e stato influente anche all’interno della Chiesa
per effetto dell’abbandono del principio aristotelico della non contraddizione,
ha portato all’affermazione che le diverse religioni sono tra loro
complementari: ognuna conterrebbe i “semi di verità”, che in realtà i Padri –
come λοgόι-σπερματικόι/Semina Verbi – attribuivano alle filosofie, anche se
l’espressione risulta coniata da Giustino.[1]
Infatti, secondo i Padri dei primi secoli,
compreso S. Agostino, i semina Verbi non fecondano le religioni pagane,
alle quali essi riservano giudizi molto severi, quanto piuttosto la filosofia
greca e la sapienza dei poeti e delle Sibille.
Invece, a partire dal Vaticano II
« fuori dei confini della chiesa visibile, e in concreto nelle diverse religioni, si possono trovare “semi del Verbo”; il motivo si combina spesso con quello della luce che illumina ogni uomo e con quello della preparazione evangelica (Ad gentes, nn. 11 e 15; Lumen gentium, nn. 16-17; Nostra aetate, n. 2; Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, n. 56).
La teologia dei semi del Verbo inizia con san Giustino. Di fronte al politeismo del mondo greco, Giustino vede nella filosofia un’alleata del cristianesimo, perché essa ha seguito la ragione; ma ora questa ragione si trova nella sua totalità soltanto in Gesù Cristo, il ‘Logos’ in persona. Solamente i cristiani lo conoscono nella sua integrità. Di questo ‘Logos’ però è partecipe tutto il genere umano; perciò da sempre c’è stato chi è vissuto in conformità con il ‘Logos’, e in questo senso ci sono stati “cristiani”[2], pur avendo essi avuto soltanto una conoscenza parziale del ‘Logos’ seminale. C’è molta differenza tra il seme di una cosa e la cosa stessa; ma in ogni modo la presenza parziale e seminale del ‘Logos’ è dono e grazia di Dio. Il ‘Logos’ è il seminatore di questi “semi di verità” ».[3]
Nella sua ripresa moderna, quindi, la formula è
applicata proprio alle religioni non cristiane, secondo due significati. Il
primo è anche quello del Concilio Vaticano II, nei cui documenti i ‘semina
Verbi’ sono la misteriosa presenza di Cristo salvatore in tutte le religioni, in
quanto esse possono avere di “vero e santo” e quindi anche di salvifico, sempre
però attraverso Cristo per vie che solo lui conosce. Il secondo compare in
alcune correnti teologiche della seconda metà del XX secolo, secondo le quali le
religioni non cristiane avrebbero capacità salvifica non mediata ma propria,
perché esprimerebbero molteplici esperienze del divino, indipendenti e
complementari, e Cristo – piuttosto che l’unica Via necessaria – sarebbe il
simbolo di questa molteplicità di esperienze e di percorsi dell’intelletto e
dello spirito.
Ovvio constatare quanto tutto questo nuovo
‘senso’ dottrinale influisca sulla pratica pastorale, sulla missione, sul
profilo pubblico della Chiesa.
Se ne deduce infatti, di conseguenza, che la
rivelazione Apostolica custodita nella Chiesa cattolica non avrebbe la pienezza
della Verità. Quindi si cade nell’inganno di credere che le verità parziali
possano essere la porta d’accesso alla verità totale. Invece “in una dottrina
globalmente falsa la verità non è l’anima della dottrina, ma la schiava
dell’errore”.[4] Non si può ignorare che i frammenti di verità presenti
nelle altre religioni e confessioni cristiane hanno un ruolo parziale incompleto
mentre gli errori all’interno dei quali sono costrette le distorcono e ne
falsano la vera portata. Si pensi all’esclusione del dogma della Trinità da
parte del giudaismo e dell’islamismo.
« Possiamo fare (...) della libertà religiosa
un argomento ad hominem contro coloro che, pur proclamando la libertà di
religione, perseguitano la Chiesa (stati laici e socialisti), o ostacolano il
suo culto, direttamente o indirettamente (stati comunisti, islamici, ecc).
Questo argomento ad hominem è giusto e la Chiesa non lo respinge,
usandolo per difendere efficacemente il proprio diritto alla libertà. Ma non ne
consegue che la libertà religiosa, considerata in se stessa, sia per i cattolici
sostenibile in linea di principio, perché è intrinsecamente assurdo ed empio che
la verità e l’errore debbano avere gli stessi diritti ».[5]
Così, invece, il Concilio: « Quanto questo
Concilio Vaticano dichiara sul diritto degli esseri umani alla libertà religiosa
ha il suo fondamento nella dignità della persona, le cui esigenze la ragione
umana venne conoscendo sempre più chiaramente attraverso l’esperienza dei secoli
».[6]
E ancora « Questo sinodo Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Detta libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni da coercizione da parte sia di individui, che di gruppi sociali che di qualsivoglia potestà umana, in maniera che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità con la sua coscienza, privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata.
E ancora « Questo sinodo Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Detta libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni da coercizione da parte sia di individui, che di gruppi sociali che di qualsivoglia potestà umana, in maniera che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità con la sua coscienza, privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata.
Dichiara inoltre che il diritto alla libertà
religiosa ha il suo fondamento nella dignità stessa della persona umana quale la
si conosce sia per mezzo della parola rivelata di Dio, sia per mezzo della
stessa ragione.
Questo diritto della persona umana alla libertà
religiosa deve essere riconosciuto nell’ordine giuridico della società e
diventare diritto civile ».[7]
La prima citazione risulta monca, perché sembra
fare della “dignità della persona” un assoluto, essendo invece la dignità a sua
volta fondata sul fatto che la persona è ordinata al suo Creatore. Anche se nel
Proemio la DH dichiara « il sacro Concilio professa che Dio stesso ha
fatto conoscere al genere umano la via attraverso la quale gli uomini,
servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e pervenire alla beatitudine »,
successivamente se ne allontana. Quando si stabilisce un principio, occorre
formularlo con chiarezza adamantina evidenziandone ed esplicitandone gli aspetti
salienti. Sui punti citati, invece, sembra mancare il meglio, che poi alla fine
e ciò che nel tempo – se ripercorriamo gli ultimi 50 anni – è risultato dapprima
diluito e poi oltrepassato, per fede pensiamo solo
temporaneamente.
Inoltre la libertà religiosa non resta ancorata
al soggetto e alla coscienza individuale, ma coinvolge la Chiesa, proprio perché
a sua volta il fondamento della dignità umana risiede nel fatto che l’uomo e
orientato a Dio mentre la coscienza e legata al rapporto con la rivelazione
oltre che alla stessa ragione. E solo se la Chiesa ottiene di diritto la
condizione stabile per l’indipendenza necessaria all’adempimento della sua
divina missione (DH n. 13), si concretizza di fatto la possibilità di
parlare liberamente del mistero di Cristo e di Annunciare il Signore con
franchezza e fermezza come colui “che Dio inviò per la salvezza di tutti”. Solo
così i non cristiani saranno messi in condizione di convertirsi liberamente al
Signore e di credere; il che comporta il diritto sociale della Chiesa di non
essere impedita dallo Stato nello svolgimento della propria missione, ottenendo
dallo stesso il riconoscimento della sua nativa autonomia senza la quale non
potrebbe svolgerla. Allo stato dei fatti questo diritto sociale non riguarda
solo la Chiesa ma la presenza di ogni altra religione. Agli interrogativi che da
ciò scaturiscono la Dichiarazione conciliare non dà una risposta diretta. Sembra
anzi ci si trovi di fronte ad un Magistero sdoppiato.[8]
Come ultima conseguenza sembrerebbe
configurarsi l’assolutizzazione di un diritto naturale che di fatto, equiparando
assolutamente tutte le religioni, contraddice implicitamente il dogma della
Rivelazione di Cristo – di cui la Chiesa è portatrice custode e trasmettitrice –
l’unico vero per la sua indiscussa origine divina.
Risultano profetiche le parole della Immortale Dei di Leone XIII.
Risultano profetiche le parole della Immortale Dei di Leone XIII.
« Si tace dell’autorità divina, come se Dio non esistesse o non si desse alcun pensiero del genere umano; come se gli uomini, né singolarmente né collettivamente, non avessero alcun obbligo verso Dio, o come se si potesse concepire una sovranità, la cui origine, forza e autorità non derivassero totalmente da Dio. Appare evidente che in tal modo lo Stato non sarebbe nient’altro che la moltitudine arbitra e guida di se stessa; e poiché si afferma che il popolo contiene in se stesso la sorgente di ogni diritto e di ogni potere, di conseguenza la comunità non si riterrà vincolata ad alcun dovere verso Dio; non professerà pubblicamente alcuna religione; non vorrà privilegiarne una, ma riconoscerà alle varie confessioni uguali diritti affinché l’ordine pubblico non venga turbato. Coerentemente, si permetterà al singolo di giudicare secondo coscienza su ogni questione religiosa; a ciascuno sarà lecito seguire la religione che preferisce, o anche nessuna, se nessuna gli aggrada. Di qui nascono dunque libertà di coscienza per chiunque, libertà di culto, illimitata libertà […] ».
La stessa enciclica esprime con grande
chiarezza la non costrizione circa la Fede, ma nel contempo afferma la funzione
e la responsabilità della Chiesa:
« Così pure la Chiesa vuole assolutamente evitare che chiunque sia costretto, suo malgrado, ad abbracciare la fede cattolica, perché, come saggiamente ammonisce Agostino, “l’uomo non può credere se non spontaneamente”. Similmente la Chiesa non può consentire quella libertà che induce al disprezzo delle leggi santissime di Dio e sopprime la doverosa obbedienza all’autorità legittima. Infatti, questa è piuttosto licenza che libertà; e felicemente viene definita da Agostino “libertà di perdizione”; dall’Apostolo Pietro “velo di malizia” (1Pt 2,16); anzi, essendo irrazionale, diviene vera schiavitù; “poiche chi fa peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34). Al contrario, la libertà autentica e desiderabile è quella che, nella sfera privata, non permette individuando di essere schiavo degli errori e delle passioni, terribili padroni, e che nella sfera pubblica governa saggiamente i cittadini, offre loro con larghezza le opportunità per migliorare la propria condizione, difende lo Stato dalle sopraffazioni altrui ».
La visione della Chiesa è, però, cambiata
radicalmente se il Giovanni Paolo II, può esprimere soddisfazione per «un
interesse crescente per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali»[9] e per il fatto che sia stato tenuto «in attenta considerazione
il rispetto della libertà di coscienza e di religione». Mentre non manca di
esprimere il suo apprezzamento per «i rinnovati sforzi che si stanno facendo per
dare maggior vigore al regime legale vigente»[10], afferma che «i diritti
dell'uomo più che norme giuridiche, sono innanzitutto dei valori» che «devono
essere custoditi e coltivati nella società, altrimenti rischiano di scomparire
anche dai testi di legge»[11] ponendo dunque la libertà religiosa nel novero dei
diritti dell'uomo, anche se poi altrove dice che si tratta di un diritto che,
stando «alla radice di ogni altro diritto e di ogni altra libertà »[12] ne
costituisce, al tempo stesso, «fonte e sintesi» e può quindi considerarsi «uno
dei pilastri che sorreggono l'edificio dei diritti umani» o, più precisamente,
la sua «pietra angolare».[13]
Si tratta di un'analisi razionalista con considerazioni politiche-soggettiviste, e Cristo-Verità non è neppure nominato. E praticamente si afferma con accenti altisonanti il diritto dell'uomo di sbagliare, mentre si disconosce quello di Dio che chiama alla Verità, l'Unica e sola, quella del Signore incarnato morto e risorto per la nostra Salvezza! Nel giugno 1989, lo stesso Pontefice può esprimersi in questi termini ad Helsinki, riferendosi all'Atto “firmato da tutti gli Stati d’Europa insieme con il Canada e gli Stati Uniti, [che] deve essere considerato come uno degli strumenti più significativi del dialogo internazionale.”[14]
Effettivamente la dichiarazione Dignitatis humanae sembra dunque aver effettuato il trasferimento del tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona. Se l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. È un diritto rispetto agli altri, alla comunità e allo Stato. Ma davanti a Dio?
Si tratta di un'analisi razionalista con considerazioni politiche-soggettiviste, e Cristo-Verità non è neppure nominato. E praticamente si afferma con accenti altisonanti il diritto dell'uomo di sbagliare, mentre si disconosce quello di Dio che chiama alla Verità, l'Unica e sola, quella del Signore incarnato morto e risorto per la nostra Salvezza! Nel giugno 1989, lo stesso Pontefice può esprimersi in questi termini ad Helsinki, riferendosi all'Atto “firmato da tutti gli Stati d’Europa insieme con il Canada e gli Stati Uniti, [che] deve essere considerato come uno degli strumenti più significativi del dialogo internazionale.”[14]
« La libertà religiosa è divenuto un tema comune all’interno del contesto degli affari internazionali. Il problema è divenuto parte della cultura del nostro tempo, poiché i nostri contemporanei hanno imparato molto dagli eccessi del passato recente, e hanno capito che credere in Dio, praticando la religione e unendosi agli altri nell’esprimere la propria fede, è una speciale espressione di quella libertà di pensiero e di espressione che ha origine non da una concessione elargita dallo Stato ma dalla dignità stessa della persona umana [...] L’idea che la religione sia una forma di alienazione non è più di moda perché, fortunatamente, i capi delle nazioni e i popoli stessi hanno capito che i credenti costituiscono un fattore potente a favore del bene comune. Odio e fanatismo non possono trovare alcuna giustificazione tra coloro che chiamano Dio “Padre nostro”. Chi infatti potrebbe negare che il comandamento della carità, del perdono e della cura per gli abbandonati - tutto questo si trova al centro del messaggio di molte famiglie spirituali - costituisca un patrimonio incalcolabile per la società? Ad ogni modo questi sono tra i valori che i cristiani devono offrire, quale loro specifico contributo alla vita pubblica e internazionale. Inoltre, proprio dal fatto che essi provengono da tutte le classi sociali, da tutte le culture e nazioni, i membri di denominazione religiose costituiscono una forza efficace per l’opinione e la cooperazione tra i popoli ».Il discorso si fa complesso perché, mentre in alcuni punti - soprattutto nell'invitare alla riscoperta delle radici dell'Europa e come emerge nelle ultime parole sopra riportate - è evidente il riferimento al cristianesimo (più che al cattolicesimo), la prima parte del discorso e anche altri passaggi si riferiscono, mettendoli sullo stesso piano, ai credenti di tutte le religioni. Come se nella realtà le fedi non contemplassero differenti visioni di Dio e quindi del mondo e degli altri e dunque non inverassero storie diverse, spesso inconciliabili tra loro. Come se chiamare Dio “Padre nostro” con tutto quel che ne consegue, soprattutto in ragione della Redenzione opera del Verbo Incarnato che introduce il credente nella indicibile relazione intra-Trinitaria, non facesse la differenza e non scrivesse, nel mondo, la storia che corrisponde al progetto di Dio per l'umanità! Sostanzialmente ci si richiama a DH come documento filosofico-politico, insegnato però come dottrina (pur non definendola!).
Effettivamente la dichiarazione Dignitatis humanae sembra dunque aver effettuato il trasferimento del tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona. Se l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. È un diritto rispetto agli altri, alla comunità e allo Stato. Ma davanti a Dio?
***
Prendo come spunto di ulteriori
riflessioni un saggio interessante e articolato, di Martin Rhonheimer,
docente di Etica e di Filosofia politica presso la Pontificia università della
Santa Croce di Roma, impostosi nei recenti dibattiti.[15] Esso mette in campo
elementi ineludibili per una analisi corretta e approfondita della
materia.
L’esame di Rhonheimer parte dall’assunto che,
nel suo discorso del 22 dicembre 2005, «Papa Benedetto XVI non ha
affatto opposto l’ermeneutica erronea della discontinuità a una “ermeneutica
della continuità”. Ha spiegato piuttosto che all’“ermeneutica della
discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma” che consiste, spiega il
Papa, “in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli
diversi”».
Il discorso muove dalla presa d’atto di alcuni
cambiamenti semantici di espressioni come “libertà di coscienza” insieme ai
mutamenti radicali intervenuti nell’assetto geopolitico e del diritto, per
effetto dell’affermarsi di Stati costituzionali con la scomparsa dello “Stato
cattolico” come braccio secolare della Chiesa e soprattutto con la fine del
potere temporale e della conseguente nullificazione dell’autorità del Diritto
Canonico nelle legislazioni nazionali. Cambiano radicalmente gli scenari e si
sostiene che non cambiano i principi ma muta solo ciò che le situazioni
contingenti inducono a ‘riformare’: il termine ‘riforma’, anzi “ermeneutica
della riforma”, per connotare alcuni elementi di innegata ed innegabile
‘discontinuita’, è esplicitamente sottolineato nel discorso stesso.
Il problema nasce quando, in mezzo alle vicende
storiche ed ai mutamenti che esse innescano nella società, la Chiesa, anziché
procedere sui binari che la tengono ben salda nella verità, cambia direzione
lasciandosi penetrare dalle logiche mondane. E allora occorre verificare se
davvero si distinguono i condizionamenti teologici e storici dai principi che
non possono essere disattesi e se davvero «la dottrina del Vaticano II sulla
libertà religiosa non implica alcun riorientamento del dogma, ma piuttosto un
riorientamento della dottrina sociale della Chiesa e, più precisamente, una
correzione del suo insegnamento sulla funzione e i doveri dello stato»; per
cui si sarebbe verificato «piuttosto un riorientamento della dottrina sociale
della Chiesa e, più precisamente, una correzione del suo insegnamento sulla
funzione e i doveri dello stato».
Il problema è anche che questa asserita
riforma nella continuità arriva a gabellare la testimonianza dei Martiri
per una rivendicazione di libertà – stando alle asserzioni di Rhonheimer che
riprende appunto il citato discorso del 2005 – col pretesto che allora non
esisteva lo stesso concetto di libertà di coscienza di oggi. «E
precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo che si
trova il punto di discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso tempo una
continuità più profonda ed essenziale, come spiega Benedetto XVI nel suo
discorso: “Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto
sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso
nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”.
Questo principio essenziale dello stato moderno
e nello stesso tempo la riscoperta di questo patrimonio profondo della Chiesa
costituiscono, secondo Benedetto XVI, il chiaro rigetto di una religione di
stato: “I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel
Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la
libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria
fede”».[16]
Si tratta di un'affermazione sorprendente
perché la testimonianza dei martiri non è altro che la confessione della loro
Fede in Cristo Signore per la quale hanno dato la vita. Essi seguivano e non
rinnegavano una Persona, non un ideale libertario di cui si può rischiare di
fare un assoluto. Di assoluto c’è solo Dio. Ed è Cristo-Dio che i martiri
cristiani hanno testimoniato con la vita, non la loro libertà di religione...
Inoltre sembra estremamente pericoloso questo rovesciamento di fronte che induce
ad interpretare gli eventi del passato con le categorie odierne. Non vorrei
fosse un effetto della “tradizione vivente in senso storicistico”, centrata sul
presente e le sue contingenze e che non solo oltrepassa il passato senza tener
conto dell’eodem sensu eademque sentenzia; ma, addirittura, anziché
interpretare il presente alla luce del dogma rivelato, reinterpreta anche il
Magistero perenne alla luce di quello transeunte e trasferisce la sua
contingenza al Dogma svuotandolo di tutta la sua pregnante e feconda vitalità
che è la stessa in tutte le epoche.
Del resto l’affermata esclusione di
riorientamenti del dogma non appare più così limpida e inattaccabile nel dover
constatare, ad esempio, che dopo Assisi il Vaticano II è diventato –
praticamente se non teoricamente, per effetto della solita ‘pastorale’ – la
porta aperta ad ogni manifestazione di religiosità, anche se irriducibilmente
lontana dalla religione rivelata e dal patrimonio delle sue
verità.
Come dice mons Gherardini : «è come se il
programma che san Pio X aveva recepito dal paolino “instaurare omnia in
Christo”, fosse stato irriducibilmente invertito in “instaurare omnia in
homine” tanto dal Concilio Ecumenico Vaticano II quanto dal postconcilio».
Conseguenza del fatto che si è arrivati a riconoscere il Concilio come un
‘unicum’ intoccabile - senza fare i distinguo resi necessari dai diversi livelli
qualitativi e conseguentemente autoritativi dei suoi documenti - come la sintesi
onnicomprensiva e l’espressione più pura dell’intera Tradizione, e quindi
«magari senza perverse intenzioni e forse addirittura con retta intenzione, non
si sia affidato al Vaticano II e all’attuazione dei suoi sedici documenti il
compito di disarcionare Cristo dal soglio della sua realtà soprannaturale per
abbassarlo al livello del naturale: uomo come tutti, per tutti, con tutti»,
facendo pagare di fatto alla Chiesa un’ipoteca illuminista.[17]
Il riorientamento della dottrina sociale e
certamente conseguenza del riorientamento della dottrina tout-court.
La dottrina sociale, poggiata sulla verità,
tende ad evolvere rispetto a nuove situazioni storiche: una società industriale
richiede un adeguamento di un “programma” d’intervento ed indicazioni un tempo
pensato per una società contadina; ma il suo “oriente” non muta. Si studiano i
fenomeni ed i problemi, che vengono ricompresi nella dottrina
immutabile.
Così la moltiplicazione delle pseudoreligioni
in uno stato laico non puo mutar la dottrina: la tolleranza non può divenir
diritto. Né i doveri dello stato possono, per la Chiesa, venir meno. Se non
esistono più stati cattolici, la Chiesa non può che prenderne atto ma non per
questo può rinunciare in linea di principio e d’azione alla sua dottrina in
merito. In caso contrario la Chiesa non dovrebbe combattere contro le leggi
anticristiane.
Tornando al saggio di Rhonheimer, ancora non si
riesce a capire su quale verità è poggiata oggi la dottrina sociale della
chiesa, se si può leggervi : «Nel suo discorso del 2005, Benedetto XVI prende le
difese della prima fase, quella “liberale” della Rivoluzione francese, che egli
distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e
radical-democratica, che porto al Terrore della ghigliottina.» E questo che fa
dire che la Chiesa ha pagato un’ipoteca illuminista?
Benedetto XVI ne parla in diversi punti. Ma qui
e molto esplicito:
«È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma ».
L’affermazione “risultava non abbandonata la
continuità dei principi” è una dichiarazione generica non suffragata da
analisi e conseguenti sintesi definitorie dei principi non toccati dalle novità,
i quali, invece, risultano erosi in questo (libertà religiosa) come in molti
altri casi (es. Gaudium et spes, nel cap. IV - 9 sulla svolta
antropocentrica).
***
La teologia è studio, ricerca, chiarimento,
approfondimento, sviluppo; ma poi i suoi risultati devono essere autenticati,
confermati in termini definitori dal Trono più alto, prima di diventare
dottrina, che appartiene al carisma magisteriale.
E di fatto molte applicazioni del Concilio, che
i Papi hanno tenuto a definire non dogmatico ma ‘pastorale’, sono state
applicate direttamente dai teologi nel senso che sono state assunte le loro
posizioni teologiche.
Questo è un serio ‘vulnus’, dal momento che ai
teologi spetta il cosiddetto carisma dottorale, mentre quello magisteriale
spetta ai vescovi e al Papa ed a quest’ultimo spetta anche quello di governo.
Non so se sia eccessivo parlare di carismi trattandosi, mi pare, di
munera preso dal Diritto Canonico cioè uffici, doveri (anticamente il
termine connotava l’esercizio dei pubblici poteri).
Ma come parlare di munera (anche se il
triplice munus sacerdotale non risulta certo abolito) in una Chiesa nella
quale l’ordine gerarchico è stato sovvertito dalla cosiddetta “comunione”, come
se fosse una scoperta di Paolo VI. Infatti fu lui a parlarne ampiamente e anche
piuttosto fumosamente in diverse allocuzioni e il principio e entrato a piè pari
nel concilio e in tutti i più recenti manuali di teologia.
È come se prima del Concilio non fosse mai
esistita la comunione, che e la prerogativa della Chiesa che raccoglie coloro
tra i quali il Signore stesso la crea, per il fatto che vivono in Lui e
partecipano dello stesso Altare. E come se si vedesse solo l’aspetto giuridico
della “Gerarchia”, che rispecchia anche un ordine superiore, e come se questo
impedisse la comunione, anche se lo stesso Paolo VI parla di
“comunione gerarchica”, ripresa dalla Lumen gentium per legare il
ministero episcopale alla comunione con il Papa ed il collegio dei
Vescovi.
Oggi, che si parla tanto di una supposta
ritrovata comunione, paradossalmente si dà il caso che ci siano molti cristiani
che, anziché condividere lo stesso Altare, condividono ‘mense’ diverse (basta
pensare al rito del Cammino neocatecumenale, ad esempio). E regnano sovrane le
divisioni e anche l’anomia de facto se non de jure soprattutto in
campo liturgico, fonte e culmine della fede nonché lex orandi lex
credendi, con tutta la pregnanza e lo spessore di queste
espressioni!
Sorge spontaneo riscontrare una differenza tra
la Pentecoste da cui è nata la Chiesa e la cosiddetta “nuova Pentecoste” che non
sembra tanto aver prodotto il Concilio quanto che sia stata prodotta da
esso.
Non possiamo fare a meno di notare come la
Pentecoste originaria e data a posteriori, dopo l’irruzione dello Spirito Santo
inviato dal Signore Risorto a costituire i Suoi e la Sua Chiesa, mentre la
cosiddetta “nuova Pentecoste” è dichiarata “a priori” sulla base delle
aspettative e delle ‘sensazioni’ ed emozioni enfatiche ed enfatizzanti di chi la
proclamava, di fatto prodotta per effetto delle novità introdotte da una
costruzione umana (il concilio) dando per scontato che tutti i suoi
partecipanti, soprattutto i novatori che ne hanno impressa la direzione nuova,
esercitassero in pieno la Grazia di Stato.
E se invece vi avessero resistito,
nell’incaponirsi, con ogni mezzo (leggere testi di studiosi come Spadafora, De
Mattei, Gherardini), ad imporre i propri indirizzi e orientamenti che hanno
chiamato “nuova percezione che la Chiesa ha di sé”? Ora stiamo vedendo
che questa nuova percezione, che si sta sempre più inverando, sembra condurci in
un “altrove” pieno di incognite e di oscurità.
Questa pastoralità, che in definitiva è
riforma, innovazione e non rinnovamento, va consolidandosi sempre di più,
allargando inesorabilmente lo iato generazionale, ma soprattutto sostanziale con
il passato che equivale a dire “Tradizione”. Mentre, nella Chiesa, il passato
non può non confluire nel presente per essere traghettato nel futuro, altrimenti
davvero dobbiamo constatarne la mutazione genetica... oggi mi pare che siano in
molti a fraintendere il senso di Tradizione, confondendola con la tradizione
conciliare, posto che il concilio è stato definito come la sintesi
onnicomprensiva e l’espressione più pura dell’intera Tradizione. Penso che
l’inganno e proprio qui. Anche perché non basta una definizione, quando ci sono
molte dimostrazioni, anche autorevoli, del contrario.
Quando si richiamano San Pio X, Leone XIII,
ecc. si obietta che son cambiati gli scenari, che il concetto stesso di “libertà
di coscienza” non può essere inteso come lo intendevano loro. Tuttavia, molti
cambiamenti epocali si sono susseguiti nei secoli. Forse oggi quello più grande
si è determinato dalla perdita del potere temporale da parte della Chiesa e dal
diffondersi di una laicità anzi del ‘laicismo’, che ha eliminato lo Stato come
braccio secolare della Chiesa. Ma finora nessun cambiamento aveva determinato
condizionamenti teologici e storici tali da intaccare i principi, come pare sia
avvenuto.
Lo stesso Rhonheimer, sopra citato, riconosce
giustamente che Pio IX condannava la libertà religiosa perché questa, conducendo
all’indifferentismo, era inconciliabile con il concetto di Verità Rivelata.
Successivamente, pero, egli afferma che la libertà religiosa oggetto di quella
condanna altro non era che “il diritto civile alla libertà di culto”. Dunque, se
il Sillabo ha condannato solo la “libertà di culto” considerato un “diritto
civile”, in questo caso “il diritto naturale” in quanto tale non è toccato
affatto dalla discontinuità che qui si porrebbe. La contraddizione riguarda
l’applicazione “giuridico-politica” del diritto naturale “nelle situazioni e di
fronte a dei problemi concreti”. Ma da questo è possibile far discendere che le
condanne preconciliari perdano il loro peso dogmatico per scadere a contrasti
“nell’applicazione giuridico-politica” del “diritto naturale” alla libertà di
coscienza, nel suo aspetto di libertà di culto?
La parte più impegnativa delle riflessioni che
certamente non mancheranno di appassionare ulteriormente gli studiosi a questo
riguardo, sarà quella di percorrere le affermazioni del saggista che con la sua
autorevolezza ha condotto alla individuazione di alcuni paradigmi nuovi, andando
a verificare in base ai documenti originali dei Papi da lui citati i termini
delle cosiddette variazioni semantiche e, se è possibile, l’effettiva
corrispondenza dei principi, che in altri aspetti della temperie postconciliare
già appare messa in dubbio da talune conseguenze pragmatiche evidenziate (es.
l’evento Assisi e ciò che significa; il principio di inclusività che non
dichiara né espelle l’errore, ecc.).
« La dottrina cattolica ci insegna che il primo dovere della carità non sta nella tolleranza delle convinzioni errate, per quanto sincere possano essere, né nell’indifferenza teorica o pratica per l’errore in cui vediamo cadere i nostri fratelli…Se Gesù è stato buono con gli sviati e i peccatori, Egli non ha rispettato i loro erronei convincimenti, per quanto apparissero sinceri: Egli ha amato tutti per istruirli, convertirli e salvarli ».[18]
« La dottrina cattolica ci insegna che il primo dovere della carità non sta nella tolleranza delle convinzioni errate, per quanto sincere possano essere, né nell’indifferenza teorica o pratica per l’errore in cui vediamo cadere i nostri fratelli…Se Gesù è stato buono con gli sviati e i peccatori, Egli non ha rispettato i loro erronei convincimenti, per quanto apparissero sinceri: Egli ha amato tutti per istruirli, convertirli e salvarli ».[18]
________________________
1. «Tutto ciò che rettamente
enunciarono e trovarono via via filosofi e legislatori, in loro e frutto di
ricerca e speculazione, grazie ad una parte di Logos. Ma poiché non
conobbero il Logos nella sua interezza, che e Cristo, spesso si sono
anche contraddetti» (Seconda apologia, X, 2-3).
Anche Giustino, più che le altre
religioni, valorizza la ricerca filosofica e morale dell’uomo. Egli percepisce
che lo sforzo di comprendere il bene e la verità insito nell’uomo ha a che fare
con Dio e con il suo Logos, sebbene in forma incompleta ed anche
contraddittoria: «Ciascuno infatti, percependo in parte ciò che e congenito
al Logos divino sparso nel tutto, formulo teorie corrette; essi pero,
contraddicendosi su argomenti di maggior importanza, dimostrano di aver
posseduto una scienza non sicura ed una conoscenza non inconfutabile. Dunque ciò
che di buono e stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani. Infatti
noi adoriamo ed amiamo, dopo Dio, il Logos che e da Dio non generato ed
ineffabile, poiché Egli per noi si e fatto uomo affinché, divenuto partecipe
delle nostre infermità, le potesse anche guarire. Tutti gli scrittori,
attraverso il seme innato del Logos, poterono oscuramente vedere la
realtà. Ma una cosa e un seme ed un’imitazione concessa per quanto e possibile,
un’altra e la cosa in se, di cui, per sua grazia, si hanno la partecipazione e
l’imitazione» (Seconda apologia, XIII, 3-5).
Nella prima apologia, aveva fatto derivare la dipendenza di Platone e Socrate dal Logos anche dal fatto che, a suo dire, essi avrebbero letto il Pentateuco e, quindi, avrebbero imparato da Mosè i buoni insegnamenti che si trovano nei loro scritti: «Quando Platone disse: ‘La colpa e di chi sceglie, Dio non e responsabile’, prese il concetto da Mosè, poiché Mosè e più antico anche di tutti gli scrittori greci. Tutte le teorie formulate da filosofi e poeti sull’immortalità dell’anima, o sulle punizioni dopo morte, o sulla contemplazione delle cose celesti, o su simili dottrine, essi le hanno potute comprendere e le hanno esposte prendendo le mosse dai Profeti. Per questo appaiono esserci semi di verità presso tutti costoro. Li si può pero accusare di non aver inteso giustamente, quando si contraddicono tra loro» (Prima apologia, XLIV, 8-9).
2. Nell’uso di questo
termine, nel contesto, potremmo vedere un’eco del “cristianesimo anonimo” di
Rahner.Nella prima apologia, aveva fatto derivare la dipendenza di Platone e Socrate dal Logos anche dal fatto che, a suo dire, essi avrebbero letto il Pentateuco e, quindi, avrebbero imparato da Mosè i buoni insegnamenti che si trovano nei loro scritti: «Quando Platone disse: ‘La colpa e di chi sceglie, Dio non e responsabile’, prese il concetto da Mosè, poiché Mosè e più antico anche di tutti gli scrittori greci. Tutte le teorie formulate da filosofi e poeti sull’immortalità dell’anima, o sulle punizioni dopo morte, o sulla contemplazione delle cose celesti, o su simili dottrine, essi le hanno potute comprendere e le hanno esposte prendendo le mosse dai Profeti. Per questo appaiono esserci semi di verità presso tutti costoro. Li si può pero accusare di non aver inteso giustamente, quando si contraddicono tra loro» (Prima apologia, XLIV, 8-9).
3. Commissione Teologica Internazionale, Il cristianesimo e le religioni, 1996, n. 43.
4. «In doctrina simpliciter
falsa, veritas non est ut anima doctrinæ, sed serva erroris»: R. Garrigou
Lagrange o.P., De Revelatione, Gabalda, Paris, 1921, II, p.
436.
5. R. Garrigou Lagrange o.P.6. Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, n. 9.
7. Dignitatis humanae, n. 2 § 1.
8. Brunero Gherardini, Il Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, 2009.
9. 1 settembre 1980, Messaggio indirizzato alle autorità firmatarie, ad Helsinki, dell'Atto finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa.
10. Messaggio per la giornata mondiale della pace 1991
11. Al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede 9 gennaio 1989, n. 5
12. Ai partecipanti al IX Colloquio Internazionale Romanistico Canonistico organizzato dalla Pontificia Università Lateranense, 11 dicembre 1993
13. ancora Messaggio per la giornata mondiale della pace 1991
14. 5 giugno 1989, Helsinki, Discorso ai membri della Società Paavisikivi
15. Martin Rhonheimer, L’ermeneutica della Riforma e la libertà di religione
“Nova et Vetera”, 85, 4, ottobre-dicembre 2010,
341-363.
16. Martin Rhonheimer, art.
cit.17. Brunero Gherardini, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau 2001, pag. 102.
18. Pio X, Notre charge apostolique, 25 agosto 1910.
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Scheda Appunto MP3
Il principio di libera scelta religiosa nel diritto canonico
- Descrizione:La libertà religiosa venne recisamente condannata nel 1864 da Pio IX nel “Sillabo” e un secolo dopo fu riconosciuta dal Concilio Vaticano II nella dichiarazione “Dignitatis humanae” del 1965. Dal punto di vista storico la libertà religiosa nasce come rivendicazione del diritto dei credenti di poter professare liberamente la propria fede religiosa, con esclusione di qualsivoglia impedimento proveniente dall’esterno; quindi la libertà religiosa ha una valenza propriamente giuridica. Ma la libertà religiosa può essere oggetto di valutazione anche in altri ambiti come quello filosofico e teologico, dove i caratteri salienti sono il rapporto tra verità ed errore e la doverosità o meno di aderire alla verità una volta che sia stata conosciuta.
- Tipologia:Università
- Testo completo:La libertà religiosa venne recisamente condannata nel 1864 da Pio IX nel “Sillabo” e un secolo dopo fu riconosciuta dal Concilio Vaticano II nella dichiarazione “Dignitatis humanae” del 1965. Dal punto di vista storico la libertà religiosa nasce come rivendicazione del diritto dei credenti di poter professare liberamente la propria fede religiosa, con esclusione di qualsivoglia impedimento proveniente dall’esterno; quindi la libertà religiosa ha una valenza propriamente giuridica. Ma la libertà religiosa può essere oggetto di valutazione anche in altri ambiti come quello filosofico e teologico, dove i caratteri salienti sono il rapporto tra verità ed errore e la doverosità o meno di aderire alla verità una volta che sia stata conosciuta. Diversa dalla libertà religiosa è la libertà di coscienza, che costituisce uno dei contenuti della libertà religiosa, ma si può anche dire che è la libertà di coscienza a comprendere quella religiosa se si intende la prima come libertà di avere o meno un credo religioso mentre la seconda l’esercizio della libertà di coscienza nello specifico ambito religioso. La libertà religiosa è da distinguersi anche dalla libertà della Chiesa (libertas Ecclesiae) e dalla libertà cristiana. La prima si pone sul piano giuridico ed è la libertà di cui la Chiesa deve godere nell’ordine temporale; la seconda si pone sul piano teologico e consiste nel moto spontaneo verso il bene della persona, è la libertà di andare verso la verità e comporta il superamento della legge esteriore per intima adesione alla legge di Dio, la carità. Si deve distinguere inoltre dalla tolleranza religiosa, che evoca il non perseguire un fenomeno religioso che si vorrebbe represso. Nella “Mirari vos” e nel “Sillabo” veniva condannata la concezione filosofica della libertà religiosa, tale concezione importava di conseguenza il relativismo, il sincretismo e l’indifferentismo in materia religiosa. E’ ovvio che tali posizioni sono incompatibili con l’essere stesso della Chiesa, per cui non può essere indifferente credere o non credere. Ovviamente il Concilio Vaticano II ha ribadito questi insegnamenti affermando che sul piano morale sussiste l’obbligo di cercare e seguire la verità, poiché verità ed errore non sono sullo stesso piano. Viceversa la dichiarazione conciliare affronta la questione della libertà religiosa dal punto di vista giuridico. Tratta infatti delle responsabilità che incombono sullo Stato nell’assicurare a tutti quella piena libertà grazie alla quale ciascuno può soddisfare l’obbligo morale di conoscere e seguire la verità. Quindi interlocutore del documento conciliare è l’autorità pubblica che non deve obbligare le coscienze ma garantire ciascuno da eventuali coazioni. Nella “Dignitatis humanae” la libertà religiosa è considerata come un diritto naturale, fondato sulla dignità della stessa persona umana, che si definisce diritto ad essere immuni da coercizioni esterne in materia religiosa. Sono titolari di questo diritto tutti gli uomini, infatti a motivo della loro dignità tutti quanti gli uomini sono spinti dalla loro stessa natura a cercare la verità, soprattutto quella concernente la religione. Però gli uomini non sono in grado di soddisfare a questo obbligo se non godono della libertà psicologica e dell’immunità dalla coercizione esterna. Si tratta dunque di un diritto pubblico soggettivo, cioè un diritto del soggetto che si esprime nei rapporti per i quali si manifesta il potere di comando (imperium), ed è al contempo un diritto individuale ed un diritto collettivo, che spetta in primo luogo ad ogni uomo ma di cui possono essere titolari anche formazioni sociali. La libertà religiosa comporta il diritto di non essere impediti ad agire in conformità della propria coscienza, ma ciò può incontrare dei limiti. Infatti nell’esercizio di tutte le libertà si deve osservare il principio morale della responsabilità personale e sociale: quindi tener conto tanto dei diritti altrui quanto dei propri doveri verso gli altri, quindi agire secondo giustizia e umanità. Poiché la società civile ha il diritto di tutelarsi contro gli abusi, spetta soprattutto al potere civile provvedere a tale protezione secondo norme giuridiche conformi all’ordine morale oggettivo. Limite legittimo al diritto di libertà religiosa è quello che si uniforma rigorosamente ai diritti umani o diritti naturali. Nella Chiesa è sempre stato costante l’insegnamento per cui l’atto di fede non può che essere libero. Il Vaticano II afferma che l’uomo deve rispondere volontariamente a Dio credendo, perciò nessuno può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Il diritto interno della Chiesa vieta ogni coazione nell’opera di evangelizzazione e nell’amministrazione del battesimo (cann. 748 ed 865). Con il pontificato di Giovanni Paolo II il magistero sulla libertà religiosa è stato approfondito. Sicuramente con la Lettera ai Capi di Stato sulla libertà religiosa e sul documento finale di Helsinki, del primo settembre 1980, nella quale è chiarito il pensiero della Chiesa sulla libertà religiosa come diritto dell’uomo, individuale e collettivo, in particolare come diritto delle singole confessioni religiose. Si dilunga nell’individuare e definire i singoli contenuti del diritto di libertà religiosa, evidenziando come nella moderna società non possa essere più ristretto nella classica libertà di professare la propria credenza religiosa, nella libertà di culto o nella libertà di proselitismo. E’ precisato che sul piano personale libertà religiosa significa anche libertà di educazione religiosa dei figli; la libertà delle persone di beneficiare dell’assistenza religiosa; libertà di non essere costretti a compiere degli atti contrari alla propria fede; libertà di non subire limitazioni e discriminazioni nelle diverse manifestazioni di vita. Sul piano comunitario libertà religiosa è la libertà che ad ogni comunità religiosa deve essere assicurata di scegliere liberamente i propri ministri, di esercizio del ministero, di avere istituti di formazione religiosa, di pubblicare libri religiosi, di comunicare ed insegnare la fede con ogni mezzo, di svolgere attività di educazione, di beneficenza, di assistenza. Nella misura in cui la libertà religiosa raggiunge la sfera più intima dello spirito, essa sostiene la ragion d’essere delle altre libertà, cioè è matrice e fondamento di tutte le altre libertà. Rispetto alla “Dignitatis humanae”, che parte da una definizione in negativo della libertà religiosa, Giovanni Paolo II la colloca in un contesto positivo, relativamente alle responsabilità nel rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della vita religiosa a livello individuale e a livello
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pubblicato nel Courrier de Rome, Parigi, 15.5.76, anno X, n° 157, pp. 3-20. Comparso in italiano in Cristianità, Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno IV, n° 19-20, settembre-dicembre 1976, pp. 13-18. ] Alcuni testi del Concilio Vaticano II sono, piú o meno, contaminati dagli errori liberali? È quanto affermò durante il Concilio stesso il Cetus Internationalis Patrum, che raggruppava i vescovi tradizionalisti. Successivamente l'accusa non ha mai cessato di essere formulata da alcuni teologi isolati, ma, eccetto che presso una esigua minoranza di "integristi", come si dice, essa fu sempre accolta con indifferenza fino al momento, recentissimo, in cui il penoso affaire di Ecône non la mise in primo piano nell'attualità cattolica. A coloro che s'indignassero per il fatto che si possa supporre che un testo conciliare sia discutibile, ricorderò, come peraltro ha detto il Santo Padre stesso, che nessun testo del Vaticano II ha il carattere di definizione o di decisione infallibile (1). Con tutto il rispetto dovuto alla Chiesa docente, i teologi sono dunque liberi di discutere la questione che è l'oggetto del presente articolo. Notiamo tuttavia che solo il Papa mediante definizioni ex cathedra potrebbe dare una soluzione completa e definitiva ai gravi interrogativi sollevati dalle accuse di cui sono oggetto alcuni testi del Vaticano II (2). I - La Contraddizione Ma supponiamo ora che una affermazione sia in contraddizione evidente, chiara, manifesta, con una dottrina che la Chiesa ha infallibilmente definito. Abbiamo bisogno in tal caso di un giudizio della Chiesa docente per rifiutarla? Immaginiamo per esempio che una setta sostenga che in Dio vi sono solo due persone: il Padre e il Figlio. Abbiamo bisogno di un giudizio della Chiesa docente per dire che questa affermazione deve essere respinta, perché in contraddizione con il dogma trinitario infallibilmente definito? Certo, una contraddizione tra due dottrine non è sempre manifesta e in questo caso è richiesto il giudizio della Chiesa docente. Quando però si tratta di due dottrine chiaramente formulate e di cui l'una è manifestamente la negazione dell'altra, abbiamo bisogno di un giudizio della Chiesa docente per convincerci che vi è contraddizione? Constatando una contraddizione evidente, non esprimiamo alcun giudizio dottrinale, ma solo un giudizio di fatto. Non siamo piú nel campo della teologia, ma in quello della logica. La dichiarazione sulla libertà religiosa. Con i vescovi del Cetus Internationalis Patrum affermo da dieci anni, senza che alcuno mi abbia mai dato risposta, se non per mezzo di scappatoie, che vi è una contraddizione evidente, chiara, manifesta, tra certe affermazioni del Vaticano II e la dottrina tradizionale a proposito della libertà religiosa in foro esterno. Inoltre, queste affermazioni del Vaticano II sono la riproduzione quasi parola per parola delle proposizioni condannate da Pio IX in forma infallibile. Ora, poiché queste affermazioni conciliari non sono state definite infallibilmente, non dobbiamo forse noi rifiutarle? Ma, non volendo accettare questa conclusione, i difensori del Concilio si sono trovati nella necessità di sostenere che non vi è contraddizione, poiché la dottrina conciliare è solo, secondo loro, lo sviluppo della tradizione. Confronteremo piú avanti i testi, ma ci si rende conto che dichiarando compatibili due dottrine che almeno nove persone su dieci stimerebbero contraddittorie, si compromette la credibilità di tutto quanto insegna la Chiesa? II - Il Liberalismo - Il Cattolico Liberale Nella sua essenza il liberalismo è il rifiuto di accettare una verità o una legge imposta all'uomo dall'esterno (3). L'uomo dev'essere libero di giudicare lui stesso la verità. A ciascuno la sua verità. Secondo la dottrina cattolica, al contrario, l'uomo ha il dovere di credere alle verità che Dio ha rivelato e che sono insegnate infallibilmente dalla Chiesa. I due punti di vista sono inconciliabili e i massoni, per i quali il liberalismo è un dogma, su questo punto non si sono ingannati. Ascoltiamo uno di loro: «Maestra di verità! Mai, senza dubbio, la Chiesa aveva manifestato la sua imperiosa volontà di imporre il suo dogma e sottolineato che questo dogma era l'unica verità, in termini cosí categorici, cosí definitivi nella loro brutalità, mai con una formula che tanto colpisce. Bisogna allora onestamente porsi il problema di sapere dove possa sboccare un dialogo con un interlocutore che dichiara, all'esordio di questo dialogo, che lui è padrone della verità per volontà di Dio» (4). A rigore, infatti, cattolico e liberale sono due termini che si escludono. Nella loro grande maggioranza i cattolici attuali sono, tuttavia, piú o meno liberali. Ciò non significa che questi cattolici abbiano personalmente passato l'insegnamento della Chiesa al vaglio della loro ragione, per ritenere soltanto quanto personalmente hanno giudicato vero, un tale cattolico rappresenta in verità l'eccezione. Ma i cattolici sono oggi immersi in un mondo il cui pensiero si allontana sempre piú dalla dottrina tradizionale della Chiesa. Sollecitato e diviso tra questa dottrina e il "pensiero moderno", il cattolico liberale di oggi e colui che cerca o adotta compromessi tra questi due sistemi di pensiero. Questa sete di compromesso ha invaso la Chiesa stessa; un teologo "moderno" non cerca piú tanto di approfondire la dottrina e di opporla agli errori attuali; cerca soprattutto di distorcerla (nel modo meno visibile) in modo da evitare il piú possibile gli attriti con il pensiero moderno (5). Non è possibile, in un semplice articolo, enumerare tutti questi compromessi. Mi limiterò all'esame della tesi che figura nella dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa e che è relativa ai rapporti tra il potere civile e il potere spirituale. III - La Dottrina della Chiesa sul Potere Civile Non spetta alla Chiesa dare costituzioni agli Stati, ma solo enunciare i grandi principi di ordine morale cui queste costituzioni devono ottemperare. Questa dottrina della Chiesa sul potere civile è immutabile; essa è infatti fondata nella Scrittura e nella Tradizione ed è stata costantemente insegnata dalla Chiesa a partire dai Padri fino a Pio XII compreso. Essa è dunque garantita dal Magistero ordinario infallibile della Chiesa. Inoltre, come vedremo piú in dettaglio, alcuni punti di questa dottrina sono stati oggetto di definizioni ex cathedra e sono dunque garantiti dalla infallibilità del Magistero straordinario della Chiesa. La dottrina. Essendo stato creato da Dio, avendo ricevuto tutto da Dio, l'uomo deve rendere omaggio al suo Creatore e soprattutto a Gesú Cristo, il Verbo di Dio che è stato costituito dal Padre suo Re dell'Universo. Consideriamo bene quanto - richiamato da Pio XII - ha insegnato Leone XIII: «L'impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni ve li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi della fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesú Cristo» (6). Pio XI osserva poi: «Non v'è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli» (7). Lo Stato non ha dunque il diritto di essere "laico"; deve, in quanto Stato, riconoscere la regalità di Gesú Cristo e rendergli omaggio. E, beninteso, fare in modo che non vi sia alcuna contraddizione tra le leggi civili che promulga e le leggi di Dio. Lo Stato ha il dovere di assicurare il bene comune della città e deve in particolare proteggere i cittadini. Tutti trovano naturale che si opponga al libero commercio della droga, che devasta i corpi, e che quindi nessuno sia obbligato ad acquistarla. La Chiesa aggiunge che lo Stato ha anche il dovere di proteggere i cittadini contro le idee false che devastano le anime. «Ma qual può darsi morte peggiore dell'anima che la libertà dell'errore?», dichiarava sant' Agostino. La Chiesa non ammette dunque la libertà di dire e di scrivere qualunque cosa; in opposizione completa al pensiero moderno ritiene infatti che solo la verità abbia dei diritti. L'errore non ne ha alcuno e può tutt'al piú essere tollerato. Derivando l'una e l'altro il loro potere da Dio ed esercitandosi la loro giurisdizione sugli stessi soggetti, la Chiesa e lo Stato non possono ignorarsi, benché costituiscano due poteri distinti: «Ma poiché uno e medesimo è il soggetto di ambedue le potestà, e potendo una medesima cosa, quantunque sotto ragione e aspetto differente, appartenere alla giurisdizione dell'uno o dell'altra […]. Devono dunque essere tra loro debitamente ordinate le due potestà» (8). In altri termini la Chiesa condanna la separazione tra Stato e Chiesa. Anche se spiace alla mentalità moderna, la dottrina cattolica sullo Stato, come fu esposta dai Padri fino a Pio XII compreso, è non poco intollerante. Essa afferma che, poiché Cristo ha fondato una sola religione, si deve, nella misura del possibile, cercare di instaurare lo Stato cattolico. E poiché il culto cattolico è il solo pienamente gradito a Dio, nessun altro culto pubblico dovrebbe di principio essere tollerato. La Chiesa non impone alcuna forma di governo. Essa ammette sia la repubblica che la monarchia, purché siano rispettati i principi che ho riassunti. Le realizzazioni. Dal 313, Costantino e i suoi successori si sforzano di realizzare questo ideale (9). Dapprima religione ammessa, la religione cattolica fu presto proclamata religione dello Stato. Dopo la caduta dell'impero, Clodoveo è consacrato re e monarchie cattoliche vengono instaurate pressocché in tutta Europa. Fino all'inizio del secolo XX lo Stato cattolico (o almeno confessionale) è la regola generale. In realtà sono sempre esistiti Stati cattolici e il 27 agosto 1953 - data relativamente recente - è stato firmato un concordato tra la Santa Sede e la Spagna di cui ecco l'art. 1: «La religione cattolica, apostolica, romana continua a essere la sola religione della nazione spagnola […]» (10). Il concordato del 1953 non annullava la Carta degli Spagnoli del 13 luglio 1945 che dichiarava: «[…] nessuno sarà molestato per le sue convinzioni religiose né per l'esercizio privato del suo culto. Non si autorizzeranno altre cerimonie né altre manifestazioni esterne se non quelle della religione cattolica» (11). La tolleranza. La tesi e l'ipotesi. Ma la Chiesa cattolica non ignora che, in campo politico, l'ideale non sempre è realizzabile. Essa ammette dunque che nei paesi divisi da diverse fedi e per evitare un male peggiore, lo Stato cattolico tolleri l'esercizio di altri culti. È per questo che Enrico IV, per evitare la guerra civile, concesse ai protestanti con l'editto di Nantes, il diritto (limitato) di esercitare pubblicamente il loro culto (12). Da cui la classica distinzione fra la tesi e l'ipotesi. La tesi è la dottrina cattolica in tutta la sua purezza; l'ipotesi è ciò che è possibile realizzare, tenuto conto delle circostanze. Ma la Chiesa chiede che non si perda mai di vista la tesi e che si faccia tutto ciò che è possibile per realizzarne il massimo. Di fatto, nell'editto di Nantes, il protestantesimo è sempre chiamato «la religione che si pretende riformata», cosa che mostra con chiarezza che gli estensori dell'editto avevano tenuto a sottolineare in questo modo come la religione cattolica sia la sola vera e sola abbia dei diritti. Ma la giusta distinzione tra la tesi e l'ipotesi servirà di pretesto ai cattolici liberali per rinnegare la dottrina tradizionale, che essi dichiarano non piú confacente al nostro tempo. Come vedremo piú in dettaglio, il Concilio Vaticano II andrà piú lontano ancora, senza piú occuparsi della tesi, che non richiamerà neppure, dichiarerà che la libertà religiosa in foro esterno è un diritto per gli adepti di qualsiasi religione e che questo diritto scaturisce dalla dignità della persona umana. Cedendo allora alle reiterate pressioni della Santa Sede, il generale Franco accordò agli Spagnoli, il 28.6.1967, la piena libertà per tutti i culti. IV - Il Liberalismo Cattolico e le sue condanne Con liberalismo cattolico e l'espressione equivalente cattolicesimo liberale, si indica soprattutto un insieme di teorie sostenute nel secolo XIX che minimizzano la dottrina tradizionale sullo Stato, che ho appena riassunto. Queste teorie furono condannate da tutti i Papi che si sono succeduti da Gregorio XVI a Pio XII. Inoltre Pio IX, come vedremo piú particolarmente, per condannarle impegnò nella Quanta cura l'infallibilità pontificia. Gregorio XVI e l'enciclica Mirari vos. Nel 1830 l'abbé Lamennais sosteneva che ogni uomo ha il diritto di manifestare pubblicamente le sue opinioni e che di conseguenza lo Stato deve ammettere il libero esercizio di tutti i culti. Egli faceva notare che nel sistema dello Stato cattolico, che ha regnato per piú di quindici secoli, il potere spirituale e temporale non hanno mai cessato di contendere (san Luigi stesso ebbe difficoltà con la Santa Sede). Separando completamente i poteri, la Chiesa godrà di una piena libertà, che dovrebbe, secondo lui, accrescere la sua influenza (13). Tutte queste idee furono sostenute con talento nel giornale L'Avenir di cui Lamennais era l'ispiratore. Ma Roma, dal 1832, le condanna. Nell'enciclica Mirari vos, Gregorio XVI denuncia anzitutto l'indifferentismo, che sostiene che tutte le religioni salvano, e poi scrive queste righe, le ultime delle quali - che sottolineo - predicono i frutti amari del liberalismo, come li possiamo constatare oggi: «Da questa corrottissima sorgente dell'indifferentismo scaturisce quell'assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che debbasi ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza(14):errore velenosissimo a cui appiana il sentiero quella assoluta e smodata libertà d'opinare che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata, provenire da siffatta licenza alcun comodo alla Religione. “Ma qual può darsi morte peggiore dell'anima che la libertà dell'errore?” diceva sant'Agostino. Tolto infatti ogni freno che contenga nelle vie della verità gli uomini già volgentisi al precipizio per la natura inclinata al male, potremmo dire con verità essersi aperto il pozzo dell'abisso […]. Di là infatti proviene l'instabilità degli spiriti, di là la depravazione della gioventú, di là il disprezzo nel popolo delle cose sacre e delle leggi piú sante, di là in una parola la peste della società piú di ogni altra funesta […] » (15). Non è precisamente quanto accade nella nostra società liberale avanzata? I cattolici liberali si sottomisero e L'Avenir chiuse i battenti. Ma Lamennais finí per abbandonare la Chiesa. Pio IX, il Sillabo e l'enciclica Quanta cura. La seduzione delle idee liberali era tale che il liberalismo cattolico riapparve venti o trent'anni dopo. Montalembert, che si era sottomesso nel 1832, ne fu uno dei piú ardenti difensori. Egli sostenne con talento che bisogna riconciliare il cattolicesimo e la democrazia, la quale esige prima di tutto la libertà religiosa. Egli affermò che la libertà è piú utile alla Chiesa che non la protezione dei re. I discorsi di Montalembert ebbero una grande eco. Ma l'8 dicembre 1864 il successore di Gregorio XVI, Pio IX, condanna di nuovo il liberalismo cattolico nel Sillabo e nell' enciclica Quanta cura. Ecco qui, per esempio, due articoli del Sillabo. Sono condannate le seguenti proposizioni: «55. Si deve separare la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa. - 77. Ai giorni nostri non giova piú tenere la religione cattolica per unica religione dello Stato, escluso qualunque sia altro culto» (16). Ma ecco un fatto nuovo. Nell'enciclica Quanta cura, Pio IX, come vedremo, impegna l'infallibilità pontificia. Perciò dedicherò piú avanti tutto un paragrafo alle condanne formulate in questa enciclica (17). Mons. Dupanloup. Scoraggiati da questa nuova condanna, Montalembert e i suoi amici erano del parere di rinunciare alla lotta. Ma questa fu ripresa con un opuscolo che mons. Dupanloup, vescovo di Orleans, inviò a tutti i vescovi e anche al Papa. Mons. Dupanloup sosteneva che si fossero letti male la Quanta cura e il Sillabo. Egli faceva numerose osservazioni esatte (come la distinzione logica tra contrario e contraddittorio), ma per il resto si teneva costantemente al limite del sofisma. Riprendeva la distinzione tra la tesi e l'ipotesi, ma lasciando intendere che le tesi di Pio IX erano ormai irrealizzabili. Poiché nell'opuscolo non vi era niente di positivamente falso, Pio IX ringraziò mons. Dupanloup dell'invio, ma con una riserva che mostra come avesse ben compreso quanto stava per succedere. Infatti i cattolici liberali restarono sulle loro posizioni: continuarono soprattutto a chiedere la separazione di Chiesa e Stato (che non si era ancora realizzata a quel tempo) e rimasero cosí fedeli a una tattica che in seguito non hanno mai abbandonata: invece di lottare contro i nemici della Chiesa si esige insieme a loro quanto si pensa che inevitabilmente un giorno sarà ottenuto. Leone XIII. Leone XIII succede a Pio IX. Nelle encicliche Immortale Dei, sulla costituzione cristiana degli Stati (1885), e Libertas, sulla libertà (1888), riprende tutte le tesi tradizionali sullo Stato cattolico. Nella Libertas fa suo quanto vi è di esatto nella distinzione tra la tesi e l'ipotesi, ma riprende anche, senza una sola eccezione, tutte le condanne formulate da Gregorio XVl e Pio IX, e cita esplicitamente l'enciclica Mirari vos e il Sillabo. Una volta ancora il liberalismo cattolico è condannato. San Pio X. San Pio X succede a Leone XIII ed è sotto il suo pontificato che la Repubblica francese denuncia, nel 1905, il concordato, proclamando che lo Stato da ora sarà laico e non riconoscerà piú alcun culto. San Pio X protesta con l'enciclica Vehementer, dell'11 febbraio 1906, e lo fa con termini che costituiscono una nuova condanna del liberalismo cattolico: «[…] in virtú dell'autorità assoluta che Iddio Ci ha conferito, Noi […] riproviamo e condanniamo la legge votata in Francia sulla separazione della Chiesa e dello Stato come profondamente ingiuriosa rispetto a Dio che essa rinnega ufficialmente, ponendo il principio che la Repubblica non riconosce nessun culto» (18). Era la rinnovata affermazione, una volta ancora, che, contrariamente alla tesi liberale, lo Stato deve rendere omaggio a Dio e obbedire anch'esso a Gesú Cristo, solo e vero Re delle Nazioni, e che in ogni caso lo Stato non può lasciare che si propaghi liberamente l'errore come se avesse lo stesso titolo della verità. E se lo Stato lo fa, la Chiesa non può in nessun modo approvarlo. Pio XI e la festa di Cristo Re. Non appena elevato al sommo pontificato, nel 1922, Pio XI condanna esplicitamente il liberalismo cattolico nella sua enciclica Ubi arcano Dei. Ma egli comprende presto che, essendo rimaste inoperanti le condanne dei suoi predecessori, sarebbe accaduto lo stesso delle sue. Utilizza allora un altro metodo, che avrebbe probabilmente avuto successo, se, senza volerlo, non l'avesse vanificato con le sue stesse mani. Poiché il popolo non legge le encicliche, Pio XI pensa che il miglior modo per istruirlo sia quello di utilizzare la liturgia. Nell'enciclica Quas primas, dell'11 dicembre 1925, egli espone anzitutto in termini luminosi una teologia esauriente della regalità di Cristo e dimostra che essa implica necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto è in loro potere per tendere verso l'ideale dello Stato cattolico. «Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll'azione e coll'opera loro, sarebbe dovere dei cattolici […] » (19). Dichiara poi di istituire la festa di Cristo Re spiegando la sua intenzione di opporre cosí «un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l'umana società. La peste della età nostra è il cosí detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi» (20). Disgraziatamente, male informato sulla situazione religiosa e politica che regna in Francia in quel momento, Pio XI renderà inoperante la festa di Cristo Re, colpendo, meno di un anno dopo, i cattolici antiliberali piú attivi, mentre per contro, né lui, né i vescovi danno disturbo ai cattolici liberali. In realtà i cattolici antiliberali, in quel tempo, facevano capo a due movimenti: l'Action Française, guidata da un ateo, Charles Maurras, e la Federation Nationale Catholique del generale de Castelnau. La condanna dei cattolici dell'Action Française (che Pio XII tolse non appena elevato al sommo pontificato) fu interpretata (a torto) come quella dell'anti-liberalismo. Dopo questo periodo i cattolici antiliberali in Francia sono solo una minoranza di isolati. Hanno perduto ogni influenza e, nel timore di essere trattati da fascisti, rari sono coloro che osano manifestare le loro opinioni. La vittoria dei cattolici liberali era dunque totale. La separazione di Chiesa e Stato, la completa libertà di stampa, si erano realizzate ed erano considerate normali dalla stragrande maggioranza dei francesi. L'esistenza di un partito cattolico-liberale era divenuta inutile, e l'espressione liberalismo cattolico cadde in dimenticanza. Ma ora in Francia progrediscono le idee politiche di sinistra e con esse i cattolici liberali cercheranno compromessi. Mounier con la rivista Esprit, i domenicani con la rivista Sept amoreggiano con il socialismo e il marxismo. I cattolici liberali virano a sinistra e andranno sempre piú avanti su questa via. Dopo la liberazione essi si organizzano in un potente movimento politico, il MRP (Mouvement des Republicains Populaires) di cui Marc Sangnier fu, fino alla morte avvenuta nel 1950, il presidente onorario (21). Vedremo come nel 1946 il MRP doveva tradire vergognosamente la causa di Cristo Re. E l'enciclica? Docilmente la Chiesa celebra ogni anno, dal 1925, la festa di Cristo Re, ma vescovi, sacerdoti e fedeli non ne comprendono piú il significato (22). Il MRP e la festa di Cristo Re. Nel 1946 fu necessario dare alla Francia una nuova costituzione. I comunisti presentarono una proposta in parlamento chiedendo che la laicità dello Stato fosse esplicitamente menzionata, cosa a cui gli autori del progetto costituzionale non avevano pensato. Il MRP era allora un partito potente e i suoi deputati costituivano un terzo del parlamento. Ma, per le ragioni dette, questo partito cattolico era liberale e non poco orientato a sinistra. Il progetto costituzionale era sostenuto dai socialisti e dai comunisti, che occupavano un terzo dei seggi, e combattuto invece dai deputati che sedevano alla destra del MRP, che costituivano il rimanente terzo, e pertanto il MRP era arbitro della situazione. Dimenticando completamente che Pio XI aveva istituito la festa di Cristo Re per ricordare ai cattolici il loro dovere di lottare contro il laicismo, frutto del liberalismo condannato dai Papi, il MRP, che poteva far respingere l'emendamento sulla laicità, si guardò bene dal farlo. Non ricordo piœ ora se votò a favore o si astenne, ma rimane sempre il fatto che fu grazie a un partito cattolico che la laicità dello Stato fu promossa per la prima volta al rango di legge costituzionale. E per una sorprendente coincidenza, nella quale vedo, per conto mio, uno scherzo del demonio, questa costituzione laica fu promulgata sulla gazzetta ufficiale con la data del 27 ottobre 1946, giorno della festa di Cristo Re! De Gaulle e la costituzione del 1958. Dodici anni dopo questa repubblica laica crolla senza gloria, e un generale cattolico è incaricato di proporre una nuova costituzione. Ma anch'egli è un cattolico liberale e inscrive anche la laicità dello Stato nella costituzione, che sottopone all'approvazione dei francesi mediante referendum. Un gruppo assai esiguo di cattolici anti-liberali fece una campagna contro questa costituzione empia, ma fu sconfessato dalla quasi totalità dei vescovi; bisognava salvare l' Algeria e l'impero. Il seguito lo si conosce. Pio XII. Pio XII è un Papa moderno che si preoccupa già dell'organizzazione di comunità di Stati. In un discorso del 6 dicembre 1953, dedicato a questo problema, egli ricorda, una volta ancora, i principi tradizionali: «[…] nessuna autorità umana, nessuno Stato, nessuna Comunità di Stati, qualunque sia il loro carattere religioso, possono dare un mandato positivo o una positiva autorizzazione d'insegnare o di fare ciò che sarebbe contrario alla verità religiosa o al bene morale» (23). Come Leone XIII, egli riconosce che l'ideale non è sempre realizzabile; è dunque spesso necessario usare tolleranza; ma, nella determinazione di ciò che occorre fare in pratica, lo statista cattolico «[…] nella sua decisione si lascerà guidare dalle conseguenze dannose, che sorgono dalla tolleranza, paragonate con quelle che mediante l'accettazione della formula di tolleranza verranno risparmiate alla Comunità degli Stati» (24). Le tesi sullo Stato, proprie del cattolicesimo liberale, erano una volta ancora condannate. Senza esito migliore. Da Pio XII ai nostri giorni. Le idee sovvertitrici dello stesso ordine naturale, segnatamente il marxismo, guadagnano tutti i giorni terreno. Ma la Chiesa, come in preda allo scoraggiamento, ha praticamente rinunciato a opporre loro la barriera invalicabile della sua dottrina. Pur affermando la sua volontà di non rinunciare a nulla, essa cerca compromessi con questo mondo, che non vuol piú intendere ragione. Ed è con questo stato d'animo che si apre il Vaticano II. Conclusione. In questo anno 1976, i francesi, costernati, si preoccupano dell'anarchia che regna dovunque, e specialmente del disorientamento della gioventú: anarchia nell'insegnamento, cinema pornografico, incitamento dei minori alla corruzione attraverso la libera vendita dei contraccettivi, aborto libero, ecc. V - La dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa Essa segnerà un mutamento di rotta senza precedenti nella storia della Chiesa. Foro interno e foro esterno. Non si possono cogliere le contraddizioni tra la dottrina tradizionale e la dichiarazione del Vaticano II se non si distingue bene tra la libertà religiosa in foro interno e la libertà religiosa in foro esterno, distinzione che la dichiarazione ignora. Circa la libertà religiosa in foro interno, non si coglie nessuna contraddizione tra la dottrina tradizionale e quella esposta dal Concilio. Certamente, davanti a Dio, la libertà religiosa non è un diritto, poiché ogni uomo è tenuto a cercare la verità e ad aderirvi (come ricorda d'altra parte la dichiarazione conciliare). Ma se la posizione che l'uomo assume resta puramente interiore, questo è affare da regolarsi tra lui e Dio solo, e di cui i pubblici poteri non sono tenuti a occuparsi. In particolare, nessuna autorità umana ha il diritto di esercitare pressioni su qualcuno per forzarlo a credere (25). Ma, come ha sempre insegnato la Chiesa, la libertà religiosa in foro interno non implica affatto la libertà religiosa in foro esterno, vale a dire il diritto di praticare pubblicamente qualsiasi culto, di insegnare qualsiasi errore. La libertà di ognuno in questo campo è limitata infatti dal diritto degli altri a essere protetti contro le idee false, che possono essere tanto pericolose per le anime (e anche per l'uomo nella sua completezza) quanto la droga per i corpi. La dichiarazione del Vaticano II. Ecco qui il passo essenziale relativo all'argomento di cui trattiamo: «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Questa libertà consiste in ciò, che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte sia di singoli individui, sia di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, e in modo tale, che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità ad essa privatamente e pubblicamente, da solo o associato ad altri. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce sia per mezzo della parola di Dio rivelata sia tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa dev'essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società» (26). Notiamo anzitutto che non viene fatta alcuna distinzione tra foro interno e foro esterno, a proposito dei quali la dottrina tradizionale non ha la stessa posizione. Privatamente è il foro interno, pubblicamente è il foro esterno. Notiamo poi che la dichiarazione non fa alcuna differenza tra forzare ad agire e impedire ad agire. Secondo la dottrina tradizionale, lo Stato non può forzare qualcuno ad agire contro la sua coscienza, ma ha il diritto, per contro, in casi determinati, di impedirgli di agire secondo la sua coscienza (27). Il Concilio pone tuttavia una restrizione: «Entro debiti limiti», dice. Questa nozione assai vaga sarà precisata piú avanti. Lo Stato non ha il diritto d'intervenire se non quando l'ordine pubblico è minacciato: «Si fa quindi ingiuria alla persona umana e allo stesso ordine stabilito da Dio agli uomini, se si nega all'uomo il libero esercizio della religione nella società, una volta rispettato l'ordine pubblico giusto» (28). Il Concilio non ha voluto parlare solo della religione cattolica, ma di qualunque religione. Infatti, dopo avere spiegato che l'uomo è tenuto per obbligo morale a ricercare la verità e ad aderirvi, il Concilio dichiara: «Per cui il diritto a questa immunità perdura anche in coloro che non soddisfano all'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa» (29). Il Concilio non condanna totalmente lo Stato cattolico; lo accetta volentieri, ma alla condizione che sia accordata agli adepti delle altre religioni la stessa libertà di culto e di propaganda che ai cattolici: «Se, considerate le circostanze particolari dei popoli, nell'ordinamento giuridico di una società viene attribuito ad una determinata comunità religiosa uno speciale riconoscimento civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e a tutte le comunità religiose venga riconosciuto e sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa» (30). E piú avanti: «Nello stesso tempo i cristiani, come gli altri uomini, godono del diritto civile di non essere impediti di vivere secondo la propria coscienza. Vi è quindi concordia fra la libertà della Chiesa e quella libertà religiosa che dev'essere riconosciuta come un diritto a tutti gli uomini e a tutte le comunità e che dev'essere sancita nell'ordinamento giuridico» (31). Tutto questo era la condanna del concordato con la Spagna, stipulato esattamente dodici anni prima, che Pio XII aveva dichiarato essere uno dei migliori! Poiché molti Padri avevano fatto notare che non si faceva alcun cenno della differenza tra la verità e l'errore, tra la religione vera e le altre, si aggiunse un preambolo che ricordava come l'unica e vera religione fosse la religione cattolica. Ma questa aggiunta non infirma per nulla la tesi sulla libertà religiosa in foro esterno, sostenuta nella dichiarazione. La libertà religiosa e la Rivelazione. La dignità dell'uomo. Rifiutando sempre ogni distinzione tra foro interno e foro esterno, il Concilio afferma che: «una tale dottrina sulla libertà ha le sue radici nella Rivelazione divina, per cui tanto piú dai cristiani va rispettata con sacro impegno» (32). Come vedremo nel paragrafo seguente, Pio IX, nella Quanta cura, affermava il contrario. Egli diceva, infatti, che la libertà religiosa in foro esterno è «contro la dottrina delle Scritture, della Chiesa e dei Santi Padri» (33). I passi della Scrittura che condannano la libertà religiosa in foro esterno sono infatti innumerevoli. Per esempio, non è Dio stesso che ha ordinato a Gedeone di andare a rovesciare l'altare di Baal, che apparteneva allo stesso padre suo? (34). Il Concilio riconosce tuttavia come «la Rivelazione non affermi esplicitamente il diritto all'immunità dalla coercizione esterna in materia religiosa» (35). Ma allora, in che modo la dottrina conciliare ha la sua fonte nella Rivelazione? Nella maniera seguente (secondo il Concilio): è perché la Rivelazione «fa tuttavia conoscere la dignità della persona umana in tutta la sua ampiezza, mostra il rispetto di Cristo verso la libertà dell'uomo nell'adempimento del dovere di credere alla parola di Dio, e ci insegna lo spirito che i discepoli di un tale Maestro devono assimilare e manifestare in ogni loro azione» (36). Mi sembra chiaro come questo si applichi alla libertà religiosa in foro interno, ma non vedo il rapporto con la libertà religiosa in foro esterno. Comunque, la dichiarazione afferma a piú riprese che le sue tesi sono fondate sulla nozione della dignità dell'uomo. Siccome gli estensori della dichiarazione traggono conclusioni contrarie a proposizioni infallibilmente definite, bisogna concludere che nel loro ragionamento vi è qualche cosa che non va. Dov'è l'errore? Alla Chiesa docente tocca dirlo. Con tutto il rispetto dovuto a questa Chiesa docente, e lasciando impregiudicato il suo giudizio, si può pensare che non si sia tenuto sufficientemente conto non solo dei diritti del prossimo, ma anche della dignità di Dio, la quale, in caso di conflitto, ha la meglio sulla dignità dell'uomo. Conclusione. Questi sono i testi, ed è sufficiente leggerli per constatare che le tesi del Concilio sulla libertà religiosa in foro esterno sono in contraddizione con la dottrina tradizionale. La dichiarazione ci dice che «questo Concilio Vaticano scruta la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi sempre in armonia con quelli già posseduti» (37). Di fatto la dichiarazione si riferisce diciotto volte a testi pontifici. Perché non si fa alcuna menzione delle encicliche Mirari vos, Quanta cura e del Sillabo? Guardiamo dunque piú da vicino ciò che diceva Pio IX nella Quanta cura. VI - La dichiarazione del Vaticano II di fronte alle condanne infallibili della Quanta cura. La Quanta cura è una delle rarissime encicliche che sia un documento ex cathedra. Poiché i redattori della dichiarazione non ne hanno tenuto alcun conto, credo anzitutto necessario ricordare le condizioni della infallibilità, che ogni teologo e ogni cattolico colto dovrebbe peraltro conoscere! Le condizioni dell'infallibilità pontificia. Andiamo direttamente alla fonte: la costituzione sulla Chiesa del Vaticano I (1870): «Quindi Noi aderendo fedelmente alla tradizione ricevuta dai primi tempi della fede cristiana, a gloria di Dio nostro Salvatore, ad esaltazione della religione cattolica e della salute dei popoli cristiani, approvante il sacro Concilio, insegniamo e definiamo essere dogma divinamente rivelato, che il Romano Pontefice, quando parla ex Cathedra, cioè quando, adempiendo l'ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i Cristiani, in virtú della sua suprema Autorità apostolica, definisce una dottrina riguardante la fede ed i costumi, da tenersi da tutta la Chiesa: in virtú della divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, è dotato di quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle che fosse fornita la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede o ai costumi; e che perciò tali definizioni del Romano Pontefice per sé stesse, e non già mediante il consenso della Chiesa, sono irreformabili. Se poi qualcuno oserà, che Dio non lo permetta!, di contraddire a questa Nostra definizione: sia anàtema» (38). Di qui le quattro ben note condizioni della infallibilità pontificia: 1. Il Papa deve parlare come pastore e dottore di tutti i cristiani. 2. Si deve trattare di fede o di costumi. 3. Il Papa deve definire, vale a dire ben precisare le tesi in questione e dire chiaramente da che parte sta la verità. 4. Il Papa deve, almeno implicitamente, obbligare i fedeli ad accettare la sua definizione. È importante notare che l'infallibilità pontificia non data dal 1870. Come ricorda Pio IX nella sua definizione, si tratta di una «tradizione ricevuta dai primi tempi della fede cristiana». Pio IX, nel 1870, non ha fatto che mettere fine a una controversia. Non si deve dunque pretendere che i documenti pontifici anteriori al 1870, e che soddisfano le quattro condizioni precisate da Pio IX, non siano coperti d'infallibilità. L'infallibilità delle condanne della Quanta Cura. Ecco ciò che si può leggere in questa enciclica: «In tanta igitur depravatarum opinionum perversitate, Nos Apostolici Nostri Officii memores, ac de sanctissima nostra religione, de sana doctrina, et animarum salute Nobis divinitus commissa, ac de ipsius humanæ societatis bono maxime solleciti, Apostolicam Nostram vocem iterum extollere exstimavimus. Itaque omnes et singulas pravas opiniones ac doctrinas singillatim hisce Litteris commemoratas auctoritate Nostra Apostolica reprobamus, proscribimus atque damnamus, easque ab omnibus catholicæ Ecclesiæ filiis, veluti reprobatas, proscriptas atque damnatas omnino habere volumus et mandamus». [«In tanta perversità di errate opinioni, Noi dunque, giustamente memori del Nostro Apostolico Ufficio, e paternamente solleciti della Nostra santa religione, della sana dottrina e della salute delle anime, a Noi commesse da Dio, e del bene della stessa umana società, abbiamo stimato bene innalzare di nuovo la Nostra Apostolica voce. Pertanto, con la Nostra Autorità Apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo tutte e singole le prave opinioni e dottrine ad una ad una ricordate in questa lettera e vogliamo e comandiamo che tutti i figli della Chiesa cattolica le ritengano come riprovate, proscritte e condannate» (39).] È evidente che le quattro condizioni della infallibilità sono qui riunite: 1. Il Papa precisa di agire in virtú della sua carica e della sua autorità apostolica. 2. Si tratta di costumi. Il Papa si propone di giudicare la moralità delle leggi sulla tolleranza o l'intolleranza promulgate dagli Stati. 3. Come si vedrà, le proposizioni condannate sono enunciate in termini chiari e precisi. 4. Il Papa indica esplicitamente che i fedeli devono accettare le condanne da lui comminate. Notiamo bene che l'infallibilità non verte su tutto ciò che dice Pio IX nell'enciclica, ma unicamente su «tutte e singole le prave opinioni e dottrine ad una ad una ricordate in questa lettera». Queste opinioni sono infallibilmente condannate da quando il Papa le ha chiaramente definite. Tutto ciò appare chiaro a un semplice laico quale sono. Fino a tempi assai recenti, tutti i teologi erano d'accordo nel riconoscere il carattere di infallibilità delle condanne sancite da Pio IX nella Quanta cura (8.12.1864). Contestandolo, oggi, i difensori della dichiarazione sulla libertà religiosa si rendono conto di mettere in causa tutta la dottrina della infallibilità pontificia, come è stata infallibilmente definita da Pio IX nel 1870? Tre proposizioni condannate. Le proposizioni condannate dall'enciclica Quanta cura sono numerose. Ne esaminerò solo tre. Si trovano nel passo seguente, dove le ho messe in evidenza chiamandole A, B, C. «E contro la dottrina delle Scritture, della Chiesa e dei Santi Padri non dubitano di asserire: «[A] “La migliore condizione della società è quella in cui non si riconosce nello Stato il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della religione cattolica, se non in quanto ciò richiede la pubblica quiete”. «Da questa idea di governo dello Stato, che è del tutto falsa, non temono di dedurre quell'altra opinione sommamente dannosa alla Chiesa cattolica e alla salute delle anime, chiamata deliramento dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di r. m. e cioé: «[B] “La libertà di coscienza e dei culti è diritto proprio di ciascun uomo, «[C] “che si deve proclamare con legge in ogni società costituita […]» (40). Perché non vi sia alcun dubbio possibile sul senso delle proposizioni A, B, C, eccone il testo latino: «[A] “Optimam esse conditionem societatis, in qua imperio non agnoscitur officium coercendi sancitis pœnisviolatores catholicæ religionis, nisi quatenus pax publica postulet”. «[B] “Libertatem conscientiæ et cultum esse proprium cuiuscumque hominis jus, «[C] “quod lege proclamari, et asseri debet in omni recte constituta societate […]». Ora, come risulta dalla prima citazione fatta, il Vaticano II afferma lecito esattamente tutto ciò che condanna Pio IX: 1. Il Vaticano II non riconosce al potere pubblico il dovere di reprimere le violazioni della legge cattolica poiché: «In materia religiosa nessuno […] sia impedito […] ad agire in conformità ad essa [la sua coscienza] […] pubblicamente [foro esterno], da solo o associato ad altri». 2. Per il Vaticano II, la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. 3. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa, nell'ordine giuridico della società deve essere riconosciuto in modo tale che costituisca un diritto civile. Vi è dunque opposizione tra le condanne pronunciate in forma infallibile da Pio IX e la dichiarazione del Vaticano II, che, dato il suo «carattere pastorale», «ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità» (41), come lo stesso Santo Padre ha confermato. VII - Conclusioni Lascio al lettore la cura di trarre le conclusioni. Ma insieme a migliaia di cattolici costernati, àuspico soprattutto che siano tirate dalla nostra santa Madre Chiesa, alla quale intendiamo restare fedeli. NOTE 1 - Cfr. MICHEL MARTIN, Vous vous faites Athanase, in Courrier de Rome, Parigi, gennaio 1976, anno X, n. 153. (su!) 2 - È assolutamente evidente che una semplice dichiarazione del Santo Padre comunicante a mons. Lefèbvre che le decisioni sulla Fraternità Sacerdotale San Pio X sono giustificate dalla «sua opposizione pubblica e persistente al Concilio Vaticano II», non basterebbe a scagionare questo Concilio dalle accuse di cui è fatto oggetto. (su!) 3 - Precisiamo bene, per evitare ogni malinteso, che in questo articolo non si tratterà mai del liberalismo economico. Questa è una teoria alla quale la nostra epoca sa ormai opporre soltanto il socialismo, che è un rimedio peggiore del male. (su!) 4 - JACQUES MITTERAND, La politique des Francs-Maçons, Roblot, Parigi. 1973. (su!) 5 - Eccone un esempio. La dottrina cattolica afferma che l'uomo è stato creato direttamente da Dio. L'evoluzione (che non ha nessun fondamento scientifico serio e che è anche contraddetta dalle ultime scoperte della biologia) afferma al contrario che l'uomo discende dall'animale. Il compromesso proposto da numerosi teologi sta, in proposito, nel dire che certamente l'uomo discende dall'animale ma che Dio è intervenuto direttamente, non solo per la creazione di un'anima immortale, ma anche per il perfezionamento del suo corpo. (su!) 6 - LEONE XIII. Enciclica Annum Sacrum. del 25.5.1899, cit. in Pio XI, Enciclica Quas primas, dell'11.12.1925, in La paceinterna delle nazioni. Insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., Edizioni Paoline, 2a ed., Roma 1962, p. 339. Con questa enciclica Pio XI istituisce la festa di Cristo Re. (su!) 7 - PIO XI, doc. cit., ibid., p. 340. (su!) 8 - LEONE XIII. Enciclica Immortale Dei, dell'1.11.1885, ibid., pp. 118 e 119. (su!) 9 - Con eccessi di zelo certo condannabili, ma molto meno offensivi nei riguardi di Dio della laicità dello Stato. Non avendo ben compresa la distinzione dei poteri spirituale e temporale, Costantino, per esempio, convocò lui stesso il Concilio di Nicea e ne fissò il programma. Questo sconfinamento nelle prerogative del Papa non impedirà a Nicea di essere il concilio ecumenico piú importante. (su!) 10 - La Documentation Catholique, del 20.9.1953. La sottolineatura è nostra. (su!) 11 - Ibid., del 30.9.1946. Le sottolineature sono nostre. (su!) 12 - La revoca dell'editto di Nantes da parte di Luigi XIV segnò, certo, un ritorno ai principi della Chiesa cattolica, ma le persecuzioni contro i protestanti, che precedettero e seguirono questa revoca (soprattutto le cosiddette dragonnates), sono contrarie alla dottrina della Chiesa, che non ha mai cessato di insegnare che nessuno può essere forzato a credere. Queste persecuzioni gettano un'ombra sul regno di Luigi XIV e hanno contribuito alla comparsa, centocinquant'anni dopo, del cattolicesimo liberale. (su!) 13 - Il diritto di intervento dello Stato nella nomina dei vescovi ha sempre irritato i cattolici liberali, che rifiutano di capire che, poiché la Chiesa e lo Stato hanno giurisdizione sugli stessi soggetti, devono collaborare. Questi cattolici liberali si fanno delle illusioni sulla libertà assicurata alla Chiesa dalla separazione di Chiesa e Stato. Lo Stato conosce troppo bene l'influenza dei vescovi per rinunciare ad avere diritto di intervento nella loro nomina. Nei paesi come la Francia, in cui la Chiesa è separata dallo Stato, il controllo di quest'ultimo non si esercita in misura minore, anche se in modo non ufficiale, e lo Stato dispone di tutti i mezzi di pressione per far rispettare i suoi veti. (su!) 14 - La Chiesa condanna la libertà di coscienza, ma si può evitare una interpretazione erronea di questa condanna soltanto se si distingue bene tra il foro interno e il foro esterno. (su!) 15 - GREGORIO XVI, Enciclica Mirari vos, del 15.8.1832, in La pace interna delle nazioni, cit., p. 37. Le sottolineature sono nostre. (su!) 16 - PIO IX, Sillabo, Edizioni Paoline, Roma 1961, 2a ed., pp. 26 e 30. La sottolineatura è nostra. (su!) 17 - L'infallibilità del Sillabo è stata contestata. Infatti non è manifesta la realizzazione della quarta condizione dell'infallibilità. Vedi parte VI. (su!) 18 - SAN PIO X, Enciclica Vehementer, dell'l 1.2.1906, in Tutte le encicliche dei Sommi Pontefici, raccolte e annotate da Eucardio Momigliano, Dall'Oglio Editore, 4a ed., Milano 1959, p. 564. (su!) 19 - PIO XI, Enciclica Quas primas, cit., in La pace interna delle nazioni, cit., p. 344. (su!) 20 - Ibid., p. 343. Le sottolineature sono nostre. Si distingue talora tra la laicità dello Stato, che è una situazione giuridica, e il laicismo, che sarebbe soltanto una concezione della vita, e si afferma che Pio XI avrebbe avuto in vista solamente il laicismo. Basta leggere correttamente l'enciclica per constatare che Pio XI ha condannato nello stesso tempo il laicismo e la laicità. Ricordiamo che nella prospettiva della laicità lo Stato non tollera l'insegnamento dell'errore, gli dà gli stessi diritti dell'insegnamento della verità. Non mette in guardia contro l'errore. Lascia che si propaghi, qualunque ne siano le conseguenze per la rovina della società. Il laicismo è quindi l'espressione del liberalismo. (su!) 21 - Il Sillon di Marc Sangnier fu condannato nel 1910 da san PioX. Marc Sangnier si sottomise senza riserva, ma non si coglie bene la differenza tra le idee da lui sostenute prima e dopo la condanna. (su!) 22 - Tutti gli anni, alla fine della messa di Cristo Re, avvicino il predicatore e gli chiedo se sa perché Pio XI ha istituito questa festa. Non lo sa. E quando gli dico che lo ha fatto per lottare contro questa peste che infetta la società umana e che è il laicismo, mi guarda con gli occhi spalancali: non capisce. Le mie parole fanno su di lui lo stesso effetto che gli farebbero se gli dicessi che Pio XI ha voluto lottare contro questa peste della società moderna che è il telefono o l'automobile. (su!) 23 - PIO XII, Discorso ai partecipanti al V Congresso Nazionale della Unione Giuristi Cattolici Italiani, del 6.12.53, in Discorsi e Radiomessaggi, vol. XV, p. 487. (su!) 24 - Ibid., p. 489. (su!) 25 - Certamente questo principio, in passato, è stato spesso trasgredito da re cattolici e anche da esponenti del clero. Ma si tratta di deplorevoli abusi che la Chiesa ha sempre condannato. (su!) 26 - Concilio Ecumenico Vaticano II. Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanæ, n. 2. La traduzione è quella del Dizionario del Concilio Ecumenico Vaticano II, Unedi-Unione Editoriale, Roma 1969. In tutte le citazioni di testi conciliari le sottolineature sono nostre. (su!) 27 - Per esempio: la diffusione di teorie sovversive. ecc. (su!) 28 - Concilio Ecumenico Vaticano II, doc. cit., n. 3. (su!) 29 - Ibid., n. 2. (su!) 30 - Ibid., n. 6. (su!) 31 - Ibid., n. 13. (su!) 32 - Ibid., n. 9. (su!) 33 - PIO IX. Enciclica Quanta cura, dell'8.12.1864, Edizioni Paoline, 2a ed., Roma 1961, p.4. (su!) 34 - Cfr. Giudici, 6, 25. (su!) 35 - Concilio Ecumenico Vaticano II, doc. cit., n. 9. (su!) 36 - Ibidem. (su!) 37 - Ibid., n. 1. (su!) 38 - Concilio Vaticano I, Costituzione apostolica Pastor Æternus, del 18.7.1870, in La Chiesa. Insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1967, vol. I, pp. 291-292. Le sottolineature sono nostre. (su!) 39 - PIO IX, Enciclica Quanta cura, cit., pp. 8-9. Le sottolineature sono nostre. (su!) 40 - Ibid., p. 4. (su!) 41 - PAOLO VI, Allocuzione dell'udienza generale del 12.1.1966, in Insegnamenti, vol. IV, p. 700. (su!) ***************************** Invia Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava?Nella disputa sul Concilio Vaticano II interviene il teologo benedettino Basile Valuet. Contro i tradizionalisti Gherardini e de Mattei. Ma anche contro il "ratzingeriano" Rhonheimer. Che in un POST SCRIPTUM replica. E replicano anche Cavalcoli, Introvigne... Con la controreplica di Valuet di Sandro Magister ![]() ROMA, 26 maggio 2011 – L'istruzione "Universæ Ecclesiæ" dello scorso 30 aprile, festa di san Pio V, non ha placato lo scontro tra i paladini più accesi della messa in rito antico e di quella in rito moderno, tentati gli uni e gli altri di ritenere valido e legittimo soltanto il proprio rito. Ma lo scontro è di portata più vasta. Riguarda il criterio generale con cui l'attuale pontefice vuole guidare la Chiesa fuori dall'attuale crisi. È il criterio della "riforma nella continuità" affermato da Benedetto XVI nel memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, sull'interpretazione del Concilio Vaticano II. In queste ultime settimane, www.chiesa ha dato voce a una discussione molto vivace, sull'accoglimento o no di questo criterio e sulla sua applicazione. Una discussione nata dalla "delusione" di alcuni pensatori tradizionalisti per il modo con cui Benedetto XVI insiste nel difendere in blocco il Concilio Vaticano II, che a loro giudizio andrebbe invece corretto là dove ha "rotto" con la Tradizione della Chiesa. Qui di seguito c'è un nuovo intervento nella discussione. È di dom Basile Valuet, 50 anni, teologo benedettino dell'abbazia di Le Barroux, in Francia, tra la Provenza e le Alpi (vedi illustrazione). Valuet critica due tradizionalisti "delusi" di primo piano: il teologo Brunero Gherardini e lo storico Roberto de Mattei. Ma critica anche il filosofo Martin Rhonheimer, secondo il quale l'ermeneutica ratzingeriana della "riforma nella continuità" spiega perfettamente non solo l'insieme del Concilio ma anche quella che è stata forse la sua svolta più vistosa: l'affermazione della libertà religiosa fatta dalla "Dignitatis humanæ", in evidente contrasto con l'insegnamento dei papi precedenti ma non per questo slegata dalla Tradizione della Chiesa, anzi, in accordo ancor più saldo col "patrimonio profondo" della Tradizione stessa. Valuet non è d'accordo con questa interpretazione. A suo giudizio, non c'è contrasto ma continuità tra l'insegnamento del Vaticano II sulla libertà religiosa e la precedente condanna della stessa fatta da Pio IX e da altri papi. E lo spiega. O meglio, lo rispiega, sintetizzando in poche frasi i sei monumentali volumi da lui pubblicati proprio su tale questione. Prima di dare a Valuet la parola, è però utile rileggere le critiche di Rhonheimer alle tesi "concordiste" del teologo benedettino e di altri due autori: il filosofo tedesco Robert Spaemann e il teologo francese Bertrand de Margerie. Questo passaggio di Rhonheimer è tratto da un suo articolo apparso su "Nova et Vetera" nel 2010 e rilanciato da www.chiesa lo scorso 28 aprile, con il corredo di un'ampia appendice. L'armonizzazione che Rhonheimer giudica fuorviante – nelle prime parole del brano qui riprodotto – è quella tra l'affermazione della libertà religiosa fatta dal Vaticano II e la sua condanna ad opera dei papi precedenti. Tra l'una e l'altra, scrive, "non c'è punto comune né continuità". __________ UN'ARMONIZZAZIONE SBAGLIATA di Martin Rhonheimer [...] Considero come inutili e concretamente errati tutti quei tentativi di armonizzazione messi in opera da teologi come Basile Valuet, al quale fa riferimento Robert Spaemann, o Bertrand de Margerie, e questo nonostante i loro meritori sforzi di ottenere un'approvazione da parte dei credenti tradizionalisti, in vista della loro riconciliazione con l'ultimo Concilio. In realtà, questi tentativi seminano piuttosto confusione, poiché simili apologie mascherano il vero problema e quindi l'originalità della dottrina del Concilio Vaticano II. Gli argomenti utilizzati sono falsi poiché questi tentativi di armonizzazione non tengono conto del contesto politico-giuridico e della distinzione di livelli messi in evidenza da Benedetto XVI. Non si può dunque affermare, come fa Bertrand de Margerie, che tanto per papa Gregorio XVI quanto per il Concilio Vaticano II la libertà di stampa non è illimitata, per cui ci sarebbe continuità tra la condanna della libertà di stampa da parte di papa Gregorio XVI e la dottrina del Vaticano II. In realtà, quando papa Gregorio si batteva per una censura della stampa da parte dello Stato sotto controllo ecclesiastico in vista di servire la vera religione, il Vaticano II – come d'altronde già i liberali del XIX secolo – fa riferimento ai limiti della libertà di stampa e di coscienza presenti nei diritti accordati ai cittadini, diritti definiti dalla legge e con possibilità di ricorso tenendo conto dell'ordine e della morale pubblici. Questi limiti corrispondono alla logica di neutralità e di laicità propria dello Stato costituzionale, liberale e democratico, di fronte alle rivendicazioni religiose di verità, e non hanno niente a che fare con una "protezione della vera religione" e con una protezione del cittadino dalla "peste dell'errore religioso", né con una censura dello Stato esercitata al servizio e in funzione della Chiesa (come la praticava il Sant'Uffizio – oggi congregazione per la dottrina della fede – nello Stato ecclesiastico del XIX secolo retto dal diritto canonico). Allo stesso modo, la tolleranza come quella che è ancora insegnata da Pio XII nel suo discorso "Ci riesce" del 6 dicembre 1953, e che non può essere esercitata in materia di religione che "in certe circostanze" e secondo il giudizio di valutazione dell'"uomo di Stato cattolico", non apre neppure essa la via alla libertà religiosa. E ciò a motivo del diritto civile fondamentale della persona umana che limita la competenza del potere dello Stato nelle questioni religiose. Su questa base, tali giudizi di valutazione dell'"uomo di Stato cattolico" relativi alla tolleranza non sono ormai più possibili, poiché sarebbero contrari al diritto. Quindi non vi può essere quel cosiddetto "diritto alla tolleranza" che secondo Basile Valuet si ritroverebbe in Pio XII e sarebbe conforme alla dottrina del Vaticano II. In nessun caso qui si tratta – come scrive Robert Spaemann – di un "conflitto di principi senza conseguenze", ma piuttosto della questione fondamentale concernente il rapporto della Chiesa con la modernità, in particolare con lo Stato costituzionale libero e democratico e, molto di più, della questione della comprensione che la Chiesa a di se stessa così come del suo rapporto al problema della costrizione nel campo religioso. [...] __________ PERCHÉ NON SONO D'ACCORDO CON GHERARDINI, DE MATTEI, RHONHEIMER di Basile Valuet OSB Nel dibattito sull'ermeneutica del Vaticano II, sono stato cortesemente invitato a spiegare perché sono in disaccordo con tre autori in particolare. 1. BRUNERO GHERARDINI La competenza di Mons. Brunero Gherardini (da qui in avanti G.) è riconosciuta. E ho letto con piacere il suo saggio sull'ecumenismo apparso nel 2000 (1). Tuttavia, nel novembre del 2010, ho pubblicato nella rivista "La Nef" un'analisi sia per esteso (2) sia in sintesi (3) del suo libro "Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare" (4), in cui formulavo le seguenti critiche: 1. In linea di diritto, G. crede in modo errato che basti che il Concilio Vaticano II non abbia impegnato la sua infallibilità, perché uno possa rifiutare le dottrine che esso ha enunciato. È dimenticare che al magistero non definitivo è dovuto l'assenso religioso, interno ed esterno, della volontà e dell'intelligenza (5). Questo magistero autentico gode di un'assistenza dello Spirito Santo (6). 2. In linea di fatto, G. rigetta alcuni insegnamenti formali del Vaticano II (di "Lumen gentium" [LG], "Nostra aetate", "Gaudium et spes" [GS] e "Dignitatis humanae" [DH]) (7). Inoltre, non dimostra l'effettiva presenza di errori nel magistero contemporaneo: ciò che denuncia come errore non lo è affatto (così per GS 24), e l'ho anche preso in flagrante delitto di false accuse lanciate contro "Unitatis redintegratio" e contro le risposte della congregazione per la dottrina della fede del 29 giugno 2007. Non ha saputo rispondere a nessuno dei miei argomenti (8). 2. ROBERTO DE MATTEI Dagli errori di G. dipende in parte il libro del professor Roberto de Mattei (da qui in avanti DM) (9), direttore della bella rivista "Radici Cristiane". Ahimè! Il suo lodevole intento di contrastare la dominante storiografia della scuola di Bologna (10) non si è accontentato di stabilire con precisione dei fatti a partire da documenti. L'opera brulica certo di dati, anche inediti. Qualche volta, tuttavia, sbaglia nell'esposizione dei fatti. È così nel caso della petizione "Carli" che chiedeva l'inserzione di una condanna esplicita del comunismo nello "schema XIII" (11). Si è grati a DM per aver citato "in extenso" la nota del 15 novembre 1965 a Mons. Felici, segretario generale del Concilio, con la quale Paolo VI pesava i pro e i contro di una tale condanna. Ma (p. 502) DM dà forte rilievo a uno solo degli argomenti che Paolo VI allinea. Egli trascura il timore del papa dell'effetto nefasto di una condanna, per i fedeli che vivevano sotto il comunismo (12), motivo simile a quello del "silenzio" di Pio XII sulla Shoah. DM nega (p. 500) la buona fede di Mons. Glorieux (che scartò questa petizione), senza nemmeno menzionare le giustificazioni fornite da questo prelato (AS V/3, 611-620) (13). Sembra in difficoltà con la grammatica latina. Questo deve averlo messo a disagio nello spoglio degli "Atti e documenti preparatori" e degli "Atti sinodali del Concilio Vaticano II". Di queste due collezioni ufficiali, di un totale di 66 volumi in 4°, utilizza rispettivamente 8 e 28 volumi, cioè il 55 per cento. Vi fa riferimento all'incirca 466 volte, rimandando a blocchi che vanno da 1 a 5 pagine, raramente 10 (14), cioè a un massimo di 3 mila-5 mila pagine su un totale di circa 50 mila. DM non cita quasi mai i rapporti scritti e orali delle commissioni di redazione conciliari, le quali pure esponevano ai Padri il senso dei testi da votare. Dimentica anche che i concili del passato furono sempre teatro di manovre, arricchite da polemiche a tratti molto vivaci (15). A p. 469-470 tronca la lista dei limiti giuridici indicati da DH 7, § 3 per l'esercizio del diritto alla libertà religiosa (LR). Sempre contro la LR, DM, citando il discorso di Pio XII del 6 dicembre 1953, dimentica il passaggio seguente: "Può darsi che in determinate circostanze Egli [Dio] non dia agli uomini nessun mandato, non imponga nessun dovere, non dia perfino nessun diritto d’impedire e di reprimere ciò che è erroneo e falso? Uno sguardo alla realtà dà una risposta affermativa". Dunque in queste circostanze la repressione è un'ingiustizia, muovendosi contro un diritto, quello del seguace dell'errore a non essere impedito. Da cui la non assurdità di un diritto negativo come quello di DH. DM si professa solamente storico (p. 591) ma entra nel campo del teologo quando, citando G., pone (p. 15) l'equazione erronea: Magistero non definitivo uguale a non obbligatorio (16). In questo campo, commette anche l'errore di affermare che bisogna attenersi alla Tradizione piuttosto che al Magistero. Ma nel motu proprio "Ecclesia Dei", Giovanni Paolo II, rivolgendosi a tutta la Chiesa, ha condannato questa visione delle cose (17). In realtà, è il Magistero che ci fa conoscere ciò che è contenuto nella Tradizione divino-apostolica (18). Aderisco dunque complessivamente alla confutazione del libro di DM fatta da Massimo Introvigne (19). Oso suggerire al professor DM di attenersi ai dati storici, nel quale si mostra ricco di talento. "La storia del Concilio mai scritta" sarebbe quella in cui lo storico facesse con minuzia lo spoglio dei 66 volumi degli atti antepreparatori, preparatori e sinodali del Vaticano II. 3. MARTIN RHONHEIMER Con il reverendo professore Martin Rhonheimer (d'ora in avanti R.), ci troviamo "dall'altra parte della barricata". R., in "L'ermeneutica della riforma e la libertà di religione" (20), prende le difese dell'insegnamento conciliare sulla LR, in funzione di una certa visione dell'"ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità" (Benedetto XVI, discorso alla curia, 22 dicembre 2005) (21). R. non ha mai visto la mia tesi (22) sostenuta alla facoltà di teologia della Pontificia Università della Santa Croce (dove lui stesso insegna filosofia). Infatti, la crede pubblicata a Parigi, e non si è accorto che è composta di 6 volumi e non di 3 (cfr. la sua nota 3, p. 346). Non ne cita nulla e cade in un equivoco (p. 347) su ciò che io intendo per "diritto alla tolleranza" (che ne sa?). Non si capisce bene, d'altra parte, come R. possa pensare che i rapporti della Chiesa (realtà soprannaturale) e dello Stato possano competere alla sua facoltà di filosofia. Non dice nulla delle spiegazioni della commissione di redazione di DH sul mantenimento della dottrina cattolica tradizionale dei papi fino a Leone XIII, concernente il dovere morale del potere pubblico riguardo alla vera religione e all'unica Chiesa di Cristo ("Acta Synodalia", IV/VI, p. 719), né delle note di DH 1, né dei rimandi del Catechismo della Chiesa Cattolica (CEC) 2105-2109 al Magistero da Pio VI a Leone XIII. Sembra ignorare che la commissione ha ammesso esplicitamente la compatibilità del concetto di Stato confessionale cattolico con DH, purché sia rispettata la LR (23). Egli pensa, a p. 351 (in modo erroneo), che i papi precedenti non hanno voluto presentare come definitive le loro condanne della libertà di coscienza e dei culti. E paradossalmente afferma, a p. 356, che "Pio IX comprendeva la sua condanna della libertà religiosa come una necessità d'ordine dogmatico". Ecco d'altronde un passaggio significativo di "Quanta cura": "... E contro la dottrina delle sacre Lettere, della Chiesa e dei santi Padri, non dubitano di asserire 'ottima essere la condizione della società, nella quale non si riconosce nell’Impero il debito di reprimere con pene stabilite i violatori della cattolica religione, se non in quanto lo dimanda la pubblica pace'". Questa citazione dovrebbe invitare R. a rivedere l'insieme della sua posizione. E DH non contraddice questo testo, poiché secondo DH 7, § 3 coloro che violano i diritti della religione cattolica possono e devono essere repressi anche se non turbano la pace pubblica, a maggior ragione se, come fa la dichiarazione dei diritti del 1789 (che, piaccia o no a R., Benedetto XVI non riabilita affatto), si definisce questa pace in rapporto alla legge civile, espressione della volontà generale. È sufficiente che essi turbino la moralità pubblica o vadano contro i diritti degli altri, ciò che, per ipotesi, è il caso. Secondo Benedetto XVI, Pio IX aveva di mira il "liberalismo radicale" del XIX secolo, ma non altre forme di organizzazione della società, sorte da un'evoluzione ulteriore del liberalismo. La discontinuità tra il Vaticano II e Pio IX deriva dal fatto che la LR non è la "libertà di coscienza" condannata nel XIX secolo: essa non ha né lo stesso fondamento, né lo stesso oggetto, né gli stessi limiti, né lo stesso scopo. Così, resterà sempre vero che il liberalismo condannato da Pio IX era condannabile (R. non lo vede), ma non resterà sempre vero che le teorie o gli Stati di diritto che abbiamo di fronte sono quelli che Pio IX condannò (R. lo coglie perfettamente). Se un cambiamento di situazione non può cambiare il diritto naturale, può comunque far sì che un principio di diritto naturale (chiamiamolo P1: non è contrario al diritto naturale che lo Stato reprima l'errore religioso), valido in una situazione precedente del diritto delle genti (in cui non è ancora riconosciuta in forma reciproca la LR), non si applichi più allo stesso modo in una nuova situazione del diritto delle genti (in cui è riconosciuta mutualmente la LR), e sia invece un altro principio che ora si applichi (P2: lo Stato moderno non ha competenza penale, nemmeno delegata, in materia religiosa). In tal modo, se si vuole avere una verità valida in ogni situazione, si è obbligati a formulare un principio P3, più generale, che combina P1 e P2, e che DH si è impegnata a formulare: è contrario al diritto naturale che lo Stato – di ogni epoca – reprima l'errore religioso, salvo se, nelle circostanze considerate, esso turbi l'ordine pubblico giusto oggettivo. Potrebbe R. discuterne con me, ma dopo aver sfogliato il riassunto della mia tesi? (24). NOTE (1) "Una sola Fede, una sola Chiesa. La Chiesa cattolica dinanzi all’ecumenismo", Castelpetroso, Casa Mariana Ed., 2000, 334 p. (2) Cfr. www.lanef.net (3) "La Nef", n. 220, novembre 2010, p. 16-17. [La traduzione italiana rivista dall'autore è in romualdica.blogspot.com - ndr]. (4) Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009, 264 p. (5) Cf. "Lumen gentium" (LG), 25; Codice di diritto canonico, cann. 752 e 1371, § 1. Mons. Gherardini passa d'altronde sotto silenzio gli interventi di Paolo VI e Giovanni Paolo II che richiamano l'autorità del Vaticano II (eccone qualche data: 7/12/1965 ; 12/01/1966 ; 21/09/1966 ; 24/05/1976 ; 11/10/1976 ; 23/12/1982 ; 20/07/1983 ; 2/07/1988, etc.). (6) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica (CEC), 892. (7) Non si tratta solamente delle circostanze di questi insegnamenti, né del loro quadro letterario, né del loro contesto storico, dunque di loro aspetti contingenti. (8) Cfr. B. Gherardini, "Concilio Vaticano II. Il discorso mancato", Lindau, Torino, 2011, 48-49. (9) R. de Mattei, "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta", Lindau, Torino, 2010, pp. 632. Non abbiamo potuto leggerne che la prima edizione, e lo spazio ci impedisce di trattenerci sull'articolo "Un Concilio può anche commettere degli errori. Replica alle critiche di 'Avvenire' et de 'L’Osservatore Romano'", Roma, 5 maggio 2011, che non apporta niente di nuovo. (10) Mons. Agostino Marchetto, in "Ma una storia non ideologica si può scrivere. Il Concilio Vaticano II nella lettura di Roberto de Mattei", "L’Osservatore Romano", 14 aprile 2011, lamenta che DM abbia strumentalizzato i suoi lavori a questo scopo. (11) L’A. avrebbe potuto citare Jean Madiran, "L’accord de Metz: ou pourquoi notre Mère fut muette", Versailles, "Via romana", 2006, p. 75. Si tratta di un accordo concluso nel 1962 tra il cardinale Tisserant e il metropolita Nikodim (morto tra le braccia di Giovanni Paolo I e non di Giovanni Paolo II): il Concilio non avrebbe menzionato il comunismo, e il patriarcato di Mosca avrebbe potuto inviare degli osservatori. (12) AS VI/4 (1999), p. 619-620. Questo volume degli AS non è mai citato da DM. (13) DM sospetta anche il cardinale Tisserant di aver incoraggiato Glorieux in questo senso, cosa che sembra smentita da una lettera (cf. AS V/3, 619-620). (14) Due o tre volte un centinaio di pagine, ossia volumi interi. (15) Vale la pena qui di rileggere san Francesco di Sales ("Traité de l’amour de Dieu", l. II, chap. XIV, p. 106) : "[…] ès conciles généraux, il se fait des grandes disputes et recherches de la vérité, […], mais, […] la détermination étant prononcée, chacun s’y arrête et acquiesce pleinement, non point en considération des raisons alléguées en la dispute et recherche précédente, mais en vertu de l’autorité du Saint-Esprit." (16) A questo proposito, gli argomenti del cardinale Scheffczyk citati a p. 542 si ritorcono contro di lui. (17) Giovanni Paolo II, Lettera apostolica motu proprio "Ecclesia Dei", 4. (18) Cfr. anche la lettera di Giovanni Paolo II al cardinale J. Ratzinger dell'8 aprile 1988 "In questo periodo": "Acta Apostolicae Sedis" (AAS), 1988, p. 1121-1125. DM ha un'opinione arrischiata e si spinge anche molto fuori dal suo soggetto quando afferma (nota 1, p. 367): "L’insegnamento della Chiesa, ribadito fino a Pio XII, è che nella concelebrazione il Sacrificio della Messa è unico e non si moltiplica secondo il numero dei celebranti". Tanto più che egli lì rinvia a due testi di Pio XII (AAS, 1954, 669; et 1956, 717) che, per l'appunto, affermano esplicitamente che vi sono tante azioni di Cristo che si offre quanti sono i preti veri celebranti, come mi hanno confermato nel 2001 la congregazione per la dottrina della fede con una lettera ufficiale e poi una lettera del cardinale Ratzinger. Infine la S.C. dei riti dichiarava il 20 marzo 1960: "La concelebrazione sacramentale è quella in cui il prete celebrante, o meglio il celebrante principale, assieme ad altri preti che lo assistono, compie il Sacramento. Si tratta dunque di tante Messe o Sacrifici quanti i preti concelebranti" (originale latino: AD, I – III, p. 256-259). Posizione già comune alla fine del XIX secolo, notava il cardinale Gasparri. (19) "Vaticano II. Non semplice continuità, ma 'riforma nella continuità'". (20) "Nova et Vetera", 85/4 (oct.-déc. 2010), 341-363. Cfr. anche il suo contributo a questo sito www.chiesa: "Ancora sull’'ermeneutica della riforma'. Una puntualizzazione", più conciso e più chiaro. (21) Originale italiano: AAS, 2006, soprattutto p. 50. (22) "La liberté religieuse et la Tradition catholique. Un cas de développement doctrinal homogène dans le magistère authentique", prefazione del card. Stickler, Le Barroux, 6 voll. (II ed., 1998, pp. 3050 ; III ed., maggio 2011, pp. 2524). (23) Per semplicità ometto i riferimenti, abbondantemente forniti nei miei due libri. (24) "Le droit à la liberté religieuse dans la Tradition de l’Église", prefazione del card. Medina, Le Barroux, I ed., 2005 ; II ed., maggio 2011, pp. 676. __________ Dom Basile Valuet ha sviluppato gli argomenti di questo suo scritto in un altro testo più ampio, anch'esso scritto espressamente per www.chiesa: > À propos du débat sur l’herméneutique du Vatican II Il suo ultimo libro è uscito nel 2010 con la prefazione del cardinale Barbarin: "Frères désunis", Artège, Perpignan, pp. 300. E ne pubblicherà presto altri due con lo stesso editore: sull'ecumenismo e sul dialogo interreligioso. __________ Gli interventi di Martin Rhonheimer, Roberto de Mattei, Brunero Gherardini, Massimo Introvigne e altri sono nei precedenti servizi di www.chiesa dedicati alla disputa sulla "riforma nella continuità": > I grandi delusi da papa Benedetto (8.4.2011) > I delusi hanno parlato. Il Vaticano risponde (18.4.2011) > Chi tradisce la tradizione. La grande disputa (28.4.2011) > La Chiesa è infallibile, ma il Vaticano II no (5.5.2011) > Benedetto XVI "riformista". La parola alla difesa (11.5.2011) __________ In questa discussione è inoltre intervenuto di nuovo David Werling, con un commento pubblicato il 25 maggio sul sito on line della rivista americana tradizionalista "Remnant": > Why Not the Univocal? In esso Werling replica al teologo domenicano Giovanni Cavalcoli, che a sua volta aveva replicato a una critica portata dallo stesso Werling contro un commento di Francesco Arzillo pubblicato da www.chiesa nel primo dei servizi sopra elencati. __________ POST SCRIPTUM 1 / LA REPLICA DI MARTIN RHONHEIMER Ho letto con un certo disagio la critica di Basile Valuet al mio recente articolo. Mi è parsa inutilmente polemica e contiene vari errori. Brevemente annoto alcune chiarificazioni: 1. Per cominciare, contrariamente a quanto Valuet sostiene, non soltanto conosco, ma possiedo e ho attentamente studiato la sua estesa tesi dottorale "La Liberté Religieuse et la tradition catholique". Infatti, è vero che materialmente i volumi sono sei, come lui dice (li ho davanti ai miei occhi), ma da un punto di vista bibliografico sono tre, giacché sono chiamati "Tome I", "Tome II" et "Tome III", ognuno dei quali è diviso in due fascicoli ("fascicules"). Tant'è vero che l’ultimo dei sei "volumi", contenente gli indici, si chiama "Tome III, second fascicule" (e sul dorso è scritto: III B). Ho indicato anche correttamente il luogo di pubblicazione: "Le Barroux". Per uno sbaglio, i traduttori dell’articolo in francese, dopo "Le Barroux", hanno aggiunto "Paris", che in realtà si riferisce al libro citato nella nota seguente. Nel manoscritto tedesco originale, infatti, ho verificato d'aver scritto soltanto "Le Barroux". Peccato che Valuet abbia aperto la sua risposta alle mie critiche con questa polemica assolutamente superflua. 2. Sfortunatamente quello che scrive Valuet semplicemente ripete alcuni argomenti della sua tesi dottorale, senza però realmente rispondere agli argomenti centrali del mio articolo (quello più importante nemmeno è menzionato). L’errore di fondo si trova già nella sua risposta a de Mattei: Valuet interpreta la dottrina tradizionale sulla tolleranza, ancora insegnata da Pio XII, come se implicasse un diritto "del seguace dell’errore a non essere impedito", giacché, come sostiene Valuet, in questo caso la repressione dell’esercizio di un culto erroneo sarebbe proprio un’ingiustizia. Anche se la formulazione di Pio XII va molto oltre, non è questo il suo significato, e non è così che era stata sempre compresa (anche dai seguaci odierni di Mons. Lefebvre). La dottrina tradizionale, appunto, non afferma che una tale repressione sarebbe un’ingiustizia perché violerebbe un diritto "del seguace dell’errore a non essere impedito". La dottrina tradizionale afferma che una tale repressione in certe circostanze sarebbe contraria alla prudenza. La tolleranza, cioè, non si basa mai su un diritto di ciò che è tollerato, ma emana dalla prudenza di colui – "l’uomo di stato" – che tollera un male (che in sé non ha nessun diritto di esistenza, neanche come diritto civile). In fondo, Valuet non comprende che cosa è un diritto; e non comprende che "avere un diritto alla libertà religiosa" e l'"essere tollerato" sono due cose diverse per principio, tanto giuridicamente quanto politicamente. Un "diritto alla tolleranza", di cui parla Valuet, non può esserci, perché è una "contradictio in adiecto". Per di più, parlare di diritto alla tolleranza religiosa significa rovesciare il significato tradizionale della dottrina di tolleranza come concessione meramente prudenziale e discrezionale per evitare mali maggiori; così, la dottrina "preconciliare" è ancora oggi fermamente difesa dai tradizionalisti. Tutto ciò ho tentato spiegarlo nel mio articolo, ma Basile Valuet sembra fare il sordo. 3. Basile Valuet mi rimprovera di non dire nulla "delle spiegazioni della commissione di redazione di 'Dignitatis humanae' (DH) sul mantenimento della dottrina cattolica tradizionale dei papi fino a Leone XIII, concernente il dovere morale del potere pubblico riguardo alla vera religione e all'unica Chiesa di Cristo". Anzitutto, il mio non era un articolo scientifico in senso stretto. Poi ho chiaramente parlato di questo passaggio di DH e ne ho addotta l’interpretazione autentica che ne fa il Catechismo della Chiesa Cattolica (2105) che, a differenza del testo della commissione di redazione della DH, è un testo del magistero. Finalmente, il testo di DH (e del Catechismo) non parla di un "dovere morale del potere pubblico riguardo alla vera religione e all'unica Chiesa di Cristo", come Valuet erroneamente scrive, ma di un "dovere morale dei singoli e delle società…", che è qualcosa di ben diverso e già implica una notevole sfumatura rispetto alla posizione tradizionale. 4. Quanto al carattere "definitivo" delle condanne della libertà di coscienza e dei culti: per avere carattere definitivo, non basta che i papi dell’Ottocento "hanno voluto presentare come definitive" le condanne della libertà religiosa. Non basta quello che pensavano o intendevano. Se non erro, ciò che ci vuole perché un atto del magistero abbia carattere definitivo e perciò possa far parte del magistero infallibile, è che l’intenzione di proporre un insegnamento definitivo sia esplicitamente espressa (come ha fatto ad esempio Giovanni Paolo II riguardo al sacerdozio riservato agli uomini). 5. La mia affermazione che "Pio IX comprendeva la sua condanna della libertà religiosa come una necessità di ordine dogmatico" non contraddice la mia affermazione che non era stata insegnata come definitiva. Nemmeno è in contrasto con la mia posizione il fatto che Pio IX si era rifatto alla "dottrina delle sacre Lettere, della chiesa e dei santi Padri". Affermarlo, come fa Basile Valuet, equivale a ignorare interamente il nucleo della mia argomentazione, secondo la quale per Pio IX la libertà di religione, specialmente il diritto alla libertà di culto, implicava indifferentismo e relativismo religioso, e quindi difendere la libertà religiosa equivaleva ad affermare che tutte le religioni avevano lo stesso valore di verità. Una volta collegata la libertà religiosa all’indifferentismo religioso, essa ovviamente diventa una posizione persino eretica. Ciò che cambiò con il Vaticano II non fu che da lì in poi l’indifferentismo religioso non fosse più percepito come contrario al dogma cattolico, ma che esso non fosse più visto come un'implicazione necessaria del diritto alla libertà religiosa (questo cambio suppone anche il cambio di concezione della relazione fra potere temporale e spirituale, e della natura e dei compiti dello stato). Questa mia argomentazione è confermata dalla lettera apostolica "Post tam diuturnas" di Pio VII del 1814 che condanna la libertà di culto proprio come eresia, con l’argomento che essa implica l’affermazione che tutte "le sette eretiche" sono ugualmente vere come la Chiesa cattolica e che "tutti gli eretici sono sulla buona strada". Qui appunto c’è la discontinuità: il Vaticano II non vede più nella libertà di religione tali implicazioni d’indifferentismo, perché opera con un concetto diverso di Stato e di potere temporale (cosa che, come ho citato, Benedetto XVI afferma esplicitamente). 6. Contrariamente a quello che dice Valuet, nel suo discorso del 2005 Benedetto XVI non afferma che con la condanna della libertà religiosa "Pio IX aveva di mira il ‘liberalismo radicale’ del XIX." Certo, papa Benedetto dice che nell’Ottocento c’era un grande scontro tra la Chiesa e "liberalismo radicale": un fatto storico innegabile. Ma questo non cambia l’altro fatto storico – di cui papa Benedetto non parla esplicitamente – che le condanne di "Quanta cura", pur essendo indirizzate certamente "a fortiori" anche contro il "liberalismo radicale", avevano di mira diretta e immediata i liberali cattolici che si erano radunati nel Congresso di Malines e che appunto non condividevano le posizioni "radicali" del liberalismo ottocentesco, ma posizioni praticamente identiche a quelle del Vaticano II. Ciò che inoltre appariva eretico ai teologi dell’epoca – specialmente al p. Luigi Bilio, consultore del Sant'Uffizio e redattore principale di "Quanta cura" – era l’idea dei liberali cattolici che la Chiesa non avesse il diritto di imporre mediante la costrizione del potere temporale l’ubbidienza alla religione cattolica (cfr. la nota 7 del mio articolo in "Nova et Vetera"): idea che implica una concezione del potere temporale diversa da quella che sottostà alla dottrina del Vaticano II. Che fosse questa la ragione per ritenere eretica la posizione dei liberali cattolici è perfettamente documentato nel libro di Bernard Lucien, "Grégoire XVI, Pie IX et Vatican II. Études sur la Liberté religieuse dans la doctrine catholique", Éditions Forts dans la Foi, Tours, 1990, citato nella stessa nota 7 del mio articolo (un libro che anche Valuet nella sua tesi dottorale cita e critica ampiamente) ed è ancora chiaramente espresso da mons. Lefebvre nel suo libro del 1987 "Ils l’ont découronné" (p. 76): "Ce qui est commun à tous les libéralismes, c’est la revendication du droit à ne pas être inquiété par le pouvoir civil dans l’exercice public de la religion de son choix ; leur dénominateur commun (comme le dit le cardinal Billot) c’est la libération de toute contrainte en matière religieuse. Et cela, les papes l’ont condamné". Quello che mons. Lefebvre non sembra aver compreso è che sostenendo questo si muove più su terreno politico anziché religioso e dogmatico: sul terreno, quindi, della concezione dello Stato e del suo rapporto con la Chiesa. Certamente, e a mio avviso fortunatamente, su questo punto tra la posizione "preconciliare" e quella del Vaticano II, come ha rilevato Benedetto XVI, c’è discontinuità. 7. Non è quindi vero che la libertà religiosa come diritto civile, affermata dal Vaticano II, che implica libertà dalla costrizione da parte dello Stato in materia religiosa, non sia stata condannata da Pio IX. Ma – e questo è il nucleo della mia argomentazione, totalmente ignorato da Valuet – essa era stata condannata, sulla base di una determinata visione tradizionale dei rapporti fra Chiesa e Stato e della natura stessa dello Stato e quindi dei suoi "obblighi verso la vera religione e l’unica Chiesa di Gesù Cristo", in quanto necessariamente implicante l’indifferentismo religioso e appunto per questo ritenuta contraria al dogma cattolico (ed è qui il suo nucleo perennemente valido, nel quale si mostra anche la continuità a livello dogmatico). Il tentativo, infine, di Basile Valuet, nella sua intenzione certamente lodevole, di costruire un principio di diritto naturale P3 capace di contenere in se tanto la verità delle condanne di Pio IX quanto quella dell’insegnamento del Vaticano II, mi pare assai complicato, poco convincente – in fondo contraddittorio – e soprattutto superfluo. Ma questo richiederebbe un altro articolo. Roma, 27 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 2 A / DI P. GIOVANNI CALVALCOLI, O.P. Reverendo Padre Valuet, ho letto il suo intervento su questo sito contro Gherardini, de Mattei e Rhonheimer. Complimenti per la dotta argomentazione. Vorrei solo osservare che, stando all’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede annessa alla Lettera di Giovanni Paolo II “Ad tuendam fidem” del 1998, non mi pare esatto dire che il Concilio Vaticano II nelle sue dottrine “non ha impegnato la sua infallibilità”. Vedo che anche Rhonheimer su questo punto la pensa come Lei. Infatti se Lei va a guardare questo documento, vedrà che quando la Chiesa tratta di materia di fede o prossima alla fede – e tale è il caso di alcune dottrine conciliari – tale dottrina è “definitiva” ed “infallibile”, anche se non solennemente definita ovvero anche se la Chiesa non dichiara espressamente di voler definire (queste sono appunto, sempre stando al linguaggio del documento, le dottrine “definite”, quelli che tradizionalmente chiamiamo “dogmi ex cathedra”). Certo il Concilio non ha dottrine di questo tipo, ma ne ha del primo tipo. Quanto alle dottrine alle quali è dovuto “l’assenso religioso”, per l’"Ad tuendam Fidem" sono quelle di terzo grado, il meno autorevole dei tre, che comprendono insegnamenti di carattere morale, pastorale o giuridico, che possono essere anche mutate o possono essere addirittura errate, e comunque non infallibili. Gli esempi nella storia della Chiesa sono molti. È vero che Gherardini e de Mattei sostengono che le dottrine conciliari, non essendo infallibili, possono essere contestate, e sono d’accordo con Lei che comunque bisogna obbedire anche agli insegnamenti di terzo grado. Ma secondo me Gherardini e de Mattei sbagliano ancor più gravemente di quanto Lei dice, perché si oppongono a dottrine di secondo grado e non di terzo. Bologna, 28 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 2 B / VALUET A CALVALCOLI Caro e Reverendo Padre Calvalcoli, sono assolutamente d’accordo che ci sono insegnamenti infallibili nel concilio Vaticano II, su punti del primo e del secondo grado. La mia osservazione non lo negava. Ma non ci sono definizioni del primo grado né atti definitivi del secondo grado. Questo deve essere infatti scartato a causa dei testi della Commissione teologica del Concilio durante il Concilio (perché non si trova nessun testo che indica espressamente l’intenzione di definire), e di diversi testi di Paolo VI alla chiusura e dopo il Concilio. Si tratta invece solo di punti formalmente rivelati (1° grado) o connessi (2° grado) che erano o già definiti con definizioni dogmatiche (1° grado) o con “atti definitivi” (2° grado) anteriori, o già insegnati come definitivi dal magistero ordinario universale (sia del 1° sia del 2° grado). Pertanto, se degli insegnamenti del Concilio Vaticano II sono infallibili, questo non è dovuto all’infallibilità del concilio stesso, ma all’infallibilità di atti o consensi universali anteriori. (È successa una cosa analoga con la "Ordinatio sacerdotalis" di Giovanni Paolo II; si vedano, a questo proposito le spiegazioni chiarissime dell’allora Segretario della congregazione per la dottrina della fede, Mons. Tarcisio Bertone, nel 1996). Comunque, non parlavo di questo. Se, nel mio intervento a proposito di Mons. Gherardini e del Prof. De Mattei mi sono limitato agli insegnamenti di 3° grado, è solo perché si trattava di rispondere all’equazione erronea loro presupposta come principio “de iure”: insegnamento magisteriale non definitivo, uguale a non obbligatorio. Il 1° membro dell’equazione viene costituito precisamente dagli insegnamenti di 3° grado. Ovviamente, si può ulteriormente costruire un argomento “a fortiori” a partire da là, “de facto”, perché ci sono cose infallibili nel Concilio. Però, non le cose “nuove”, che non venivano ancora definitivamente insegnate dal Magistero, visto che, per ipotesi, sono nuovamente insegnate dal Concilio. Ora, sono solo le dottrine nuove che fanno problemi per Mons. Gherardini e il Prof. De Mattei. Si tratta in particolare, e forse soprattuto, dell’esistenza del diritto alla libertà religiosa, sulla quale appunto la congregazione per la dottrina della fede scriveva nel 1978 all’arcivescovo Marcel Lefebvre, facendo appello non al 2° grado, ma al 3°: « L’affirmation de ce droit à la liberté religieuse est dans la ligne des documents pontificaux antérieurs (cf. D.H., 2, note 2) qui, face aux excès de l’étatisme et aux totalitarismes modernes ont affirmé les droits de la personne humaine. Par la Déclaration conciliaire, ce point de doctrine entre clairement dans l’enseignement du Magistère et, bien qu’il ne soit pas l’objet d’une définition, il réclame docilité et assentiment (cf. Const. Dogm. Lumen Gentium, 25). Il n’est donc pas licite aux fidèles catholiques de le rejeter comme erroné, mais ils doivent l’accepter selon le sens et la portée exacte que lui a donné[s] le Concile, compte tenu de la “doctrine catholique traditionnelle sur le devoir moral de l’homme et des sociétés envers la vraie religion et l’unique Église du Christ” (cf. D.H., 1). » (1) La ringrazio di riferirmi ai documenti della congregazione e di Giovanni Paolo II. Ma Le devo confessare che li cito abbondantemente nella mia tesi (1998) e nel suo riassunto (2005) ed anche nel mio contributo al libro collettivo: "L'Église, servante de la vérité: regards sur le Magistère", sous la dir. de Bruno Le Pivain, préf. du card. Georges Cottier, Genève, Ad solem, 2006, pp. 412 (purtroppo con 2 errori tipografici importanti nel mio intervento). Le allego due estratti della 3a edizione della mia tesi completa (del maggio 2011, estratti sostanzialmente identici al riassunto del 2005) : il primo sul magistero in genere (dal capitolo 2) ; il secondo sull’autorità del Concilio Vaticano II in particolare. E vedrà così meglio la mia opinione. Le porgo i miei distinti saluti ed ossequi. Fr. Basile Valuet Le Barroux, 29 maggio 2011 (1) SCDF, 1978.01.28 : Prot. N. 1144/69 ; orig. franç. : Itinéraires, n° 233 (mai 1979), 13-14. __________ POST SCRIPTUM 2 C / CALVALCOLI A VALUET Caro e Reverendo Dom Valuet, mi consenta di replicare subito ad un punto della sua risposta al mio intervento, punto che considero particolarmente importante e che mi pare al centro di questo interessantissimo dibattito, che impegna menti elette, e che si sta sviluppando di giorno in giorno a seguito della famosa formula del Papa (“continuità nella riforma”). Da qui vediamo quanto il Santo Padre è stimolatore di vivacità culturale e teologica. È mia convinzione che anche le dottrine nuove del Concilio, in quanto esplicitazione o sviluppo di precedenti dottrine dogmatiche o dogmi definiti, sono infallibili. Infatti mi pare che tutto il nodo del dibattito sia qui. Siamo infatti tutti d’accordo – Gherardini, de Mattei e noi – che le dottrine già definite presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio. Io credo che bisogni rispondere affermativamente a questo quesito perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il Papa? Inoltre, se queste novità non sono infallibili, vuol dire che sono fallibili. Ma allora è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso? Può il nuovo in campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico? Le ricordo ancora che l’"Ad tuendam fidem" dice che sono infallibili non solo le dottrine di primo grado, laddove la Chiesa dice di voler definire, ma anche quelle di secondo grado, anche se non definite, ma in quanto anch’esse di fede o prossime alla fede. Ora, gli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede come non saranno anch’essi infallibili, ossia, come dice l’"Ad tuendam fidem", “definitivi” e quindi assolutamente e perennemente veri ("de fide tenenda")? Tutto il valore e tutta la grandezza del Concilio non stanno forse qui? Se noi neghiamo questo non indeboliamo la forza della tesi continuista? Non finiamo, nel contempo, con lo snervare la carica innovativa del Concilio? Sostenere che si tratta solo del terzo grado non è forse troppo poco? Il terzo grado ammette anche la opinabilità e la fallibilità, se si tratta di dottrine pastorali, morali o giuridiche. Ma nel caso del Concilio si tratta di dottrine dogmatiche. Non sono dottrine “definite” (primo grado), però sono “definitive” (secondo grado). Nel primo e nel secondo caso non basta un semplice “religioso ossequio” (terzo grado), ma la fede ("tenenda"), quella che tradizionalmente si chiama anche “fede ecclesiastica” o “cattolica”, che è meno della fede divina o teologale ("credenda"), ma è ad essa necessariamente connessa. È quel credere nella Chiesa mediante il quale crediamo alla Parola di Dio. Vorrei aggiungere che mi sembra evidente che quando il Papa parla di continuità nella riforma non intende sostenere una pura e semplice continuità ripetitiva, cioè non intende dire – come piacerebbe a Gherardini e de Mattei – che come cattolici dobbiamo assumere come infallibili solo quelle dottrine già definite che ricompaiono nel Vaticano II, ma che nel Concilio esiste un progresso dottrinale, esiste del nuovo, in continuità con l’antico, il quale nuovo come tale è infallibile come l’antico. Dobbiamo pertanto far capire a Gherardini e de Mattei che anche il nuovo è infallibile. Il tradizionalismo esagerato non riesce ad aprirsi al nuovo, non capisce come esso è in continuità con l’antico, lo scambia per modernismo. Dimostrare la continuità delle dottrine conciliari con quelle precedenti non vuol dire dimostrare una pura e semplice continuità univoca: sarebbe un’impresa disperata, che darebbe ragioni valide a Gherardini e de Mattei. Dobbiamo dimostrare che si tratta di continuità evolutiva, per così dire analogica (“analogia fidei”), che non per questo diventa rottura, ma resta continuità. Lo so che sembra una contraddizione, ma invece così non è. Potrei dimostrarlo, ma qui sarebbe troppo lungo. Rimando solo al trattato classico del domenicano spagnolo Francisco Marín Sola, "La evolución homogenea del dogma católico", pubblicato negli anni ’50. Qui egli appunto mostra il concetto giusto del progresso dogmatico contro la falsa concezione del modernismo. Teorie simili si trovano nell’altro grande teologo domenicano francese, Yves Congar. Secondo i nostri avversari, infatti, che sembrano voler insegnare al Papa, il Papa avrebbe diritto di dire che la continuità consiste solo nelle ripetizioni dell’antico presenti nel Concilio, ma non può affermare la presenza della continuità nel nuovo, perché invece per costoro qui c’è rottura, per cui non siamo tenuti ad assumere queste dottrine, perché secondo loro sono in contrasto con la Tradizione. Questo vuol dire non comprendere la saggezza delle parole del Papa. Egli infatti presenta il concetto di una continuità progressiva o evolutiva (non in senso modernistico ma cattolico), della quale ho detto sopra. Questo vale anche per la Tradizione, che egli chiama “viva”. Infatti il Concilio parla di uno sviluppo della Tradizione. Ma allora bisogna dimostrare che anche questo progresso è infallibile. Questo è il vero continuismo rispondente alla "mens" del Santo Padre. Un’ultima osservazione: in questo dibattito tra continuisti e non-continuisti c’è una preoccupazione di fondo che tutti, come cattolici, ci accomuna: quella della continuità, in fondo la consapevolezza dell’immutabilità del dogma e del dato della Tradizione. Ci divide il fatto che alcuni, come noi due, dicono che c’è la continuità, mentre gli altri, amareggiati e scandalizzati per un supposto tradimento operato dal Concilio, non vedono questa continuità e non si fidano delle parole del Papa il quale invece assicura che esiste. Potremmo chiederci: come mai in questo dibattito non intervengono i discepoli di Alberigo o i rahneriani? La risposta è semplice: perché anche per loro, considerando l’assicurazione del Papa come un trucco per conquistarsi i tradizionalisti, i quali peraltro non abboccano, il progresso teologico è per sua natura rottura e contrasto col passato. Essi hanno una concezione hegeliana e modernista del progresso. Per loro è evidente che nel Concilio c’è rottura. Ma è proprio questo, secondo loro, il bello del Concilio. Per loro lo stare a chiedersi con preoccupazione se c’è o non c’è continuità, è già segno di una mentalità vecchia, preconciliare e superata (presente nel Papa stesso che parla di “continuità”). Per questo, per loro la nostra discussione è anacronistica e quindi tempo perso. Per loro l’essenziale per il nostro tempo è il Vaticano II (interpretato a modo loro); quello che è successo prima è materiale da museo. Io credo allora che dobbiamo essere uniti con i nostri avversari tradizionalisti anticontinuisti contro il neomodernismo che oggi continua a falsificare il vero senso del Concilio: cosa di cui i Papi del postconcilio si lamentano in continuazione. Per questo l’assimilazione che Mons. Marchetto ha fatto della posizione di de Mattei con quella di Alberigo dicendo che entrambi in ultima analisi sostengono la “rottura” è giusta, ma solo in modo del tutto superficiale. In realtà tra i due c’è un abisso, perché mentre de Mattei, da vero cattolico, ben cosciente dell’immutabilità del dogma, è amareggiato per la supposta rottura, e qui però dimostra poca fiducia nel Papa, i seguaci di Alberigo considerano la rottura un bene e un progresso (si considerano più avanzati del Papa), ma solo perché, da cattivi cattolici, sono influenzati dal concetto hegeliano-storicista-modernista del progresso dogmatico e disprezzano la continuità. P. Giovanni Cavalcoli, OP Bologna, 30 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 3 A / DI MASSIMO INTROVIGNE Penso che, al di là di qualche spunto polemico che è inevitabile quando ci si appassiona a un tema, sia un grande merito del blog di Sandro Magister quello di avere contribuito a chiarire di che cosa si sta parlando quando in tema di libertà religiosa si discute di continuità, discontinuità e rottura tra Magistero precedente al Concilio Ecumenico Vaticano II, da una parte, e dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" e magistero postconciliare dall’altra parte. A questo dibattito vorrei aggiungere solo un’osservazione di carattere storico-sociologico. Lo spirito del mio contributo è quello evocato da Rhonheimer: fra cattolici che vogliono essere fedeli al Magistero, cercare quello che unisce, e mostrare che è più profondo di quello che divide. Ci esorta a comportarci così anche Benedetto XVI che, celebrando il 16 maggio 2011 il cinquantenario dell’enciclica "Mater et magistra" del beato Giovanni XXIII, c’insegna che «ancora valide, inoltre, sono le indicazioni offerte da Papa Roncalli a proposito di un legittimo pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale. Scriveva, infatti, che in questo ambito "[…] possono sorgere anche tra cattolici, retti e sinceri, delle divergenze. Quando ciò si verifichi non vengano mai meno la vicendevole considerazione, il reciproco rispetto e la buona disposizione a individuare i punti di incontro […]”». Le nozioni da prendere in esame non sono, a mio avviso, soltanto due – continuità e discontinuità – ma tre: continuità, discontinuità e rottura. Se, come afferma Benedetto XVI, c’è stata «riforma nella continuità», dal punto di vista logico e semantico possiamo certamente affermare che ci sono stati sia elementi di continuità sia elementi di discontinuità. Se ci fosse solo continuità non ci sarebbe riforma. La riforma, per definizione, muta qualcosa, fa sì che non tutto continui esattamente come si presentava prima: dunque implica una certa discontinuità. La «riforma nella continuità» – per quanto il Papa in due occasioni abbia parlato, come ho ricordato, anche di «ermeneutica della continuità» tout court – non nega dunque che esistano elementi di discontinuità. Diversamente, non ci sarebbe nessuna riforma. Ma Benedetto XVI afferma che questi elementi di discontinuità non hanno portato a una rottura. Se si vuole parlare di «ermeneutica della continuità» – il Papa, ripeto, lo ha fatto nella nota 6 dell’esortazione apostolica "Sacramentum caritatis" del 2007 e nel discorso del 12 maggio 2010 ai partecipanti al convegno teologico della Congregazione del Clero, ma credo che il suo pensiero sia meglio rappresentato dall’espressione «ermeneutica della riforma nella continuità» –, allora si deve aggiungere, per evitare equivoci, che il contrario dell’«ermeneutica della continuità» non è una «ermeneutica della discontinuità» ma una «ermeneutica della rottura». C’è dunque in effetti un accordo di fondo in questo dibattito tra me e Rhonheimer e credo anche dom Basile Valuet – la cui monumentale opera, si tratti bibliograficamente di sei o di tre volumi, rimane comunque un punto di riferimento imprescindibile per chiunque s’interessi alla questione della libertà religiosa –: la riforma nella continuità, che in quanto è vera riforma comprende anche elementi di discontinuità, non implica nessuna rottura, perché al di là dei momenti di discontinuità rimane intatto quello che Rhonheimer chiama il «nucleo perennemente valido, nel quale si mostra anche la continuità a livello dogmatico», e cioè la condanna del relativismo e dell’indifferentismo. Come afferma Benedetto XVI nell’enciclica "Caritas in veritate" al n. 55 «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali». Qui io, Rhoneimer e dom Basile stiamo dalla stessa parte, mentre mons. Lefebvre, Gherardini e de Mattei (di cui mi sono note le critiche, ma su altri punti, a mons. Lefebvre) stanno dalla parte opposta. Per loro la dottrina della libertà religiosa della "Dignitatis humanae" e del Magistero postconciliare ha canonizzato o almeno attivamente favorito il relativismo e l’indifferentismo. La loro è dunque un’ermeneutica della rottura, identica nell’interpretazione anche se opposta nel giudizio rispetto a quella della scuola di Bologna e del progressismo. Tra Rhonheimer e il sottoscritto (e – credo – dom Basile), oltre a questa convergenza che è tutt’altro che poco importante e anzi attiene all’essenziale, c’è però anche una di quelle divergenze che possono sorgere, come ricorda il beato Giovanni XXIII citato da Benedetto XVI, anche «tra cattolici, retti e sinceri» che vogliono stare dalla parte del Magistero. Questa divergenza non riguarda, credo, la presenza di elementi di discontinuità in tema di libertà religiosa fra Magistero precedente e Vaticano II e postconcilio, accanto agli elementi, prevalenti, di continuità, i quali fanno sì appunto che non ci sia nessuna rottura. Una riforma – sia pure «nella continuità» – è sempre un darsi insieme nella storia di elementi di continuità (diversamente, non sarebbe una riforma ma una nuova fondazione) e di discontinuità (diversamente, non ci sarebbe nessuna riforma). No: la divergenza riguarda la radice e la natura degli elementi di discontinuità. Rhonheimer, se ho bene inteso il suo pensiero, vede la radice della discontinuità nel fatto che la Chiesa del Concilio e del postconcilio, riflettendo in modo più approfondito alla luce di un dibattito che nel frattempo era continuato, si sarebbe resa conto che il beato Pio IX sbagliava non già quando condannava l’indifferentismo – lì aveva ragione, e la Chiesa mantiene la condanna ancora oggi –, ma quando affermava che la nozione politica di libertà religiosa della scuola cattolico-liberale, pure diversa da quella del liberalismo radicale e laicista, implicava necessariamente l’indifferentismo e quindi andava anch’essa condannata. La tesi di dom Basile sostiene che non è così e che la Chiesa del Vaticano II non dichiara, né esplicitamente né implicitamente, che le condanne del beato Pio IX nei confronti dei cattolici liberali erano sbagliate. Questo dibattito ne contiene, a ben vedere, tre. Il primo riguarda il giudizio morale sugli esponenti della scuola cattolico-liberale. Non c’è dubbio che alcuni di loro fossero buoni cattolici, persone sinceramente preoccupate del bene della Chiesa e che avevano in orrore il liberalismo radicale d’impronta laicista. Benedetto XVI lo afferma, con riferimento ad alcuni cattolici liberali italiani, nel messaggio del 16 marzo 2011 al presidente Giorgio Napolitano per il 150° anniversario dell’unità politica dell’Italia. Su questo punto non è forse difficile trovare un accordo. Ma la rettitudine delle intenzioni non garantisce la precisione o l’ortodossia della dottrina. Il secondo dibattito riguarda il nesso – o l’assenza di un nesso – fra la posizione della scuola cattolico-liberale e la promozione dell’indifferentismo e del relativismo. Non possiamo certo risolvere questo problema in poche righe. E probabilmente dovremo esaminare gli autori di questa scuola uno per uno, con riferimento anche a situazioni nazionali molto diverse, per esempio fra Italia e Francia. È un dibattito che riguarda gli storici, e su cui non è scandaloso che si manifestino opinioni diverse. Il terzo punto, rimasto a mio avviso un po’ in ombra e di grande interesse sociologico, è se – dal beato Pio IX al Concilio e oltre, e attraverso passaggi complessi (per esempio, già nel Magistero di Leone XIII e del venerabile Pio XII ci sono elementi di «riforma nella continuità» rispetto ai Pontefici precedenti) – cambi il giudizio sulla tesi di fondo in tema di libertà religiosa della scuola cattolico-liberale ovvero invece cambino le circostanze storiche. Anche a questa domanda la risposta è evidentemente molto complessa. Tuttavia, io penso che alla fine a determinare gli elementi di discontinuità abbiano contribuito più le mutate circostanze storiche che un’eventuale mutazione dell’opinione della Chiesa sul modo di applicare i principi fondamentali. La Chiesa tiene conto del fatto che nella storia sono esistiti ed esistono diversi tipi di Stato, così che – partendo dagli stessi principi immutabili – le applicazioni dei medesimi principi ben potranno variare a seconda dello Stato cui ci si trova di fronte. La Francia di Carlo Magno o anche la Francia dell’epoca del beato Pio IX, in cui sembrava concretamente possibile che salisse al potere un principe cristiano che aveva dello Stato una nozione molto tradizionale come Enrico V conte di Chambord, non è la Francia di Sarkozy, e a diversi tipi di Stato, certo partendo sempre dai medesimi principi generali, la Chiesa suggerisce applicazioni pratiche diverse. La Chiesa «preferisce» la Francia di Sarkozy a quella di Carlo Magno, o a un’ipotetica Francia che fosse stata governata da Enrico V ispirandosi alle idee del beato Pio IX? Può darsi che questa sia un’opinione diffusa tra molti ecclesiastici. Ma a rigore, ha scritto Benedetto XVI nel messaggio datato 29 aprile 2011 alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, la Chiesa afferma che «ogni Stato ha il diritto sovrano di promulgare la propria legislazione, ed esprimerà differenti atteggiamenti verso la religione nel diritto». Certo, la Chiesa non può approvare «la diffidenza verso la religione» in genere che caratterizza il laicismo moderno. Ma, una volta che l’importanza della religione per la vita sociale sia riconosciuta e che i principi generali della libertà religiosa siano accolti, non pensa che esista un unico tipo di Stato da assumere come ideale – un unico vestito che andrebbe bene per tutti i tempi e tutti i luoghi –, e quindi un’unica applicazione normativa dei principi di libertà religiosa che pure, in quanto principi, non mutano. Nella lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede "Liberté religieuse. Réponse aux ‘dubia’ présentés par S.E. Mgr. Lefebvre", inviata a mons. Lefebvre il 9 marzo 1987, si legge che la "Dignitatis humanae" ha come punto di riferimento lo Stato laico moderno, che è cosa diversa dalle antiche monarchie rette da principi cristiani, e non dà giudizi storici: «non implica […] una disapprovazione della condotta seguita in passato da alcuni principi cristiani, la cui valutazione storica è complessa», anche se è certo possibile che tra questi sovrani taluni abbiano agito ingiustamente. Alla fine, la divergenza sta qui: tra gli elementi di discontinuità che insieme a quelli, prevalenti, di continuità vanno a costituire una «riforma nella continuità» io – come gli autori della lettera del 1987 – non penso che ci sia una «disapprovazione» generalizzata del modo in cui si comportarono sia i «principi cristiani» che introdussero o mantennero misure a protezione dell’unità religiosa di Stati tradizionali che oggi non esistono più, sia i Papi che elogiarono questi sovrani. Se il governante di uno Stato laico di oggi si comportasse nello stesso modo incorrerebbe, probabilmente, nell’esplicita «disapprovazione» della Chiesa. Ma perché sono cambiate le circostanze di fatto ed è mutato il tipo di Stato, non perché siano cambiati i principi dottrinali fondamentali. Torino, 28 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 3 B / VALUET SU INTROVIGNE Condivido assolutamente l'intervento di Massimo Introvigne del 28 maggio. Preciso semplicemente che il documento che cita il dott. Introvigne come fosse un documento della stessa Congregazione per la dottrina della fede, è un documento scritto da uno o più consultori esperti di detta congregazione, che veniva allegato alla lettera del 9 marzo 1987 della congregazione stessa. Quindi, a differenza della lettera stessa, il documento allegato (di 50 pagine, molto ben fatto, e che cito nella mia tesi sotto il nominativo “Consulteur SCDF”, ma che non fui autorizzato a citare letteralmente, mentre adesso si trova sulla rete!) non ha direttamente un valore ufficiale magisteriale. Per il resto, avrei piccoli dettagli da aggiungere all’intervento di M. Introvigne, che lo rafforzeranno. Il che farò quanto prima. Fr. Basile Valuet Le Barroux, 29 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 4 / LA CONTRO-REPLICA DI VALUET A RHONHEIMER 1. Mon Père, Je vous demande pardon si je vous ai offensé. Pardonnons-nous mutuellement nos défaillances ! Ma méprise venait de ce que, en France, « volume » désigne plutôt la division matérielle d’un livre. 2. Nous sommes d’accord sur le plus important : l’existence du droit à la liberté religieuse (= LR). Selon la doctrine catholique, le mal ne peut pas avoir de droit, et ne pas l’empêcher ne peut se justifier que dans le cadre du volontaire à double effet, par la poursuite d’un bien plus grand ou l’empêchement d’un mal plus grand. Les canonistes allaient plus loin, disant que l’État disposait d’un droit de ne pas tolérer. Le progrès doctrinal de l’allocution "Ci riesce", c’est que, dans certaines circonstances, l’homme n’a pas le droit de ne pas tolérer. Or il est toujours injuste d’agir sur autrui quand on n’en a pas le droit. Ainsi, dans ces circonstances, on commettrait une injustice, donc on irait contre un droit en empêchant l’erreur, un droit non de l’erreur, mais de l’adepte de l’erreur. Raisonnement résumé par mon 1er patron de thèse, Mgr Fernando Ocáriz (1), dans son article sur la LR. Si par « tolérance », on entend le fait de ne pas empêcher l’erreur qu’on aurait le droit de tolérer, alors, évidemment, « droit à être toléré » n’a aucun sens. Mais si par « tolérance », on entend, comme le magistère, « ne pas empêcher le mal » tout court, alors, il peut parfois exister un « droit de l’adepte de l’erreur à être toléré ». Ainsi, on a toujours dit que les parents non chrétiens avaient un droit à ne pas être empêchés, donc à être tolérés, dans l’éducation erronée donnée à leurs enfants. Dans sa prudence politique (cf. CEC 2109), l’homme d’État doit discerner si le mal en question est protégé par un droit, ou s’il ne l’est pas, et, dans ce dernier cas, s’il est opportun de l’empêcher ou non. Citons ici Joël-Benoît d’Onorio, président des juristes catholiques de France, puis de l’Union internationale des juristes catholiques, à qui, dès 1992, j’avais soumis mes notions sur le droit : « En matière de liberté religieuse, le débat « droit ou tolérance » est tout aussi dépassé car la liberté dont a traité le Concile n’est qu’un “droit à être toléré”, c’est-à-dire une immunité civile – mais non absolue – pour tout esprit religieux, une liberté physique opposable à l’État et à la société, et non une liberté morale opposable à Dieu et à son Église » (2). Outre les deux auteurs cités à l’instant, mon préfacier, le cardinal Stickler, canoniste connu (cf. p. XLVIII de sa préface), le P. B.-D. de La Soujeole, ancien magistrat (3), et Mgr Dominique Le Tourneau, canoniste réputé (4), recenseurs élogieux de ma thèse, ne se sont pas aperçus que « Valuet non comprende che cosa è un diritto ». 3. Sur ordre exprès de Paul VI, le 6e rapport oral de la commission de rédaction (non le texte de "Dignitatis humanae" ni du CEC) a expliqué ceci le 19 nov. 1965 : « Certains Pères affirment que la Déclaration ne montre pas suffisamment comment notre doctrine ne s’oppose pas aux documents ecclésiastiques jusqu’à Léon XIII. […] il faut affirmer ce qui suit : alors que les documents pontificaux jusqu’à Léon XIII insistaient davantage sur les devoirs moraux de la puissance publique ("potestatis publicæ") vis-à-vis de la vraie religion, les derniers souverains pontifes, en conservant cette doctrine, la complètent en mettant en lumière un autre devoir de la puissance publique ("potestatis publicæ"), à savoir de respecter en matière religieuse la dignité de la personne humaine comme un élément nécessaire du bien commun. Le texte qui vous est présenté aujourd’hui rappelle clairement les devoirs de la puissance publique ("potestatis publicæ") vis-à-vis de la vraie religion (voir n. 1 et n. 3), ceci rend manifeste le fait que cette partie de la doctrine n’a pas été omise » (5). La théologie se sert couramment des rapports des commissions conciliaires pour éclaircir le sens des enseignements des conciles. Le n. 2105 du CEC rappelle qu’il faut évangéliser les lois et les structures de la communauté, et renvoie à "Immortale Dei" et "Quas primas". 4. Certes, une intention non manifestée par un pape ne peut pas être magistérielle, mais la manifestation de cette intention ne requiert aucune formule spéciale. "Quanta cura" manifeste suffisamment d’enseigner une doctrine définitive. Grégoire XVI dans sa lettre "Singulari Nos", avait d’ailleurs précisé qu’il avait dans "Mirari vos" défini la doctrine catholique contre la liberté absolue de conscience (et contre l’indifférentisme, bien distingué, là, comme dans tous les documents magistériels). 5. Un extrait du CEC va nous permettre de mieux comprendre ce qui s’est passé : « Le droit à la liberté religieuse n’est [A] ni la permission morale d’adhérer à l’erreur, [B] ni un droit supposé à l’erreur, [C] mais un droit naturel de la personne humaine à la liberté civile, c’est-à-dire à l’immunité de contrainte extérieure […] ». Distinguons trois positions différentes concernant la personne humaine (singulière ou collective). Par « erreur », nous entendons bien sûr ce que l’Église catholique déclare être une erreur : [A] L’homme a la permission morale d’adhérer à l’erreur. [B] L’homme a le droit d’adhérer à l’erreur. [C] L’homme a le droit à l’immunité de contrainte extérieure, même s’il est dans l’erreur. La proposition A, condamnée, bien sûr, de tout temps, en particulier au début du Syllabus, résume l’indifférentisme religieux. — B résume la thèse de la liberté de conscience et des cultes (LCC), condamnée aussi, à la fin du Syllabus. — C résume la doctrine de Vatican II. A implique B, qui implique C. Mais C n’implique ni B ni A. Les rationalistes tiennent A et B. Le Lamennais de 1831, lui, ne soutenait pas A (ce qu’il fera en 1834), mais B, considérée comme essentielle à la constitution correcte de la société. C’est pour B qu’il fut condamné (infailliblement) par "Mirari vos". "Quanta cura", préparée bien avant 1863 pour condamner A et B, ne condamna pas les discours de Malines de Montalembert, lequel ne soutenait pas A, ni même B en théorie, mais estimait cependant dans la pratique devoir s’accommoder d’une société organisée sur B, parce qu’elle rendait possible C. Le Saint-Siège fit expliquer par Curci, en 1863, un an avant "Quanta cura" et le "Syllabus", que cette position d’hypothèse était acceptable. Léon XIII condamna encore A et B ; il affirma comme déjà Pie IX la possibilité de tolérer la situation concrète de B. Mais, 1er pape à avoir distingué la LCC idéologique européenne (B) et la LR pragmatique américaine (C), dans "Longinqua Oceani", en 1895, il déclara que C, situation bonne, n’était pas la meilleure dans l’absolu. 6. Que s’est-il passé ensuite ? L’État moderne dont parle le Saint-Père en 2005 a évolué de la conception de la LCC (B), à une conception autre de la liberté (C). De son côté, le magistère, dès "Libertas", a su distinguer progressivement de B la revendication de C. Et ainsi, le magistère a fini par se retrouver d’accord avec l’État moderne sur la LR (cf. les explications données en "Dignitatis humanae" 1), bien que reste condamnée la LCC (B) condamnée par Pie IX (il n’y a pas de droit à l’erreur), et pas seulement A. Il y a discontinuité sur la liberté dont on parle, non sur la doctrine : nous sommes donc d’accord. Autre chose de très important a changé aussi : le fait que le droit à la LR (au sens C) ait été reconnu de manière inter-confessionnelle et internationale après la 2e guerre impliquait que l’expansion d’une religion autre que la religion dominante dans une société donnée ne constituait plus ipso facto un danger pour l’ordre public. De ce fait, la nécessité pour l’Église d’avoir un bras séculier chargé de réprimer "ipso facto" l’erreur religieuse n’existait plus. La situation antérieure était moins parfaite. Mais comme le remarque le Prof. Stefano Ceccanti, on pouvait comprendre que l’Église fît appel à un État catholique pour se défendre. La commission de rédaction de "Dignitatis humanae" a précisé que l’exigence, parfois prévue dans les concordats, de réprimer les confessions non catholiques, était due aux circonstances (A.S. III/VIII, 463-464). Lorsque l’Allemagne et la France étaient en guerre, fait extrêmement déplorable, le droit naturel permettait aux armées de se tirer dessus. Mais dès l’armistice, il devient contraire au droit naturel de se tirer dessus. De Théodose à 1948, on a appliqué entre les confessions religieuses le « droit de la guerre ». Avec la reconnaissance mutuelle du droit à la LR, disparaît le droit "per se" à la coercition du bras séculier. Il me semble que je vous rejoins ici ? "Dignitatis humanae" énonce un principe englobant toutes les situations : là où une erreur religieuse ne nuit pas à l’ordre public juste, l’État n’a pas à la réprimer, mais si elle nuit à l’ordre public juste, l’État peut et parfois doit la réprimer. 7. Les papes du XIXe ont condamné le droit affirmatif (B), et non le droit négatif de Vatican II (C). Fr. Basile Valuet Le Barroux, le 30 mai 2011 NOTES (1) OCÁRIZ Fernando, "Sulla libertà religiosa. Continuità del Vaticano II con il Magistero precedente", in "Annales Theologici", 3/1 (giugno 1989), p. 71-97 (ici p. 89) (2) ONORIO Joël-Benoît d’, "La Liberté religieuse droit fondamental", in AA. VV., "La Liberté religieuse dans le monde. Analyse doctrinale et politique", ID. (dir.), Paris, Éd. univ., 1991, p. 18. (3) "Revue Thomiste", XCVII/3 (juillet-septembre 1997), p. 613-616. (4) "Ius Canonicum", 2001, 754-760. (5) Acta Synodalia IV/VI, 719. __________ NOTA BENE – Ai sette interventi qui pubblicati come "post scriptum" ne vanno aggiunti altri cinque, ospitati negli stessi giorni in SETTIMO CIELO, il blog che fa da corredo a www.chiesa. Ne sono autori, di nuovo, dom Valuet, padre Cavalcoli, il professor Rhonheimer. Ma a dare loro lo spunto per ulteriori commenti è stato il costituzionalista italiano Stefano Ceccanti, che a sua volta ha rinviato a un testo del teologo e cardinale Walter Kasper su "Chiesa e libertà". Ecco i post con i loro interventi: > La Chiesa può cambiare la sua dottrina? La parola a Ceccanti e a Kasper (29.5.2011) > Ancora su Stato e Chiesa. Dom Valuet risponde a Ceccanti (30.5.2011) > Padre Cavalcoli scrive da Bologna. E chiama in causa i "bolognesi" (31.5.2011) __________ ************************* Chi tradisce la tradizione. La grande disputaSi infiamma la discussione su come interpretare le novità del Concilio Vaticano II, soprattutto sulla libertà di religione. I tradizionalisti contro Benedetto XVI. Un saggio del filosofo Martin Rhonheimer a sostegno del papa di Sandro Magister ![]() ROMA, 28 aprile 2011 – Nel memorabile discorso che Benedetto XVI rivolse alla curia romana il 22 dicembre del 2005, su come interpretare il Concilio Vaticano II, c'è un punto che continua ancora oggi a essere fonte di conflitto. Riguarda la libertà di religione. Su questo punto il Concilio innovò in modo deciso. Affermò ciò che in precedenza vari papi avevano negato: la libertà di ogni cittadino di praticare la propria religione, anche se "falsa". L'enciclica "Quanta cura" di Pio IX del 1864 aveva condannato esplicitamente tale libertà. Solo all'unica vera religione, la cristiana cattolica, spettava pieno diritto di cittadinanza in uno stato. La pratica di altre fedi poteva essere solo tollerata, entro certi limiti. Il Concilio Vaticano II, invece, mise al centro dei doveri di uno stato non la verità ma la persona. E affermò che ad ogni persona deve essere pienamente riconosciuto il diritto di praticare la sua religione, quale che sia. * Questa innovazione del Concilio fu subito vista da molti come una drastica rottura rispetto alla tradizione della Chiesa. Con grande giubilo per chi vedeva nel Vaticano II un radioso "nuovo inizio" epocale. Con grande costernazione per chi vi vedeva un nefasto abbandono della retta dottrina. Per l'arcivescovo Marcel Lefebvre e i suoi seguaci, il rifiuto di questa innovazione – assieme ad altre compiute dal Concilio – portò addirittura allo scisma. Ma anche dentro la Chiesa cattolica c'era chi riteneva questa svolta errata e inaccettabile. Non sorprende, quindi, che Benedetto XVI abbia dedicato tutta la parte finale del suo discorso del 22 dicembre 2005 proprio all'analisi di questa innovazione conciliare. Che non fu di "rottura" – disse – ma di "riforma nella continuità". Papa Joseph Ratzinger spiegò che il Concilio, affermando la libertà di religione, accoglieva sì "un principio essenziale dello stato moderno" che vari papi avevano in precedenza osteggiato. Ma facendo ciò non aveva rotto con "il patrimonio più profondo della Chiesa". Anzi, si era rimesso "in piena sintonia" non solo con l'insegnamento di Gesù sulla distinzione tra Dio e Cesare, ma "anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi", poiché essi sono morti proprio "per la libertà di professione della propria fede: una professione che da nessuno stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza". * Passati quasi sei anni, che effetto ha avuto quel discorso di Benedetto XVI, mirato a interpretare non solo la dichiarazione sulla libertà religiosa ma l'intero Concilio Vaticano II alla luce del criterio: "riforma nella continuità"? Nel campo progressista, i fautori del Concilio come "nuovo inizio" epocale – in particolare gli autori della sua storia più letta al mondo – hanno concluso che papa Ratzinger ha dato loro ragione, sia pure con tutte le cautele. Questo, almeno, è quanto hanno sostenuto gli italiani Alberto Melloni e Giuseppe Ruggeri, l'americano Joseph A. Komonchak, il francese Christoph Theobald, il tedesco Peter Hünermann e altri, in una loro opera collettiva pubblicata nel 2007: > Confermato: il Concilio fu "svolta epocale". La scuola di Bologna annette il papa (11.12.2007) Nel campo tradizionalista, invece, la reazione è stata negativa. I lefebvriani persistono nel loro scisma, nonostante la revoca della scomunica dei loro quattro vescovi, compiuta da Benedetto XVI nel 2009. E i cattolici più legati alla tradizione, pur professandosi in comunione con la Chiesa, appaiono anch'essi sempre più a disagio. Avevano scommesso sull'azione restauratrice di Benedetto XVI e ora si sentono abbandonati. Negli ultimi mesi alcuni loro esponenti di rilievo – da Brunero Gherardini a Roberto de Mattei ad Enrico Maria Radaelli – hanno messo per iscritto la loro delusione, come www.chiesa ha documentato: > I grandi delusi da papa Benedetto (8.4.2011) > I delusi hanno parlato. Il Vaticano risponde (18.4.2011) La critica ultima che alcuni dei maggiori pensatori tradizionalisti rivolgono all'attuale papa è di ostinarsi a difendere in blocco il Concilio Vaticano II, quando invece esso è la causa di tutti i mali della Chiesa presente. Alcuni errori dogmatici – scrivono – si annidano infatti proprio nei testi del Concilio, e non soltanto nelle loro successive interpretazioni e applicazioni. La "rottura" con la tradizione operata dal Vaticano II in materia di libertà di religione ne sarebbe, a loro giudizio, una prova lampante. La Chiesa – dicono – non può insegnare oggi ciò che tanti papi hanno più volte condannato come contrario alla fede. Ne va di mezzo l'infallibilità del suo magistero. * Ma è proprio così? Qual è la "tradizione" da cui il Concilio si è distaccato, nella dichiarazione "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa? E qual è invece la tradizione perenne della Chiesa – il suo "patrimonio più profondo" – a cui il Concilio si è riallacciato, come ha detto Benedetto XVI nel suo discorso del 22 dicembre 2005? A queste domande risponde il professor Martin Rhonheimer in un saggio sull'ultimo numero di "Nova et Vetera", la rivista pubblicata in Svizzera, a Friburgo, sotto la direzione del cardinale Georges Cottier, già teologo della casa pontificia, e del teologo domenicano Charles Morerod, rettore della Pontificia Università San Tommaso. L'articolo, pubblicato su "Nova et Vetera" in lingua francese, è seguito da un'ampia appendice che replica alle critiche piovute su di esso – da parte di esponenti tradizionalisti, ma non solo – dopo una sua precedente diffusione in tedesco e in spagnolo. Sia l'articolo che l'appendice mostrano come l'ermeneutica della "riforma nella continuità" sostenuta da Benedetto XVI sia la sola capace di spiegare l'indubbia novità segnata dal Vaticano II in materia di libertà di religione senza con ciò compromettere l'infallibilità della Chiesa nella dottrina della fede. E mostrano anche che cosa c'era di caduco e di perenne nella condanna della libertà di religione da parte di Pio IX e di altri papi. L'elemento caduco, storico, che il Vaticano II abbandonò, era la concezione della religione di stato, dello stato che garantisce la verità religiosa e reprime l'errore. Mentre l'elemento perenne, dogmatico, che infatti il Concilio tenne fermo, era la condanna del relativismo, dell'idea cioè che tutte le religioni siano ugualmente valide e vere. Il professor Rhonheimer, svizzero, sacerdote dell'Opus Dei, insegna etica e filosofia politica alla Pontificia Università della Santa Croce, a Roma. Ecco qui di seguito un ampio estratto sia dell'articolo sia dell'appendice pubblicati dal professor Rhonheimer su "Nova et Vetera". C'è da aspettarsi che le migliori menti, fra i tradizionalisti, raccoglieranno la sfida e continueranno la discussione. __________ L'"ERMENEUTICA DELLA RIFORMA" E LA LIBERTÀ DI RELIGIONE di Martin Rhonheimer Come è noto, il 22 dicembre 2005, papa Benedetto XVI si è espresso, nel suo discorso in occasione della presentazione degli auguri di Natale alla curia romana, contro un'interpretazione largamente diffusa del Vaticano II, secondo la quale la Chiesa postconciliare sarebbe una Chiesa diversa dalla Chiesa "preconciliare". Benedetto XVI qualifica questa interpretazione erronea del Concilio "ermeneutica della discontinuità e della rottura". Questa espressione è stata ripresa con zelo dai cattolici fedeli sostenitori del papa. L'idea che il papa abbia opposto nel suo discorso l'ermeneutica della discontinuità e l'ermeneutica della continuità si è largamente diffusa. [...] Si deve tuttavia contraddire questa affermazione. Nel discorso citato, papa Benedetto XVI non ha affatto opposto l'ermeneutica erronea della discontinuità a una "ermeneutica della continuità". Ha spiegato piuttosto che all'"ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma". E qual è "la natura della vera riforma"? Essa consiste, spiega il papa, "in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi". La relazione con lo stato Il Concilio Vaticano II deve essere compreso quindi alla luce della categoria ermeneutica di "riforma", e non semplicemente di "continuità". In effetti, la "riforma" contiene sia elementi di continuità che certi elementi di discontinuità. Tuttavia, come sottolinea Benedetto XVI, continuità e discontinuità si trovano a dei livelli differenti. Identificare e distinguere tra questi differenti livelli costituisce la vera posta. [...] Anticipando in forma profetica le discussioni attuali, Benedetto XVI esemplifica "l'ermeneutica della riforma" con la dottrina conciliare sulla libertà religiosa. Benedetto XVI esprime qui esattamente la differenza di livelli che gli insegnamenti preconciliari non avevano avuto la capacità di individuare a motivo di precisi condizionamenti teologici e storici. Così, Gregorio XVI e Pio IX, per non citare che questi due papi, avevano identificato il fondamentale diritto alla libertà di religione, di coscienza e di culto del cittadino moderno con una negazione della vera religione. E questo poiché essi non potevano immaginare che una verità religiosa e una vera Chiesa potessero esistere senza che quest'ultima non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla politica, e rispettata dal diritto civile. In effetti, un gran numero dei loro avversari liberali rivendicavano la libertà di religione presentando l'argomento esattamente contrario: una tale libertà è necessaria perché non c'è affatto una verità religiosa. La Chiesa del XIX secolo considerava come un disconoscimento della religione cristiana, e come "indifferentismo" e "agnosticismo", la visione "liberale" secondo cui lo stato non avrebbe né la competenza né l'obbligo, da una parte, di farsi garante del valore sociale della vera religione e di rinunciare a riconoscere ad altre religioni il diritto di esistere, e, dall'altra parte, di limitare con pubbliche censure la libertà di espressione e di stampa al fine di proteggere la vera religione. Nel magistero preconciliare, l'insegnamento della verità unica della religione cristiana andava di pari passo con l'insegnamento della funzione e del dovere dello stato, che aveva l'obbligo di far praticare la vera religione e di proteggere la società dalla diffusione dell'errore religioso. Ciò implicava l'ideale di uno "stato cattolico" nel quale, nel migliore dei casi, la religione cattolica è l'unica religione di stato, il cui ordine giuridico è sempre al servizio della protezione della vera religione. È precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo che si trova il punto di discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso tempo una continuità più profonda ed essenziale, come spiega Benedetto XVI nel suo discorso: "Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa". Questo principio essenziale dello stato moderno e nello stesso tempo la riscoperta di questo patrimonio profondo della Chiesa costituiscono, secondo Benedetto XVI, il chiaro rigetto di una religione di stato: "I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede". La "libertà di coscienza" è sempre stata compresa dal mondo moderno come libertà di culto, cioè come diritto dell'individuo e delle diverse comunità religiose ad esprimere liberamente la loro fede, in forma pubblica e comunitaria, nel quadro dell'ordine e della morale pubblica, senza che lo stato abbia il diritto di intervenire per impedirlo. Ora, questo corrisponde esattamente alle rivendicazioni dei primi cristiani nell'epoca delle persecuzioni. Essi non rivendicavano la promozione da parte dello stato della verità religiosa, ma piuttosto la libertà di poter confessare la loro fede senza essere vessati dallo stato. Si deve al Concilio Vaticano II d'aver insegnato questo diritto fondamentale della persona umana a confessare la sua fede senza ostacoli. È proprio a questo che ha dovuto cedere il passo l'antica rivendicazione della protezione politico-giuridica dei cosiddetti "diritti alla verità" e della repressione ad opera dello stato dell'errore religioso. Checché se ne dica, non si può negare che è precisamente questa dottrina del Vaticano II che è stata condannata da Pio IX nell'enciclica "Quanta cura". Benedetto XVI conclude la sua esemplificazione dell'"ermeneutica della riforma" tramite la dottrina sulla libertà religiosa con questa constatazione pregnante: "Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche". Queste correzioni non significano una discontinuità al livello della dottrina della fede cattolica e della dottrina morale, che è oggetto del magistero autentico della Chiesa, il quale – anche in quanto magistero ordinario – reclama l'infallibilità. In questo senso, Benedetto XVI parla di una semplice "discontinuità apparente", poiché nel liberarsi dell'antico fardello d'una dottrina dello stato superata, la Chiesa "ha mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi". In breve, la dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa non implica alcun riorientamento del dogma, ma piuttosto un riorientamento della dottrina sociale della Chiesa e, più precisamente, una correzione del suo insegnamento sulla funzione e i doveri dello stato. Gli stessi principi immutabili sono dunque ripresi in maniera nuova nel nuovo contesto storico. Sullo stato non c'è nessuna dottrina di fede cattolica e dogmatica; e non può essercene, eccezion fatta per gli elementi già presenti nella Tradizione apostolica e nella Sacra Scrittura. Da questi scritti è totalmente assente l'idea di uno "stato cattolico" che sarebbe il braccio secolare della Chiesa. Essi testimoniano piuttosto una separazione tra la sfera religiosa e quella politico-statuale. La parziale rimozione del vero dualismo cristiano tra potere temporale e spirituale, così come il loro amalgama, apparvero più tardi, come conseguenza di situazioni storiche contingenti, tra le quali, in primo luogo, l'imposizione del cristianesimo come religione di stato nell'impero romano e la lotta contro l'arianesimo (che di nuovo rivendicava una divinizzazione dello stato), in secondo luogo l'integrazione, nel corso del basso Medioevo, della Chiesa nelle strutture del governo imperiale e, in terzo luogo, in reazione a quest'ultima, la dottrina politico-canonica dell'alto Medioevo della "plenitudo potestatis", della pienezza di potere del papa, una dottrina dalla quale si è tratta l'idea moderna di uno stato sovrano confessionale cattolico, al quale Pio IX era ancora molto legato e al quale si è puntualmente opposto un suo corrispettivo protestante. La dottrina del Vaticano II rappresenta qui una chiara svolta rispetto al passato. Una volta definitivamente liberata dal fardello storico, la dottrina del Concilio sulla libertà religiosa consiste essenzialmente in una dottrina sui doveri e i limiti dello stato, così come sul diritto civile fondamentale – un diritto della persona e non della verità – grazie al quale sono limitate la sovranità e le competenze dello stato in materia di religione. Essa è, inoltre, una dottrina sulla libertà della Chiesa a esercitare liberamente – al pari di ogni altra religione – la sua missione di salvezza anche nello stato secolare, una dottrina stabilita sulla base dei fondamentali diritti dei corpi sociali alla libertà religiosa. Infine, la dottrina conciliare afferma il dovere che ha lo stato di garantire, in maniera neutrale e imparziale e sempre nel rispetto dell'ordine e della morale, le condizioni necessarie affinché ciascun cittadino possa praticare la propria religione. Tentativi di riconciliazione: un fallimento? È precisamente questa nuova dottrina politico-giuridica che sostiene che lo stato non è più il braccio secolare della Chiesa guardiana della verità religiosa, ciò che i tradizionalisti oggi rifiutano. [...] In realtà, sebbene abbia sempre rifiutato l'idea della conversione forzata, la Chiesa non ha in generale respinto l'idea della costrizione in materia religiosa. L'enciclica "Quanta cura" di Pio IX del 1864 non prendeva di mira gli atei liberali, ma l'influente gruppo dei cattolici liberali riuniti attorno al politico francese Charles de Montalembert. Si trattava in particolare di cattolici osservanti che difendevano l'esistenza dello stato pontificio (Montalembert è all'origine del principio "libera Chiesa in un libero stato" che più tardi sarà ripreso, sia pure in forma differente, da Cavour) e che, al congresso di Malines dell'agosto 1863, avevano rivendicato il riconoscimento dal parte della Chiesa della libertà di associazione, di stampa e di culto. Ma queste rivendicazioni entravano in collisione con la posizione "tradizionale" della Chiesa, ricevuta in eredità dall'alto Medioevo, secondo la quale la Chiesa possiede il diritto di usare la costrizione – con l'aiuto di misure giuridiche penali – per preservare i cristiani dall'apostasia. "Abbracciare la fede è un atto di libertà", scrive Tommaso d'Aquino, "ma conservarla quando la si è abbracciata è una necessità" (Summa theologiae II-II, 10, 8, ad 3). I teologi che hanno preparato la "Quanta cura" si rifanno a questo principio. Lo si è interpretato in tal modo che si è considerato un obbligo dello stato, concepito come braccio secolare della Chiesa, preservare i fedeli, tramite la censura e il diritto penale, dalle influenze dannose alla fede e dall'apostasia. È per questa ragione che Pio VI aveva condannato la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" della Rivoluzione francese, nel suo breve "Quod aliquantum" del 1791. Essa rappresenta l'apostasia pubblica di un'intera nazione. Per i cattolici, rivendicare la libertà religiosa può valere in uno stato di infedeli o di ebrei. Ma poiché la Francia è una nazione cristiana e i cittadini francesi sono dei cristiani battezzati, non può esservi una libertà civile generale di confessare una religione diversa dalla vera religione cattolica. Pio VI lo precisa: i non battezzati "non possono essere costretti a obbedire alla fede cattolica; gli altri invece 'sunt cogendi', devono esserlo". Nel suo discorso del 2005, Benedetto XVI prende le difese della prima fase, quella "liberale" della Rivoluzione francese, che egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e radical-democratica, che portò al Terrore della ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la "Dichiarazione dei diritto dell'uomo e del cittadino" del 1789, sorta dallo spirito del parlamentarismo rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano. La prospettiva del Concilio Il Vaticano II ha avuto il merito di superare la tipica equiparazione effettuata dalla dottrina preconciliare tra la libertà religiosa, l'"indifferentismo" e l'"agnosticismo". Si tratta, per quanto riguarda il magistero della Chiesa, di una tappa storica che non può essere compresa che alla luce dell'"ermeneutica della riforma" preconizzata da Benedetto XVI. Vale la pena di prendere seriamente in considerazione questa esigenza e non stemperarla in falsi schemi di continuità, che finirebbero per alterare la continuità vera e di conseguenza l'essenza stessa della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica. Che ne è allora della "dottrina cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo", che secondo le dichiarazioni del Concilio sulla libertà religiosa dovrebbe essere "intangibile"? Effettivamente, questa affermazione è spesso citata per suggerire la "continuità senza rottura" nella tradizione della Chiesa, concernente, tra l'altro, la libertà religiosa. Su questo punto il Concilio sembra in effetti essere rimasto ambivalente. Ma questa affermazione non è così ambivalente come sembra, poiché questi doveri morali – come dice il testo sopra citato – hanno come presupposto "l'immunità da qualsiasi costrizione nella società civile". L'antica dottrina sui doveri dello stato come braccio secolare della Chiesa non sembra più reggere, di fronte ai discorsi sui doveri "dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo". Quali siano questi doveri, è intanto un'altra interpretazione ugualmente corretta di questa frase contestata a suggerirlo. Si tratta del Catechismo della Chiesa cattolica – un documento del magistero della Chiesa – che al n. 2105 afferma, citando il passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell'individuo che della società "rendere a Dio un culto autentico". Che la Chiesa realizza "evangelizzando senza posa gli uomini", affinché essi possano penetrare di spirito cristiano "la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui vivono". A ogni cristiano si chiede di far conoscere "l'unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica". Questo è il modo – conclude l'articolo del Catechismo della Chiesa cattolica – col quale la Chiesa manifesta "la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane". La prospettiva del Vaticano II è dunque l'annuncio del Vangelo da parte della Chiesa e dell'apostolato dei fedeli, mirante a penetrare di spirito cristiano le strutture della società. Non una parola, invece, sullo stato che in quanto braccio secolare della Chiesa sarebbe titolato a proteggere il "diritto alla verità" anche con la forza, e tramite questa stabilire la regalità di Cristo sulla comunità degli uomini. La discontinuità è evidente. E più evidente ancora è la continuità, là dove essa è veramente essenziale e dunque necessaria. * APPENDICE. CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ: CHE NE È DELL'INFALLIBILITÀ DEL MAGISTERO? Le reazioni di alcuni teologi alle riflessioni sopra esposte hanno rilevato che la mia interpretazione metterebbe in dubbio l'infallibilità del magistero della Chiesa, e dunque che essa non è accettabile poiché le mie osservazioni suggerirebbero una reale rottura nella continuità del magistero ordinario universale. [...] Al fine di mostrare perché io considero tale critica come erronea e i suoi relativi timori come infondati, procederò [...] in cinque tappe. 1. La questione dell'infallibilità L'infallibilità del magistero – afferma il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica al n. 185 – "si attua quando il romano pontefice, in virtù della sua autorità di supremo pastore della Chiesa, o il collegio dei vescovi, soprattutto riunito in un concilio ecumenico, proclamano con atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale". Allo stesso modo, l'infallibilità del magistero universale del collegio dei vescovi si attua "quando il papa e i vescovi, nel loro ordinario magistero, concordano nel proporre una dottrina come definitiva". Questa infallibilità non riguarda solo il dogma in senso stretto, ma la totalità della dottrina della fede e della morale, ivi compresa l'interpretazione della legge morale naturale e ogni altra proclamazione che abbia un rapporto storico o logico intrinseco con la fede, senza la quale il dogma non potrebbe essere correttamente compreso o conservato. Il primo caso – definizione "ex cathedra" o concilio ecumenico – manifestamente non si verifica con la questione della libertà di religione. In effetti, il primo e finora unico concilio che si sia espresso su questo soggetto è stato il Concilio Vaticano II. Spetta giustamente a questo concilio di aver riconosciuto la libertà di religione. Allo stesso modo, nemmeno il magistero ordinario universale sembra essere qui in atto, poiché mai in precedenza il papa e i vescovi avevano condannato la libertà religiosa e proclamato questa condanna come una dottrina definitiva della Chiesa. Questo è stato piuttosto il caso di qualche papa isolato, in un lasso di tempo di un centinaio d'anni, e mai di una rivendicazione esplicita di voler presentare una dottrina definitiva in materia di fede o di costumi (anche se è così che questo è stato implicitamente compreso dai papi del XIX secolo). Di primo acchito, dunque, sembra per lo meno molto improbabile che la discontinuità rilevata sopra nella dottrina della Chiesa sulla libertà di religione possa mettere in qualche modo in questione l'infallibilità del magistero, ivi compreso il magistero ordinario universale. Questa prima constatazione dovrebbe essere confermata da ciò che segue. 2. La sostanza dottrinale della condanna della libertà religiosa da parte di Pio IX Se la si considera sotto il profilo della sua condanna sia dell'indifferentismo sia del relativismo religioso, dell'opinione secondo cui non c'è una verità religiosa esclusiva così come dell'opinione che tutte le religioni sono per principio uguali e che la Chiesa di Cristo non è l'unica via di salvezza, è innegabile che la condanna della libertà religiosa emessa da Pio IX toccava effettivamente un aspetto centrale del dogma cattolico. Tale è parsa in ogni caso la vera posta, in quell'epoca. Se dico "tale è parsa" è perché – come il Vaticano II ha mostrato – la dottrina della verità esclusiva della religione cristiana e dell'unicità della Chiesa di Gesù Cristo come via di salvezza eterna non è in realtà minimamente intaccata dall'accettazione della libertà di religione e di culto. Come insegna il Vaticano II, il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in alcun modo che tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle persone e non concerne la questione di sapere in quale misura ciò che le persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che i fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà di culto non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le religioni debbano essere "ugualmente vere". Che fosse questo ciò che significava la libertà di religione o la libertà di culto, era appunto, come si è mostrato sopra, la convinzione dei papi del XIX secolo e della teologia dominante in quell'epoca. Per essi ciò voleva anche dire che abbandonare il principio secondo il quale lo stato di un paese cattolico ha per compito e per dovere di proteggere e favorire la verità cattolica, di negare il diritto di esistere a ogni confessione religiosa deviante o, al massimo, di tollerarla entro certi limiti e nella misura del ragionevole, finiva con l'ammettere "ipso facto" che non c'è una sola vera religione e Chiesa, ma che tutte le religioni si equivalgono. Ora, va da sé che all'epoca la Chiesa non poteva accettare una tale visione delle cose, e d'altra parte non lo può neppure oggi. Tuttavia, oggi la Chiesa ha modificato la sua concezione della funzione dello stato e dei suoi doveri verso la vera religione, una concezione che in realtà non è affatto di natura puramente teologica né ha a che fare con la natura della Chiesa e la sua fede, ma concerne la natura dello stato e la sua relazione con la Chiesa. Si tratta dunque, al più, di una questione concernente un aspetto della dottrina sociale della Chiesa. Così, quando Benedetto XVI afferma che il Concilio Vaticano II "con il decreto sulla libertà religiosa ha riconosciuto e fatto suo un principio essenziale dello stato moderno", manifesta chiaramente una concezione della natura e dei doveri dello stato molto diversa e opposta alla concezione dello stato di Pio IX, come pure alla visione tradizionale della sottomissione del potere temporale al potere spirituale. Una tale discontinuità non significa rottura con la Tradizione dottrinale dogmatica della Chiesa, né una deviazione dal "depositum fidei" e da "quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est", da ciò che è creduto dovunque, sempre e da tutti, secondo il canone di Vincenzo di Lérins. Di conseguenza, non può esserci contraddizione, qui, neppure con l'infallibilità del magistero ordinario universale della Chiesa, dal momento che una tale contraddizione non è di per sé possibile. È vero che la dottrina sul potere temporale elaborata a partire dalla Tradizione apostolica, e specialmente dalla Sacra Scrittura – che comprende le lettere di san Paolo – contiene degli elementi essenzialmente di diritto naturale che per questo sono anche oggetto del magistero infallibile della Chiesa. Si tratta in particolare della dottrina che insegna che ogni potere viene da Dio, che i governanti e le autorità civili fanno parte dell'ordine della creazione, e che in coscienza, e dunque per ragioni morali, ciascuno deve obbedienza all'autorità civile e deve riconoscere ad essa anche il diritto di adottare delle misure penali. Sarebbe tuttavia eccessivo affermare che questi principi contenessero anche delle indicazioni sulla relazione tra la Chiesa e lo stato, sui doveri dello stato verso la vera religione o sul diritto della Chiesa di far valere le sue pretese sul braccio secolare dello stato, come strumento sia di condanne puntuali che di loro conseguenze civili. Non fu che nel corso del tempo e sotto l'influsso di diverse situazioni e bisogni storici che tali posizioni o dottrine si sono costituite, principalmente in relazione alla battaglia della Chiesa per la "libertas ecclesiae", la libertà della Chiesa rispetto al controllo e alla tutela civile e politica. Questo fu un processo estremamente complesso, delle cui diverse tappe ho trattato in altre pubblicazioni. A questo proposito bisogna anche sottolineare che la discontinuità rilevata da Benedetto XVI a livello dell'applicazione dei principi non implica alcuna rottura nella continuità dell'intelligenza del mistero della Chiesa. Al contrario, Benedetto XVI constata che "la Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi". Si coglie qui, mi sembra, la vera preoccupazione di Benedetto XVI per una "ermeneutica della discontinuità e della rottura" che vede nella Chiesa del Vaticano II un'altra Chiesa, una nuova Chiesa. Secondo il papa, i sostenitori di una "ermeneutica della discontinuità e della rottura" avrebbero considerato il Concilio "come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova". In realtà, spiega Benedetto XVI, i padri conciliari non avevano ricevuto un tale mandato. Parlando di continuità e di discontinuità a differenti livelli – da una parte quello del dogma, dell'intelligenza del mistero della Chiesa, della comprensione sempre più vera e profonda del "depositum fidei" da parte della Chiesa e, dall'altra parte, il livello dei modi sempre concreti e contingenti della sua applicazione – "l'ermeneutica della riforma" difesa da Benedetto XVI non constata alcuna rottura nella comprensione della Chiesa. La Chiesa vi è compresa piuttosto come "un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del popolo di Dio in cammino". 3. Diritto naturale o diritto civile? Il cuore della dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa Come argomenta un'altra obiezione, [...] il Vaticano II proclama nella sua dichiarazione "Dignitatis humanae", al n. 2, che "il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione". Ora, ciò significa che per il Concilio Vaticano II anche la libertà religiosa è un diritto naturale. Facendo ciò, il magistero infallibile della Chiesa si estende fino all'interpretazione della legge morale naturale e del diritto naturale. Di conseguenza, conclude l'obiezione, non può esserci qui né discontinuità né contraddizione, e sarebbe dunque falso affermare che il Vaticano II ha esplicitamente insegnato ciò che Pio IX ha condannato, cioè il diritto alla libertà di religione e di culto. In effetti, il Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2106, lo dice chiaramente: "Tale diritto [alla libertà religiosa] si fonda sulla natura stessa della persona umana". È dunque certamente giusto dire che il Concilio Vaticano II considera la libertà religiosa come facente parte del diritto naturale. Ma è ugualmente vero dire che "Dignitatis humanae" al n. 2 rivendica che "questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società". La prospettiva del Vaticano II non è dunque semplicemente e unicamente quella del diritto naturale, ma è sempre anche quella della libertà religiosa "come diritto civile", cioè, in fin dei conti, come diritto alla libertà di culto. Di fatto, tale era anche la prospettiva di Pio IX, poiché la libertà di religione che egli condannava non era altro che il diritto civile alla libertà di culto rivendicata, tra gli altri, dall'ala cattolico-liberale. È dunque corretto dire che la rivendicazione da parte del Vaticano II della libertà religiosa come esigenza propria del diritto naturale, vale a dire il diritto civile alla libertà di culto, non è altro che ciò che era stato condannato nell'enciclica "Quanta cura" di Pio IX e nel suo allegato, il "Syllabus" degli errori. Il diritto naturale in quanto tale non è dunque toccato affatto dalla discontinuità che è qui in questione. La contraddizione non scatta che al livello della rivendicazione del diritto civile, e non è quindi che di ordine politico. La dottrina del Vaticano II e la "Quanta cura" con il suo "Syllabus errorum" non si contraddicono dunque al livello del diritto naturale, ma al livello della sua applicazione giuridico-politica nelle situazioni e di fronte a dei problemi concreti. D'altra parte, la novità introdotta dal Vaticano II non poggia soltanto sul suo insegnamento della libertà religiosa come diritto naturale, ma anche sulla necessità che essa sia riconosciuta come un diritto civile, come libertà di culto. In altri termini, dalla concezione ben attestata della libertà religiosa come diritto naturale, il Vaticano II ha saputo trarre una nuova conseguenza concernente l'ordine giuridico positivo dello stato. Ebbene, Pio IX non aveva tratto questa stessa conseguenza; egli la considerava al contrario come nociva e falsa poiché – a suo avviso – implicava necessariamente l'indifferentismo religioso e il relativismo, tanto dal punto di vista dottrinale quanto nelle sue conseguenze pratiche. Viceversa, se il Concilio Vaticano II ha potuto farlo, è perché partiva da una concezione differente dello stato e della sua relazione con la Chiesa, il che gli ha permesso di spostare l'accento dal "diritto alla verità" al diritto della persona, del cittadino considerato in quanto individuo e della sua coscienza religiosa. Così, ancora una volta, non è qui in gioco l'infallibilità del magistero ordinario nella sua interpretazione del diritto naturale, perché dire "applicazione" non è lo stesso che dire "interpretazione". In effetti, quest'ultima punta essenzialmente su ciò che concerne la legge morale naturale e la norma morale corrispondente, ma non si pronuncia sulla maniera in cui la legge naturale o il diritto naturale devono essere applicati, né si preoccupa delle conseguenze che bisogna trarne a partire da una situazione storica data. Che il magistero si esprima talvolta su una tale applicazione è inevitabile e può essere anche utile. Ciò detto, non si può tuttavia affermare che si tratterebbe in questi casi di "interpretazioni" magisteriali del diritto naturale o della legge morale naturale suscettibile di essere oggetto di infallibilità. Si tratta di realizzazioni e applicazioni concrete che, nell'epoca in cui sono fatte, possono essere impegnative per i fedeli cattolici, ed esigere la loro obbedienza. Ma non si tratta in alcun modo di insegnamenti che non potrebbero essere ricusati da decisioni magisteriali posteriori. 4. Discontinuità nella dottrina o unicamente in rapporto all'orientamento pratico-politico, disciplinare? Per sfuggire al supposto pericolo d'una contraddizione dottrinale, si potrebbe tuttavia rifugiarsi dietro l'argomento che le condanne di Pio IX non sono state delle condanne dottrinali, ma unicamente disciplinari. Nel qual caso non ci sarebbe dunque una discontinuità dottrinale. Ora, in primo luogo, nel discorso del papa del 2005 non si tratta di una opposizione tra, da una parte, delle affermazioni dottrinali e, dall'altra parte, delle decisioni di carattere pratico e disciplinare. In realtà, Benedetto XVI distingue ben di più tra i "principi" e "la maniera di metterli in pratica". In secondo luogo, considero questa obiezione come errata anche dal punto di vista storico, poiché nel XIX secolo tale questione era chiaramente di natura dottrinale. In effetti, Pio IX comprendeva la sua condanna della libertà religiosa come una necessità di ordine dogmatico e non solamente come una misura disciplinare (come sarà il caso più tardi del "Non expedit", un documento col quale il papa proibiva ai cattolici italiani di impegnarsi politicamente nell'Italia laica). Come abbiamo già detto, la rivendicazione della libertà religiosa o l'affermazione che la Chiesa non ha il diritto di imporre ai fedeli, con l'aiuto del "braccio secolare", delle pene o delle misure coercitive temporali era percepita all'epoca come un'eresia, o almeno come una maniera di arrivarci. Mi sembra dunque tanto storicamente quanto oggettivamente errato interpretare la condanna della libertà religiosa da parte delle autorità dell'epoca come una semplice misura di ordine pratico-disciplinare. In effetti, per Pio IX era in pericolo la salvaguardia stessa dell'essenza della Chiesa, della sua rivendicazione di essere l'unica verità e causa di salvezza. Così, riconoscere la libertà di religione significava per lui negare queste verità; significava ugualmente indifferentismo e relativismo religioso. È proprio in questo che risiede anche la grandezza di questo papa che, a partire dalle posizioni teologiche del suo tempo – delle quali tuttavia non ha saputo discernere il carattere storico – ha agito certamente in uno spirito di fedeltà eroica alla fede e ha resistito come una roccia nella tempesta di un relativismo scatenato. I tempi non erano evidentemente ancora maturi perché la Chiesa si ponesse in questa battaglia difensiva in modo nuovo e differenziato. È nel rigetto dell'indifferentismo e del relativismo religioso che si trova il cuore sempre valido tuttora di questa condanna del XIX secolo. Tuttavia, che questa battaglia contro l'indifferentismo e il relativismo religioso sia divenuta una battaglia contro il diritto civile alla libertà di religione e di culto, è stato dovuto alla concezione secondo la quale lo stato è il garante della verità religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello stato come del suo braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorale. Ora, una tale concezione dello stato non riposava minimamente sui principi della dottrina della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni e le pratiche del diritto ecclesiastico di origine medievale così come sulle loro giustificazioni teologiche. A ciò bisogna aggiungere che la discontinuità magisteriale in quanto tale non è qui in gioco. Per Benedetto XVI non si tratta in primo luogo della continuità del magistero, ma di quella della Chiesa e della comprensione della Chiesa. Egli si oppone all'idea di una rottura tra la Chiesa "preconciliare" e "postconciliare", quale è presentata dai sostenitori di una "ermeneutica della discontinuità e della rottura". Nelle dichiarazioni magisteriali – in particolare in quelle attinenti questioni politiche, economiche e sociali – si trovano molti elementi che dipendono da congiunture storiche. Il magistero della Chiesa nel campo dell'insegnamento sociale contiene anche, accanto a principi immutabili e fondati sulla dottrina della fede, una massa di concretizzazioni che sono spesso, retrospettivamente, piuttosto dubbie. Non si tratta qui di un tipo di "insegnamento" simile all'insegnamento cattolico in materia di fede e di costumi, dove la Chiesa interpreta la legge naturale anche in maniera obbligante, come nei casi delle questioni concernenti la contraccezione, l'aborto, l'eutanasia e altre norme morali nel campo bioetico. In questi ultimi casi, non si tratta di semplici applicazioni della legge naturale e situazioni concrete, ma della determinazione di ciò che appartiene precisamente alla legge naturale e della norma morale corrispondente. In questo campo, il magistero ordinario universale è anche infallibile. Le concezioni dominanti nel XIX secolo riguardo al ruolo e ai doveri del potere temporale verso la vera religione – concezioni fondate su dei modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma che hanno acquistato la loro forma definitiva soltanto all'interno dello stato confessionale moderno – possono rivendicare solo con estrema difficoltà per esse stesse il privilegio di riposare sulla Tradizione apostolica o di essere un elemento costitutivo del "depositum fidei". Allo stesso modo, queste concezioni quasi neppure appartengono alle verità che possiedono una relazione storica o logica necessaria con le verità della fede o del dogma, verità che all'occorrenza sarebbe necessario mantenere al fine di conservare e d'interpretare correttamente il "depositum fidei". Anzi, sembrerebbe che all'origine il cristianesimo abbia persino adottato una posizione alquanto opposta. È nato e si è sviluppato in un ambiente pagano; si è concepito, a partire dal Vangelo e dall'esempio di Gesù Cristo, come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica, e non ha richiesto dall'impero romano che la libertà di potersi sviluppare senza ostacoli. Riconoscendo e facendo suo attraverso il suo decreto sulla libertà religiosa un "principio essenziale dello stato moderno", afferma Benedetto XVI nel suo discorso, il Concilio Vaticano II "ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr. Mt 22, 21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi". Tuttavia, il richiamo al Vangelo e ai primi cristiani è un tema che non è menzionato unicamente da Benedetto XVI. Esso costituisce prima ancora il cuore dell'argomentazione di "Dignitatis humanae", che dedica due paragrafi, l'11 e il 12, a una riflessione sulle origini. Il Concilio spiega laconicamente: "La Chiesa pertanto, fedele alla verità evangelica, segue la via di Cristo e degli apostoli quando riconosce come rispondente alla dignità dell'uomo e alla rivelazione di Dio il principio della libertà religiosa e la favorisce". È proprio il richiamo al Vangelo, alla Tradizione apostolica e alla testimonianza dei primi cristiani i quali, come sottolinea Benedetto XVI, hanno "respinto chiaramente la religione di stato", ciò che caratterizza veramente la dottrina sulla libertà religiosa del Vaticano II. Così, la concezione dei compiti e dei doveri dello stato verso la vera religione, che faceva autorità per Pio IX, è stata tacitamente archiviata dall'atto di magistero solenne di un concilio ecumenico. 5. Fedeltà alla fede. Tradizione e modernità politica Il Concilio Vaticano II ha liberato la Chiesa da una zavorra storica secolare, le cui origini non risalgono alla Tradizione apostolica e al "depositum fidei", ma piuttosto a delle decisioni concrete dell'epoca post-costantiniana del cristianesimo. Queste decisioni si sono alla fine cristallizzate in tradizioni canoniche e nelle loro interpretazioni teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha cercato di difendere la sua libertà, la "libertas ecclesiae", dagli attacchi incessanti delle potenze temporali: si pensi in particolare alla dottrina medievale delle due spade che, all'epoca, cercava di giustificare teologicamente e biblicamente la comprensione della "plenitudo potestatis" del papa. Tuttavia, nel corso dei secoli, queste tradizioni canoniche e le loro formulazioni teologiche hanno cambiato la funzione e il tono. In seguito e nella tradizione degli stati sovrani confessionali moderni, esse sono diventate una giustificazione dello stato cattolico ideale, nel quale "il trono e l'altare" esistevano in stretta simbiosi e l'uomo di stato cattolico con zelo sosteneva la causa dei "diritti della Chiesa" invece che dei diritti civili alla libertà religiosa. Questa simbiosi e questa visione unilaterale che portavano al clericalismo e a una società clericale non hanno mancato di oscurare il volto autentico della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha osato qui un passo che ha fatto epoca. Tuttavia, ciò non ha cambiato la comprensione che la Chiesa ha di se stessa, né la dottrina della fede e della morale cattolica. Solo è stata ridefinita la maniera in cui la Chiesa concepisce la sua relazione al mondo e in particolare al potere temporale dello stato, una ridefinizione che in realtà si richiama alle origini, per così dire al carisma cristiano fondatore, e in particolare alle parole stesse di Gesù che invita a dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Né l'infallibilità del papa né quella del magistero ordinario universale del collegio episcopale sono stati colpite o sminuite da un tale passo. Al contrario, attraverso la dottrina del Vaticano II sulla libertà di religione si manifesta ancora più chiaramente l'identità della Chiesa di Gesù Cristo e quanto il magistero della Chiesa in materia di fede e di morale possiede una continuità, malgrado tutte le discontinuità storiche: cosa che costituisce d'altra parte il fondamento e l'argomento più convincente della possibilità della sua infallibilità. Per questo mi sembra che ogni interpretazione che cerchi di ripianare, per mezzo di espedienti argomentativi complicati, una qualsiasi discontinuità a questo quadro d'insieme, non è di alcun sostegno alla difesa dell'infallibilità del magistero della Chiesa. Pur essendo motivata da ragioni pastorali in sé comprensibili e valide, ma alla prova dei fatti errata, una tale interpretazione complica inutilmente le cose. Per l'evidenza della sue intenzioni concrete riguardanti la politica ecclesiastica, può persino avere un effetto controproducente e così portare danno alla credibilità del magistero. Invece, a quelli che, come i tradizionalisti riuniti attorno alla Fraternità Sacerdotale San Pio X dell'arcivescovo Lefebvre, non sanno più vedere nella Chiesa del Vaticano II "la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica" della Tradizione e parlano di rottura disastrosa con il passato, si può controbattere che effettivamente c'è qui una disputa insanabile sulla concezione della Chiesa, così come dello stato e dei suoi doveri. È per questo che questi tradizionalisti, per i quali manifestamente "la tradizione in quanto tale" e "le tradizioni ecclesiali" sono più importanti della Tradizione apostolica, la sola che sia in fondo normativa, difficilmente accetteranno i tentativi di mediazione sopra menzionati, poiché questi passano a lato del cuore del problema, che non è altro che la discontinuità realmente esistente. [...] Il Concilio Vaticano II ci pone effettivamente davanti a una scelta: la scelta tra, da una parte, una Chiesa che cerca di affermare e di imporre la sua verità e i suoi doveri pastorali per mezzo del potere civile e, dall'altra parte, una Chiesa che riconosce – ciò che sostiene "Dignitatis humanae" al n. 1 – che "la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore". Non si tratta qui di due Chiese distinte nel senso dogmatico o costitutivo, ma di due Chiese che comprendono in maniera diversa le loro relazioni con il mondo e con l'ordine temporale. Il Vaticano II non si pronuncia né per uno stato strettamente laico – nel senso della "laïcité" francese tradizionale – né per il la messa al bando della religione nella sfera privata, ma per una Chiesa che non pretende più di voler imporre la regalità di Cristo per mezzo del potere temporale e che per questo fatto stesso riconosce allo stato moderno secolare – non militante – la sua laicità politica. È precisamente questa la prospettiva del Vaticano II. Essa è stata confermata dalla nota dottrinale a proposito di alcune questioni sull'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica della congregazione per la dottrina della fede del 21 novembre 2002. [...] La missione della predicazione del Vangelo da parte della Chiesa e ad opera dell'apostolato dei fedeli laici che vi si fondano consiste nel penetrare dello spirito di Cristo le strutture della società, e per questa via favorire la manifestazione della regalità di Cristo. Il regno di Cristo non comincia con la confessione pubblica della vera religione, ma con l'annuncio della Chiesa nel cuore degli uomini, fino a farlo penetrare con l'azione apostolica dei comuni fedeli in tutta la società umana, così come in tutte le sue strutture e realtà di vita. __________ Il testo integrale dell'articolo di Rhonheimer, con l'appendice e le note, in lingua francese, sul numero di ottobre-dicembre 2010 di "Nova et Vetera": > L'"herméneutique de la reforme" et la liberté de religion L'articolo, l'appendice e le note in italiano, con in francese solo le poche parti non tradotte, comprendenti le critiche del filosofo Robert Spaemann e di alcuni esponenti tradizionalisti e non: > L'"ermeneutica della riforma" e la libertà di religione Il testo integrale in tedesco del solo articolo, anticipato da KathNet nel 2009: > Die "Hermeneutik der Reform" un die Religionfreiheit __________ Il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 sull'ermeneutica del Concilio: > "Signori cardinali..." E la dichiarazione del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa: > Dignitatis humanae __________ L'enciclica "Quanta cura" di Pio IX del 1864, con l'annesso "Syllabus" degli errori, in italiano: > "Con quanta cura..." *********************** Chiesa e libertà di coscienza, diritto o delirio?Posted on febbraio 8th, 2013 in No Comments »
«La libertà di coscienza deve intendersi secondo la legge cattolica», scriveva Pio XI nel 1929. Il Vaticano II ha corretto la rotta, ma la pretesa di morale unica resta.
nuva stesura, pubblicata su “Cronache laiche”, 31 gennaio 2013 ![]() ![]() Il Concilio Vaticano II, con la dichiarazione Dignitatis humanae (1965), ha definito la libertà, e in particolare la libertà di coscienza e di culto, un diritto che «va sempre rispettato, specie in campo morale e religioso», sottolineando che «l’uomo non deve essere costretto ad agire contro coscienza e non si deve neppure impedirgli, entro i limiti del bene comune, di operare in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso» (Catechismo della Chiesa cattolica. Compendio, 2005). Ma ieri? Secondo Benedetto XVI questa dichiarazione del Concilio Vaticano II è in armonia col «patrimonio più profondo della Chiesa», che «ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità». Si cerca così di ridurre l’opposizione plurisecolare della Chiesa alla libertà di coscienza a alcune «decisioni storiche» errate, ma prive di rilevanza anzi contrastanti con la dottrina. Le cose stanno però diversamente. La Chiesa, richiamandosi a quanto insegna la Bibbia, sostenne fin dal IV secolo, quando l’imperatore Teodosio dichiarò il cattolicesimo religione di Stato, il dovere di punire chiunque si allontani dalla vera religione. I pagani furono perseguitati. Gli eretici vennero messi a morte per tutti i secoli dell’Inquisizione. Nel 1311-12 il Concilio di Vienne vietò di elevare preghiere, in terre cristiane, al «perfido Maometto». Solo agli ebrei fu permesso di seguire la propria religione, ma nei loro ghetti. Nelle Americhe i conquistatori imposero il cattolicesimo con la forza. Molte condanne in punta di dottrina Anche quando i tribunali dell’inquisizione furono chiusi dai principi illuminati e da Napoleone la libertà di coscienza e di culto continuarono a essere condannate in punta di dottrina. Gregorio XVI, nell’enciclica Mirari vos (1832), definì «assurda ed erronea sentenza o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo». Pio IX ribadì tale posizione nell’enciclica Quanta cura (1864), condannando quanti «non temono di caldeggiare l’opinione… dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio» e in appendice all’enciclica, nel Syllabo, espose in forma di proposizioni condannate le «prave opinioni» dell’epoca. Fra esse questa: «È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera». Della stessa opinione era il “progressista” Leone XIII, che nell’enciclica Libertas (1888) condanna «la cosiddetta libertà di culto», secondo cui « è facoltà di ognuno professare la religione che gli piace, oppure di non professarne alcuna» poiché «la giustizia e la ragione vietano che lo Stato sia ateo o che – cadendo di nuovo nell’ateismo – conceda la stessa desiderata cittadinanza a tutte le cosiddette religioni, e gli stessi diritti ad ognuna indistintamente». «La peste della età nostra», scrisse Pio XI nella Quas primas (1925), «è il così detto laicismo» che ha negato alla Chiesa il diritto «di ammaestrare le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità» e ha uguagliato la religione cristiana «con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste». Egli negò anche che col Concordato «si sia inteso assicurare assoluta libertà di coscienza» perché «in Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione, devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica» (Lettera al segretario di stato, 30 maggio 1929). E adesso? Solo con il Concilio Vaticano II si ebbe finalmente la correzione di rotta che Benedetto XVI oggi vanta come il «patrimonio più profondo della Chiesa». Ma la Chiesa stessa non volle e non vuole accompagnare tale “svolta” col riconoscimento di aver insegnato il falso e di aver indotto in errore i fedeli per quindici secoli! Mancata ammissione inquietante perché, unita alla persistente vocazione teocratica e ai tentativi di imporre a tutti i cittadini, compresi i non credenti, delle leggi fondate sulla morale cattolica, fa dubitare sulla sincerità con cui si intende rispettare davvero ogni libera scelta. ************************** ****************POST SCRIPTUM 1 / LA REPLICA DI MARTIN RHONHEIMER Ho letto con un certo disagio la critica di Basile Valuet al mio recente articolo. Mi è parsa inutilmente polemica e contiene vari errori. Brevemente annoto alcune chiarificazioni: 1. Per cominciare, contrariamente a quanto Valuet sostiene, non soltanto conosco, ma possiedo e ho attentamente studiato la sua estesa tesi dottorale "La Liberté Religieuse et la tradition catholique". Infatti, è vero che materialmente i volumi sono sei, come lui dice (li ho davanti ai miei occhi), ma da un punto di vista bibliografico sono tre, giacché sono chiamati "Tome I", "Tome II" et "Tome III", ognuno dei quali è diviso in due fascicoli ("fascicules"). Tant'è vero che l’ultimo dei sei "volumi", contenente gli indici, si chiama "Tome III, second fascicule" (e sul dorso è scritto: III B). Ho indicato anche correttamente il luogo di pubblicazione: "Le Barroux". Per uno sbaglio, i traduttori dell’articolo in francese, dopo "Le Barroux", hanno aggiunto "Paris", che in realtà si riferisce al libro citato nella nota seguente. Nel manoscritto tedesco originale, infatti, ho verificato d'aver scritto soltanto "Le Barroux". Peccato che Valuet abbia aperto la sua risposta alle mie critiche con questa polemica assolutamente superflua. 2. Sfortunatamente quello che scrive Valuet semplicemente ripete alcuni argomenti della sua tesi dottorale, senza però realmente rispondere agli argomenti centrali del mio articolo (quello più importante nemmeno è menzionato). L’errore di fondo si trova già nella sua risposta a de Mattei: Valuet interpreta la dottrina tradizionale sulla tolleranza, ancora insegnata da Pio XII, come se implicasse un diritto "del seguace dell’errore a non essere impedito", giacché, come sostiene Valuet, in questo caso la repressione dell’esercizio di un culto erroneo sarebbe proprio un’ingiustizia. Anche se la formulazione di Pio XII va molto oltre, non è questo il suo significato, e non è così che era stata sempre compresa (anche dai seguaci odierni di Mons. Lefebvre). La dottrina tradizionale, appunto, non afferma che una tale repressione sarebbe un’ingiustizia perché violerebbe un diritto "del seguace dell’errore a non essere impedito". La dottrina tradizionale afferma che una tale repressione in certe circostanze sarebbe contraria alla prudenza. La tolleranza, cioè, non si basa mai su un diritto di ciò che è tollerato, ma emana dalla prudenza di colui – "l’uomo di stato" – che tollera un male (che in sé non ha nessun diritto di esistenza, neanche come diritto civile). In fondo, Valuet non comprende che cosa è un diritto; e non comprende che "avere un diritto alla libertà religiosa" e l'"essere tollerato" sono due cose diverse per principio, tanto giuridicamente quanto politicamente. Un "diritto alla tolleranza", di cui parla Valuet, non può esserci, perché è una "contradictio in adiecto". Per di più, parlare di diritto alla tolleranza religiosa significa rovesciare il significato tradizionale della dottrina di tolleranza come concessione meramente prudenziale e discrezionale per evitare mali maggiori; così, la dottrina "preconciliare" è ancora oggi fermamente difesa dai tradizionalisti. Tutto ciò ho tentato spiegarlo nel mio articolo, ma Basile Valuet sembra fare il sordo. 3. Basile Valuet mi rimprovera di non dire nulla "delle spiegazioni della commissione di redazione di 'Dignitatis humanae' (DH) sul mantenimento della dottrina cattolica tradizionale dei papi fino a Leone XIII, concernente il dovere morale del potere pubblico riguardo alla vera religione e all'unica Chiesa di Cristo". Anzitutto, il mio non era un articolo scientifico in senso stretto. Poi ho chiaramente parlato di questo passaggio di DH e ne ho addotta l’interpretazione autentica che ne fa il Catechismo della Chiesa Cattolica (2105) che, a differenza del testo della commissione di redazione della DH, è un testo del magistero. Finalmente, il testo di DH (e del Catechismo) non parla di un "dovere morale del potere pubblico riguardo alla vera religione e all'unica Chiesa di Cristo", come Valuet erroneamente scrive, ma di un "dovere morale dei singoli e delle società…", che è qualcosa di ben diverso e già implica una notevole sfumatura rispetto alla posizione tradizionale. 4. Quanto al carattere "definitivo" delle condanne della libertà di coscienza e dei culti: per avere carattere definitivo, non basta che i papi dell’Ottocento "hanno voluto presentare come definitive" le condanne della libertà religiosa. Non basta quello che pensavano o intendevano. Se non erro, ciò che ci vuole perché un atto del magistero abbia carattere definitivo e perciò possa far parte del magistero infallibile, è che l’intenzione di proporre un insegnamento definitivo sia esplicitamente espressa (come ha fatto ad esempio Giovanni Paolo II riguardo al sacerdozio riservato agli uomini). 5. La mia affermazione che "Pio IX comprendeva la sua condanna della libertà religiosa come una necessità di ordine dogmatico" non contraddice la mia affermazione che non era stata insegnata come definitiva. Nemmeno è in contrasto con la mia posizione il fatto che Pio IX si era rifatto alla "dottrina delle sacre Lettere, della chiesa e dei santi Padri". Affermarlo, come fa Basile Valuet, equivale a ignorare interamente il nucleo della mia argomentazione, secondo la quale per Pio IX la libertà di religione, specialmente il diritto alla libertà di culto, implicava indifferentismo e relativismo religioso, e quindi difendere la libertà religiosa equivaleva ad affermare che tutte le religioni avevano lo stesso valore di verità. Una volta collegata la libertà religiosa all’indifferentismo religioso, essa ovviamente diventa una posizione persino eretica. Ciò che cambiò con il Vaticano II non fu che da lì in poi l’indifferentismo religioso non fosse più percepito come contrario al dogma cattolico, ma che esso non fosse più visto come un'implicazione necessaria del diritto alla libertà religiosa (questo cambio suppone anche il cambio di concezione della relazione fra potere temporale e spirituale, e della natura e dei compiti dello stato). Questa mia argomentazione è confermata dalla lettera apostolica "Post tam diuturnas" di Pio VII del 1814 che condanna la libertà di culto proprio come eresia, con l’argomento che essa implica l’affermazione che tutte "le sette eretiche" sono ugualmente vere come la Chiesa cattolica e che "tutti gli eretici sono sulla buona strada". Qui appunto c’è la discontinuità: il Vaticano II non vede più nella libertà di religione tali implicazioni d’indifferentismo, perché opera con un concetto diverso di Stato e di potere temporale (cosa che, come ho citato, Benedetto XVI afferma esplicitamente). 6. Contrariamente a quello che dice Valuet, nel suo discorso del 2005 Benedetto XVI non afferma che con la condanna della libertà religiosa "Pio IX aveva di mira il ‘liberalismo radicale’ del XIX." Certo, papa Benedetto dice che nell’Ottocento c’era un grande scontro tra la Chiesa e "liberalismo radicale": un fatto storico innegabile. Ma questo non cambia l’altro fatto storico – di cui papa Benedetto non parla esplicitamente – che le condanne di "Quanta cura", pur essendo indirizzate certamente "a fortiori" anche contro il "liberalismo radicale", avevano di mira diretta e immediata i liberali cattolici che si erano radunati nel Congresso di Malines e che appunto non condividevano le posizioni "radicali" del liberalismo ottocentesco, ma posizioni praticamente identiche a quelle del Vaticano II. Ciò che inoltre appariva eretico ai teologi dell’epoca – specialmente al p. Luigi Bilio, consultore del Sant'Uffizio e redattore principale di "Quanta cura" – era l’idea dei liberali cattolici che la Chiesa non avesse il diritto di imporre mediante la costrizione del potere temporale l’ubbidienza alla religione cattolica (cfr. la nota 7 del mio articolo in "Nova et Vetera"): idea che implica una concezione del potere temporale diversa da quella che sottostà alla dottrina del Vaticano II. Che fosse questa la ragione per ritenere eretica la posizione dei liberali cattolici è perfettamente documentato nel libro di Bernard Lucien, "Grégoire XVI, Pie IX et Vatican II. Études sur la Liberté religieuse dans la doctrine catholique", Éditions Forts dans la Foi, Tours, 1990, citato nella stessa nota 7 del mio articolo (un libro che anche Valuet nella sua tesi dottorale cita e critica ampiamente) ed è ancora chiaramente espresso da mons. Lefebvre nel suo libro del 1987 "Ils l’ont découronné" (p. 76): "Ce qui est commun à tous les libéralismes, c’est la revendication du droit à ne pas être inquiété par le pouvoir civil dans l’exercice public de la religion de son choix ; leur dénominateur commun (comme le dit le cardinal Billot) c’est la libération de toute contrainte en matière religieuse. Et cela, les papes l’ont condamné". Quello che mons. Lefebvre non sembra aver compreso è che sostenendo questo si muove più su terreno politico anziché religioso e dogmatico: sul terreno, quindi, della concezione dello Stato e del suo rapporto con la Chiesa. Certamente, e a mio avviso fortunatamente, su questo punto tra la posizione "preconciliare" e quella del Vaticano II, come ha rilevato Benedetto XVI, c’è discontinuità. 7. Non è quindi vero che la libertà religiosa come diritto civile, affermata dal Vaticano II, che implica libertà dalla costrizione da parte dello Stato in materia religiosa, non sia stata condannata da Pio IX. Ma – e questo è il nucleo della mia argomentazione, totalmente ignorato da Valuet – essa era stata condannata, sulla base di una determinata visione tradizionale dei rapporti fra Chiesa e Stato e della natura stessa dello Stato e quindi dei suoi "obblighi verso la vera religione e l’unica Chiesa di Gesù Cristo", in quanto necessariamente implicante l’indifferentismo religioso e appunto per questo ritenuta contraria al dogma cattolico (ed è qui il suo nucleo perennemente valido, nel quale si mostra anche la continuità a livello dogmatico). Il tentativo, infine, di Basile Valuet, nella sua intenzione certamente lodevole, di costruire un principio di diritto naturale P3 capace di contenere in se tanto la verità delle condanne di Pio IX quanto quella dell’insegnamento del Vaticano II, mi pare assai complicato, poco convincente – in fondo contraddittorio – e soprattutto superfluo. Ma questo richiederebbe un altro articolo. Roma, 27 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 2 A / DI P. GIOVANNI CALVALCOLI, O.P. Reverendo Padre Valuet, ho letto il suo intervento su questo sito contro Gherardini, de Mattei e Rhonheimer. Complimenti per la dotta argomentazione. Vorrei solo osservare che, stando all’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede annessa alla Lettera di Giovanni Paolo II “Ad tuendam fidem” del 1998, non mi pare esatto dire che il Concilio Vaticano II nelle sue dottrine “non ha impegnato la sua infallibilità”. Vedo che anche Rhonheimer su questo punto la pensa come Lei. Infatti se Lei va a guardare questo documento, vedrà che quando la Chiesa tratta di materia di fede o prossima alla fede – e tale è il caso di alcune dottrine conciliari – tale dottrina è “definitiva” ed “infallibile”, anche se non solennemente definita ovvero anche se la Chiesa non dichiara espressamente di voler definire (queste sono appunto, sempre stando al linguaggio del documento, le dottrine “definite”, quelli che tradizionalmente chiamiamo “dogmi ex cathedra”). Certo il Concilio non ha dottrine di questo tipo, ma ne ha del primo tipo. Quanto alle dottrine alle quali è dovuto “l’assenso religioso”, per l’"Ad tuendam Fidem" sono quelle di terzo grado, il meno autorevole dei tre, che comprendono insegnamenti di carattere morale, pastorale o giuridico, che possono essere anche mutate o possono essere addirittura errate, e comunque non infallibili. Gli esempi nella storia della Chiesa sono molti. È vero che Gherardini e de Mattei sostengono che le dottrine conciliari, non essendo infallibili, possono essere contestate, e sono d’accordo con Lei che comunque bisogna obbedire anche agli insegnamenti di terzo grado. Ma secondo me Gherardini e de Mattei sbagliano ancor più gravemente di quanto Lei dice, perché si oppongono a dottrine di secondo grado e non di terzo. Bologna, 28 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 2 B / VALUET A CALVALCOLI Caro e Reverendo Padre Calvalcoli, sono assolutamente d’accordo che ci sono insegnamenti infallibili nel concilio Vaticano II, su punti del primo e del secondo grado. La mia osservazione non lo negava. Ma non ci sono definizioni del primo grado né atti definitivi del secondo grado. Questo deve essere infatti scartato a causa dei testi della Commissione teologica del Concilio durante il Concilio (perché non si trova nessun testo che indica espressamente l’intenzione di definire), e di diversi testi di Paolo VI alla chiusura e dopo il Concilio. Si tratta invece solo di punti formalmente rivelati (1° grado) o connessi (2° grado) che erano o già definiti con definizioni dogmatiche (1° grado) o con “atti definitivi” (2° grado) anteriori, o già insegnati come definitivi dal magistero ordinario universale (sia del 1° sia del 2° grado). Pertanto, se degli insegnamenti del Concilio Vaticano II sono infallibili, questo non è dovuto all’infallibilità del concilio stesso, ma all’infallibilità di atti o consensi universali anteriori. (È successa una cosa analoga con la "Ordinatio sacerdotalis" di Giovanni Paolo II; si vedano, a questo proposito le spiegazioni chiarissime dell’allora Segretario della congregazione per la dottrina della fede, Mons. Tarcisio Bertone, nel 1996). Comunque, non parlavo di questo. Se, nel mio intervento a proposito di Mons. Gherardini e del Prof. De Mattei mi sono limitato agli insegnamenti di 3° grado, è solo perché si trattava di rispondere all’equazione erronea loro presupposta come principio “de iure”: insegnamento magisteriale non definitivo, uguale a non obbligatorio. Il 1° membro dell’equazione viene costituito precisamente dagli insegnamenti di 3° grado. Ovviamente, si può ulteriormente costruire un argomento “a fortiori” a partire da là, “de facto”, perché ci sono cose infallibili nel Concilio. Però, non le cose “nuove”, che non venivano ancora definitivamente insegnate dal Magistero, visto che, per ipotesi, sono nuovamente insegnate dal Concilio. Ora, sono solo le dottrine nuove che fanno problemi per Mons. Gherardini e il Prof. De Mattei. Si tratta in particolare, e forse soprattuto, dell’esistenza del diritto alla libertà religiosa, sulla quale appunto la congregazione per la dottrina della fede scriveva nel 1978 all’arcivescovo Marcel Lefebvre, facendo appello non al 2° grado, ma al 3°: « L’affirmation de ce droit à la liberté religieuse est dans la ligne des documents pontificaux antérieurs (cf. D.H., 2, note 2) qui, face aux excès de l’étatisme et aux totalitarismes modernes ont affirmé les droits de la personne humaine. Par la Déclaration conciliaire, ce point de doctrine entre clairement dans l’enseignement du Magistère et, bien qu’il ne soit pas l’objet d’une définition, il réclame docilité et assentiment (cf. Const. Dogm. Lumen Gentium, 25). Il n’est donc pas licite aux fidèles catholiques de le rejeter comme erroné, mais ils doivent l’accepter selon le sens et la portée exacte que lui a donné[s] le Concile, compte tenu de la “doctrine catholique traditionnelle sur le devoir moral de l’homme et des sociétés envers la vraie religion et l’unique Église du Christ” (cf. D.H., 1). » (1) La ringrazio di riferirmi ai documenti della congregazione e di Giovanni Paolo II. Ma Le devo confessare che li cito abbondantemente nella mia tesi (1998) e nel suo riassunto (2005) ed anche nel mio contributo al libro collettivo: "L'Église, servante de la vérité: regards sur le Magistère", sous la dir. de Bruno Le Pivain, préf. du card. Georges Cottier, Genève, Ad solem, 2006, pp. 412 (purtroppo con 2 errori tipografici importanti nel mio intervento). Le allego due estratti della 3a edizione della mia tesi completa (del maggio 2011, estratti sostanzialmente identici al riassunto del 2005) : il primo sul magistero in genere (dal capitolo 2) ; il secondo sull’autorità del Concilio Vaticano II in particolare. E vedrà così meglio la mia opinione. Le porgo i miei distinti saluti ed ossequi. Fr. Basile Valuet Le Barroux, 29 maggio 2011 (1) SCDF, 1978.01.28 : Prot. N. 1144/69 ; orig. franç. : Itinéraires, n° 233 (mai 1979), 13-14. __________ POST SCRIPTUM 2 C / CALVALCOLI A VALUET Caro e Reverendo Dom Valuet, mi consenta di replicare subito ad un punto della sua risposta al mio intervento, punto che considero particolarmente importante e che mi pare al centro di questo interessantissimo dibattito, che impegna menti elette, e che si sta sviluppando di giorno in giorno a seguito della famosa formula del Papa (“continuità nella riforma”). Da qui vediamo quanto il Santo Padre è stimolatore di vivacità culturale e teologica. È mia convinzione che anche le dottrine nuove del Concilio, in quanto esplicitazione o sviluppo di precedenti dottrine dogmatiche o dogmi definiti, sono infallibili. Infatti mi pare che tutto il nodo del dibattito sia qui. Siamo infatti tutti d’accordo – Gherardini, de Mattei e noi – che le dottrine già definite presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio. Io credo che bisogni rispondere affermativamente a questo quesito perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il Papa? Inoltre, se queste novità non sono infallibili, vuol dire che sono fallibili. Ma allora è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso? Può il nuovo in campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico? Le ricordo ancora che l’"Ad tuendam fidem" dice che sono infallibili non solo le dottrine di primo grado, laddove la Chiesa dice di voler definire, ma anche quelle di secondo grado, anche se non definite, ma in quanto anch’esse di fede o prossime alla fede. Ora, gli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede come non saranno anch’essi infallibili, ossia, come dice l’"Ad tuendam fidem", “definitivi” e quindi assolutamente e perennemente veri ("de fide tenenda")? Tutto il valore e tutta la grandezza del Concilio non stanno forse qui? Se noi neghiamo questo non indeboliamo la forza della tesi continuista? Non finiamo, nel contempo, con lo snervare la carica innovativa del Concilio? Sostenere che si tratta solo del terzo grado non è forse troppo poco? Il terzo grado ammette anche la opinabilità e la fallibilità, se si tratta di dottrine pastorali, morali o giuridiche. Ma nel caso del Concilio si tratta di dottrine dogmatiche. Non sono dottrine “definite” (primo grado), però sono “definitive” (secondo grado). Nel primo e nel secondo caso non basta un semplice “religioso ossequio” (terzo grado), ma la fede ("tenenda"), quella che tradizionalmente si chiama anche “fede ecclesiastica” o “cattolica”, che è meno della fede divina o teologale ("credenda"), ma è ad essa necessariamente connessa. È quel credere nella Chiesa mediante il quale crediamo alla Parola di Dio. Vorrei aggiungere che mi sembra evidente che quando il Papa parla di continuità nella riforma non intende sostenere una pura e semplice continuità ripetitiva, cioè non intende dire – come piacerebbe a Gherardini e de Mattei – che come cattolici dobbiamo assumere come infallibili solo quelle dottrine già definite che ricompaiono nel Vaticano II, ma che nel Concilio esiste un progresso dottrinale, esiste del nuovo, in continuità con l’antico, il quale nuovo come tale è infallibile come l’antico. Dobbiamo pertanto far capire a Gherardini e de Mattei che anche il nuovo è infallibile. Il tradizionalismo esagerato non riesce ad aprirsi al nuovo, non capisce come esso è in continuità con l’antico, lo scambia per modernismo. Dimostrare la continuità delle dottrine conciliari con quelle precedenti non vuol dire dimostrare una pura e semplice continuità univoca: sarebbe un’impresa disperata, che darebbe ragioni valide a Gherardini e de Mattei. Dobbiamo dimostrare che si tratta di continuità evolutiva, per così dire analogica (“analogia fidei”), che non per questo diventa rottura, ma resta continuità. Lo so che sembra una contraddizione, ma invece così non è. Potrei dimostrarlo, ma qui sarebbe troppo lungo. Rimando solo al trattato classico del domenicano spagnolo Francisco Marín Sola, "La evolución homogenea del dogma católico", pubblicato negli anni ’50. Qui egli appunto mostra il concetto giusto del progresso dogmatico contro la falsa concezione del modernismo. Teorie simili si trovano nell’altro grande teologo domenicano francese, Yves Congar. Secondo i nostri avversari, infatti, che sembrano voler insegnare al Papa, il Papa avrebbe diritto di dire che la continuità consiste solo nelle ripetizioni dell’antico presenti nel Concilio, ma non può affermare la presenza della continuità nel nuovo, perché invece per costoro qui c’è rottura, per cui non siamo tenuti ad assumere queste dottrine, perché secondo loro sono in contrasto con la Tradizione. Questo vuol dire non comprendere la saggezza delle parole del Papa. Egli infatti presenta il concetto di una continuità progressiva o evolutiva (non in senso modernistico ma cattolico), della quale ho detto sopra. Questo vale anche per la Tradizione, che egli chiama “viva”. Infatti il Concilio parla di uno sviluppo della Tradizione. Ma allora bisogna dimostrare che anche questo progresso è infallibile. Questo è il vero continuismo rispondente alla "mens" del Santo Padre. Un’ultima osservazione: in questo dibattito tra continuisti e non-continuisti c’è una preoccupazione di fondo che tutti, come cattolici, ci accomuna: quella della continuità, in fondo la consapevolezza dell’immutabilità del dogma e del dato della Tradizione. Ci divide il fatto che alcuni, come noi due, dicono che c’è la continuità, mentre gli altri, amareggiati e scandalizzati per un supposto tradimento operato dal Concilio, non vedono questa continuità e non si fidano delle parole del Papa il quale invece assicura che esiste. Potremmo chiederci: come mai in questo dibattito non intervengono i discepoli di Alberigo o i rahneriani? La risposta è semplice: perché anche per loro, considerando l’assicurazione del Papa come un trucco per conquistarsi i tradizionalisti, i quali peraltro non abboccano, il progresso teologico è per sua natura rottura e contrasto col passato. Essi hanno una concezione hegeliana e modernista del progresso. Per loro è evidente che nel Concilio c’è rottura. Ma è proprio questo, secondo loro, il bello del Concilio. Per loro lo stare a chiedersi con preoccupazione se c’è o non c’è continuità, è già segno di una mentalità vecchia, preconciliare e superata (presente nel Papa stesso che parla di “continuità”). Per questo, per loro la nostra discussione è anacronistica e quindi tempo perso. Per loro l’essenziale per il nostro tempo è il Vaticano II (interpretato a modo loro); quello che è successo prima è materiale da museo. Io credo allora che dobbiamo essere uniti con i nostri avversari tradizionalisti anticontinuisti contro il neomodernismo che oggi continua a falsificare il vero senso del Concilio: cosa di cui i Papi del postconcilio si lamentano in continuazione. Per questo l’assimilazione che Mons. Marchetto ha fatto della posizione di de Mattei con quella di Alberigo dicendo che entrambi in ultima analisi sostengono la “rottura” è giusta, ma solo in modo del tutto superficiale. In realtà tra i due c’è un abisso, perché mentre de Mattei, da vero cattolico, ben cosciente dell’immutabilità del dogma, è amareggiato per la supposta rottura, e qui però dimostra poca fiducia nel Papa, i seguaci di Alberigo considerano la rottura un bene e un progresso (si considerano più avanzati del Papa), ma solo perché, da cattivi cattolici, sono influenzati dal concetto hegeliano-storicista-modernista del progresso dogmatico e disprezzano la continuità. P. Giovanni Cavalcoli, OP Bologna, 30 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 3 A / DI MASSIMO INTROVIGNE Penso che, al di là di qualche spunto polemico che è inevitabile quando ci si appassiona a un tema, sia un grande merito del blog di Sandro Magister quello di avere contribuito a chiarire di che cosa si sta parlando quando in tema di libertà religiosa si discute di continuità, discontinuità e rottura tra Magistero precedente al Concilio Ecumenico Vaticano II, da una parte, e dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" e magistero postconciliare dall’altra parte. A questo dibattito vorrei aggiungere solo un’osservazione di carattere storico-sociologico. Lo spirito del mio contributo è quello evocato da Rhonheimer: fra cattolici che vogliono essere fedeli al Magistero, cercare quello che unisce, e mostrare che è più profondo di quello che divide. Ci esorta a comportarci così anche Benedetto XVI che, celebrando il 16 maggio 2011 il cinquantenario dell’enciclica "Mater et magistra" del beato Giovanni XXIII, c’insegna che «ancora valide, inoltre, sono le indicazioni offerte da Papa Roncalli a proposito di un legittimo pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale. Scriveva, infatti, che in questo ambito "[…] possono sorgere anche tra cattolici, retti e sinceri, delle divergenze. Quando ciò si verifichi non vengano mai meno la vicendevole considerazione, il reciproco rispetto e la buona disposizione a individuare i punti di incontro […]”». Le nozioni da prendere in esame non sono, a mio avviso, soltanto due – continuità e discontinuità – ma tre: continuità, discontinuità e rottura. Se, come afferma Benedetto XVI, c’è stata «riforma nella continuità», dal punto di vista logico e semantico possiamo certamente affermare che ci sono stati sia elementi di continuità sia elementi di discontinuità. Se ci fosse solo continuità non ci sarebbe riforma. La riforma, per definizione, muta qualcosa, fa sì che non tutto continui esattamente come si presentava prima: dunque implica una certa discontinuità. La «riforma nella continuità» – per quanto il Papa in due occasioni abbia parlato, come ho ricordato, anche di «ermeneutica della continuità» tout court – non nega dunque che esistano elementi di discontinuità. Diversamente, non ci sarebbe nessuna riforma. Ma Benedetto XVI afferma che questi elementi di discontinuità non hanno portato a una rottura. Se si vuole parlare di «ermeneutica della continuità» – il Papa, ripeto, lo ha fatto nella nota 6 dell’esortazione apostolica "Sacramentum caritatis" del 2007 e nel discorso del 12 maggio 2010 ai partecipanti al convegno teologico della Congregazione del Clero, ma credo che il suo pensiero sia meglio rappresentato dall’espressione «ermeneutica della riforma nella continuità» –, allora si deve aggiungere, per evitare equivoci, che il contrario dell’«ermeneutica della continuità» non è una «ermeneutica della discontinuità» ma una «ermeneutica della rottura». C’è dunque in effetti un accordo di fondo in questo dibattito tra me e Rhonheimer e credo anche dom Basile Valuet – la cui monumentale opera, si tratti bibliograficamente di sei o di tre volumi, rimane comunque un punto di riferimento imprescindibile per chiunque s’interessi alla questione della libertà religiosa –: la riforma nella continuità, che in quanto è vera riforma comprende anche elementi di discontinuità, non implica nessuna rottura, perché al di là dei momenti di discontinuità rimane intatto quello che Rhonheimer chiama il «nucleo perennemente valido, nel quale si mostra anche la continuità a livello dogmatico», e cioè la condanna del relativismo e dell’indifferentismo. Come afferma Benedetto XVI nell’enciclica "Caritas in veritate" al n. 55 «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali». Qui io, Rhoneimer e dom Basile stiamo dalla stessa parte, mentre mons. Lefebvre, Gherardini e de Mattei (di cui mi sono note le critiche, ma su altri punti, a mons. Lefebvre) stanno dalla parte opposta. Per loro la dottrina della libertà religiosa della "Dignitatis humanae" e del Magistero postconciliare ha canonizzato o almeno attivamente favorito il relativismo e l’indifferentismo. La loro è dunque un’ermeneutica della rottura, identica nell’interpretazione anche se opposta nel giudizio rispetto a quella della scuola di Bologna e del progressismo. Tra Rhonheimer e il sottoscritto (e – credo – dom Basile), oltre a questa convergenza che è tutt’altro che poco importante e anzi attiene all’essenziale, c’è però anche una di quelle divergenze che possono sorgere, come ricorda il beato Giovanni XXIII citato da Benedetto XVI, anche «tra cattolici, retti e sinceri» che vogliono stare dalla parte del Magistero. Questa divergenza non riguarda, credo, la presenza di elementi di discontinuità in tema di libertà religiosa fra Magistero precedente e Vaticano II e postconcilio, accanto agli elementi, prevalenti, di continuità, i quali fanno sì appunto che non ci sia nessuna rottura. Una riforma – sia pure «nella continuità» – è sempre un darsi insieme nella storia di elementi di continuità (diversamente, non sarebbe una riforma ma una nuova fondazione) e di discontinuità (diversamente, non ci sarebbe nessuna riforma). No: la divergenza riguarda la radice e la natura degli elementi di discontinuità. Rhonheimer, se ho bene inteso il suo pensiero, vede la radice della discontinuità nel fatto che la Chiesa del Concilio e del postconcilio, riflettendo in modo più approfondito alla luce di un dibattito che nel frattempo era continuato, si sarebbe resa conto che il beato Pio IX sbagliava non già quando condannava l’indifferentismo – lì aveva ragione, e la Chiesa mantiene la condanna ancora oggi –, ma quando affermava che la nozione politica di libertà religiosa della scuola cattolico-liberale, pure diversa da quella del liberalismo radicale e laicista, implicava necessariamente l’indifferentismo e quindi andava anch’essa condannata. La tesi di dom Basile sostiene che non è così e che la Chiesa del Vaticano II non dichiara, né esplicitamente né implicitamente, che le condanne del beato Pio IX nei confronti dei cattolici liberali erano sbagliate. Questo dibattito ne contiene, a ben vedere, tre. Il primo riguarda il giudizio morale sugli esponenti della scuola cattolico-liberale. Non c’è dubbio che alcuni di loro fossero buoni cattolici, persone sinceramente preoccupate del bene della Chiesa e che avevano in orrore il liberalismo radicale d’impronta laicista. Benedetto XVI lo afferma, con riferimento ad alcuni cattolici liberali italiani, nel messaggio del 16 marzo 2011 al presidente Giorgio Napolitano per il 150° anniversario dell’unità politica dell’Italia. Su questo punto non è forse difficile trovare un accordo. Ma la rettitudine delle intenzioni non garantisce la precisione o l’ortodossia della dottrina. Il secondo dibattito riguarda il nesso – o l’assenza di un nesso – fra la posizione della scuola cattolico-liberale e la promozione dell’indifferentismo e del relativismo. Non possiamo certo risolvere questo problema in poche righe. E probabilmente dovremo esaminare gli autori di questa scuola uno per uno, con riferimento anche a situazioni nazionali molto diverse, per esempio fra Italia e Francia. È un dibattito che riguarda gli storici, e su cui non è scandaloso che si manifestino opinioni diverse. Il terzo punto, rimasto a mio avviso un po’ in ombra e di grande interesse sociologico, è se – dal beato Pio IX al Concilio e oltre, e attraverso passaggi complessi (per esempio, già nel Magistero di Leone XIII e del venerabile Pio XII ci sono elementi di «riforma nella continuità» rispetto ai Pontefici precedenti) – cambi il giudizio sulla tesi di fondo in tema di libertà religiosa della scuola cattolico-liberale ovvero invece cambino le circostanze storiche. Anche a questa domanda la risposta è evidentemente molto complessa. Tuttavia, io penso che alla fine a determinare gli elementi di discontinuità abbiano contribuito più le mutate circostanze storiche che un’eventuale mutazione dell’opinione della Chiesa sul modo di applicare i principi fondamentali. La Chiesa tiene conto del fatto che nella storia sono esistiti ed esistono diversi tipi di Stato, così che – partendo dagli stessi principi immutabili – le applicazioni dei medesimi principi ben potranno variare a seconda dello Stato cui ci si trova di fronte. La Francia di Carlo Magno o anche la Francia dell’epoca del beato Pio IX, in cui sembrava concretamente possibile che salisse al potere un principe cristiano che aveva dello Stato una nozione molto tradizionale come Enrico V conte di Chambord, non è la Francia di Sarkozy, e a diversi tipi di Stato, certo partendo sempre dai medesimi principi generali, la Chiesa suggerisce applicazioni pratiche diverse. La Chiesa «preferisce» la Francia di Sarkozy a quella di Carlo Magno, o a un’ipotetica Francia che fosse stata governata da Enrico V ispirandosi alle idee del beato Pio IX? Può darsi che questa sia un’opinione diffusa tra molti ecclesiastici. Ma a rigore, ha scritto Benedetto XVI nel messaggio datato 29 aprile 2011 alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, la Chiesa afferma che «ogni Stato ha il diritto sovrano di promulgare la propria legislazione, ed esprimerà differenti atteggiamenti verso la religione nel diritto». Certo, la Chiesa non può approvare «la diffidenza verso la religione» in genere che caratterizza il laicismo moderno. Ma, una volta che l’importanza della religione per la vita sociale sia riconosciuta e che i principi generali della libertà religiosa siano accolti, non pensa che esista un unico tipo di Stato da assumere come ideale – un unico vestito che andrebbe bene per tutti i tempi e tutti i luoghi –, e quindi un’unica applicazione normativa dei principi di libertà religiosa che pure, in quanto principi, non mutano. Nella lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede "Liberté religieuse. Réponse aux ‘dubia’ présentés par S.E. Mgr. Lefebvre", inviata a mons. Lefebvre il 9 marzo 1987, si legge che la "Dignitatis humanae" ha come punto di riferimento lo Stato laico moderno, che è cosa diversa dalle antiche monarchie rette da principi cristiani, e non dà giudizi storici: «non implica […] una disapprovazione della condotta seguita in passato da alcuni principi cristiani, la cui valutazione storica è complessa», anche se è certo possibile che tra questi sovrani taluni abbiano agito ingiustamente. Alla fine, la divergenza sta qui: tra gli elementi di discontinuità che insieme a quelli, prevalenti, di continuità vanno a costituire una «riforma nella continuità» io – come gli autori della lettera del 1987 – non penso che ci sia una «disapprovazione» generalizzata del modo in cui si comportarono sia i «principi cristiani» che introdussero o mantennero misure a protezione dell’unità religiosa di Stati tradizionali che oggi non esistono più, sia i Papi che elogiarono questi sovrani. Se il governante di uno Stato laico di oggi si comportasse nello stesso modo incorrerebbe, probabilmente, nell’esplicita «disapprovazione» della Chiesa. Ma perché sono cambiate le circostanze di fatto ed è mutato il tipo di Stato, non perché siano cambiati i principi dottrinali fondamentali. Torino, 28 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 3 B / VALUET SU INTROVIGNE Condivido assolutamente l'intervento di Massimo Introvigne del 28 maggio. Preciso semplicemente che il documento che cita il dott. Introvigne come fosse un documento della stessa Congregazione per la dottrina della fede, è un documento scritto da uno o più consultori esperti di detta congregazione, che veniva allegato alla lettera del 9 marzo 1987 della congregazione stessa. Quindi, a differenza della lettera stessa, il documento allegato (di 50 pagine, molto ben fatto, e che cito nella mia tesi sotto il nominativo “Consulteur SCDF”, ma che non fui autorizzato a citare letteralmente, mentre adesso si trova sulla rete!) non ha direttamente un valore ufficiale magisteriale. Per il resto, avrei piccoli dettagli da aggiungere all’intervento di M. Introvigne, che lo rafforzeranno. Il che farò quanto prima. Fr. Basile Valuet Le Barroux, 29 maggio 2011 __________ POST SCRIPTUM 4 / LA CONTRO-REPLICA DI VALUET A RHONHEIMER 1. Mon Père, Je vous demande pardon si je vous ai offensé. Pardonnons-nous mutuellement nos défaillances ! Ma méprise venait de ce que, en France, « volume » désigne plutôt la division matérielle d’un livre. 2. Nous sommes d’accord sur le plus important : l’existence du droit à la liberté religieuse (= LR). Selon la doctrine catholique, le mal ne peut pas avoir de droit, et ne pas l’empêcher ne peut se justifier que dans le cadre du volontaire à double effet, par la poursuite d’un bien plus grand ou l’empêchement d’un mal plus grand. Les canonistes allaient plus loin, disant que l’État disposait d’un droit de ne pas tolérer. Le progrès doctrinal de l’allocution "Ci riesce", c’est que, dans certaines circonstances, l’homme n’a pas le droit de ne pas tolérer. Or il est toujours injuste d’agir sur autrui quand on n’en a pas le droit. Ainsi, dans ces circonstances, on commettrait une injustice, donc on irait contre un droit en empêchant l’erreur, un droit non de l’erreur, mais de l’adepte de l’erreur. Raisonnement résumé par mon 1er patron de thèse, Mgr Fernando Ocáriz (1), dans son article sur la LR. Si par « tolérance », on entend le fait de ne pas empêcher l’erreur qu’on aurait le droit de tolérer, alors, évidemment, « droit à être toléré » n’a aucun sens. Mais si par « tolérance », on entend, comme le magistère, « ne pas empêcher le mal » tout court, alors, il peut parfois exister un « droit de l’adepte de l’erreur à être toléré ». Ainsi, on a toujours dit que les parents non chrétiens avaient un droit à ne pas être empêchés, donc à être tolérés, dans l’éducation erronée donnée à leurs enfants. Dans sa prudence politique (cf. CEC 2109), l’homme d’État doit discerner si le mal en question est protégé par un droit, ou s’il ne l’est pas, et, dans ce dernier cas, s’il est opportun de l’empêcher ou non. Citons ici Joël-Benoît d’Onorio, président des juristes catholiques de France, puis de l’Union internationale des juristes catholiques, à qui, dès 1992, j’avais soumis mes notions sur le droit : « En matière de liberté religieuse, le débat « droit ou tolérance » est tout aussi dépassé car la liberté dont a traité le Concile n’est qu’un “droit à être toléré”, c’est-à-dire une immunité civile – mais non absolue – pour tout esprit religieux, une liberté physique opposable à l’État et à la société, et non une liberté morale opposable à Dieu et à son Église » (2). Outre les deux auteurs cités à l’instant, mon préfacier, le cardinal Stickler, canoniste connu (cf. p. XLVIII de sa préface), le P. B.-D. de La Soujeole, ancien magistrat (3), et Mgr Dominique Le Tourneau, canoniste réputé (4), recenseurs élogieux de ma thèse, ne se sont pas aperçus que « Valuet non comprende che cosa è un diritto ». 3. Sur ordre exprès de Paul VI, le 6e rapport oral de la commission de rédaction (non le texte de "Dignitatis humanae" ni du CEC) a expliqué ceci le 19 nov. 1965 : « Certains Pères affirment que la Déclaration ne montre pas suffisamment comment notre doctrine ne s’oppose pas aux documents ecclésiastiques jusqu’à Léon XIII. […] il faut affirmer ce qui suit : alors que les documents pontificaux jusqu’à Léon XIII insistaient davantage sur les devoirs moraux de la puissance publique ("potestatis publicæ") vis-à-vis de la vraie religion, les derniers souverains pontifes, en conservant cette doctrine, la complètent en mettant en lumière un autre devoir de la puissance publique ("potestatis publicæ"), à savoir de respecter en matière religieuse la dignité de la personne humaine comme un élément nécessaire du bien commun. Le texte qui vous est présenté aujourd’hui rappelle clairement les devoirs de la puissance publique ("potestatis publicæ") vis-à-vis de la vraie religion (voir n. 1 et n. 3), ceci rend manifeste le fait que cette partie de la doctrine n’a pas été omise » (5). La théologie se sert couramment des rapports des commissions conciliaires pour éclaircir le sens des enseignements des conciles. Le n. 2105 du CEC rappelle qu’il faut évangéliser les lois et les structures de la communauté, et renvoie à "Immortale Dei" et "Quas primas". 4. Certes, une intention non manifestée par un pape ne peut pas être magistérielle, mais la manifestation de cette intention ne requiert aucune formule spéciale. "Quanta cura" manifeste suffisamment d’enseigner une doctrine définitive. Grégoire XVI dans sa lettre "Singulari Nos", avait d’ailleurs précisé qu’il avait dans "Mirari vos" défini la doctrine catholique contre la liberté absolue de conscience (et contre l’indifférentisme, bien distingué, là, comme dans tous les documents magistériels). 5. Un extrait du CEC va nous permettre de mieux comprendre ce qui s’est passé : « Le droit à la liberté religieuse n’est [A] ni la permission morale d’adhérer à l’erreur, [B] ni un droit supposé à l’erreur, [C] mais un droit naturel de la personne humaine à la liberté civile, c’est-à-dire à l’immunité de contrainte extérieure […] ». Distinguons trois positions différentes concernant la personne humaine (singulière ou collective). Par « erreur », nous entendons bien sûr ce que l’Église catholique déclare être une erreur : [A] L’homme a la permission morale d’adhérer à l’erreur. [B] L’homme a le droit d’adhérer à l’erreur. [C] L’homme a le droit à l’immunité de contrainte extérieure, même s’il est dans l’erreur. La proposition A, condamnée, bien sûr, de tout temps, en particulier au début du Syllabus, résume l’indifférentisme religieux. — B résume la thèse de la liberté de conscience et des cultes (LCC), condamnée aussi, à la fin du Syllabus. — C résume la doctrine de Vatican II. A implique B, qui implique C. Mais C n’implique ni B ni A. Les rationalistes tiennent A et B. Le Lamennais de 1831, lui, ne soutenait pas A (ce qu’il fera en 1834), mais B, considérée comme essentielle à la constitution correcte de la société. C’est pour B qu’il fut condamné (infailliblement) par "Mirari vos". "Quanta cura", préparée bien avant 1863 pour condamner A et B, ne condamna pas les discours de Malines de Montalembert, lequel ne soutenait pas A, ni même B en théorie, mais estimait cependant dans la pratique devoir s’accommoder d’une société organisée sur B, parce qu’elle rendait possible C. Le Saint-Siège fit expliquer par Curci, en 1863, un an avant "Quanta cura" et le "Syllabus", que cette position d’hypothèse était acceptable. Léon XIII condamna encore A et B ; il affirma comme déjà Pie IX la possibilité de tolérer la situation concrète de B. Mais, 1er pape à avoir distingué la LCC idéologique européenne (B) et la LR pragmatique américaine (C), dans "Longinqua Oceani", en 1895, il déclara que C, situation bonne, n’était pas la meilleure dans l’absolu. 6. Que s’est-il passé ensuite ? L’État moderne dont parle le Saint-Père en 2005 a évolué de la conception de la LCC (B), à une conception autre de la liberté (C). De son côté, le magistère, dès "Libertas", a su distinguer progressivement de B la revendication de C. Et ainsi, le magistère a fini par se retrouver d’accord avec l’État moderne sur la LR (cf. les explications données en "Dignitatis humanae" 1), bien que reste condamnée la LCC (B) condamnée par Pie IX (il n’y a pas de droit à l’erreur), et pas seulement A. Il y a discontinuité sur la liberté dont on parle, non sur la doctrine : nous sommes donc d’accord. Autre chose de très important a changé aussi : le fait que le droit à la LR (au sens C) ait été reconnu de manière inter-confessionnelle et internationale après la 2e guerre impliquait que l’expansion d’une religion autre que la religion dominante dans une société donnée ne constituait plus ipso facto un danger pour l’ordre public. De ce fait, la nécessité pour l’Église d’avoir un bras séculier chargé de réprimer "ipso facto" l’erreur religieuse n’existait plus. La situation antérieure était moins parfaite. Mais comme le remarque le Prof. Stefano Ceccanti, on pouvait comprendre que l’Église fît appel à un État catholique pour se défendre. La commission de rédaction de "Dignitatis humanae" a précisé que l’exigence, parfois prévue dans les concordats, de réprimer les confessions non catholiques, était due aux circonstances (A.S. III/VIII, 463-464). Lorsque l’Allemagne et la France étaient en guerre, fait extrêmement déplorable, le droit naturel permettait aux armées de se tirer dessus. Mais dès l’armistice, il devient contraire au droit naturel de se tirer dessus. De Théodose à 1948, on a appliqué entre les confessions religieuses le « droit de la guerre ». Avec la reconnaissance mutuelle du droit à la LR, disparaît le droit "per se" à la coercition du bras séculier. Il me semble que je vous rejoins ici ? "Dignitatis humanae" énonce un principe englobant toutes les situations : là où une erreur religieuse ne nuit pas à l’ordre public juste, l’État n’a pas à la réprimer, mais si elle nuit à l’ordre public juste, l’État peut et parfois doit la réprimer. 7. Les papes du XIXe ont condamné le droit affirmatif (B), et non le droit négatif de Vatican II (C). Fr. Basile Valuet Le Barroux, le 30 mai 2011 NOTES (1) OCÁRIZ Fernando, "Sulla libertà religiosa. Continuità del Vaticano II con il Magistero precedente", in "Annales Theologici", 3/1 (giugno 1989), p. 71-97 (ici p. 89) (2) ONORIO Joël-Benoît d’, "La Liberté religieuse droit fondamental", in AA. VV., "La Liberté religieuse dans le monde. Analyse doctrinale et politique", ID. (dir.), Paris, Éd. univ., 1991, p. 18. (3) "Revue Thomiste", XCVII/3 (juillet-septembre 1997), p. 613-616. (4) "Ius Canonicum", 2001, 754-760. (5) Acta Synodalia IV/VI, 719. __________ NOTA BENE – Ai sette interventi qui pubblicati come "post scriptum" ne vanno aggiunti altri cinque, ospitati negli stessi giorni in SETTIMO CIELO, il blog che fa da corredo a www.chiesa. Ne sono autori, di nuovo, dom Valuet, padre Cavalcoli, il professor Rhonheimer. Ma a dare loro lo spunto per ulteriori commenti è stato il costituzionalista italiano Stefano Ceccanti, che a sua volta ha rinviato a un testo del teologo e cardinale Walter Kasper su "Chiesa e libertà". Ecco i post con i loro interventi: > La Chiesa può cambiare la sua dottrina? La parola a Ceccanti e a Kasper (29.5.2011) > Ancora su Stato e Chiesa. Dom Valuet risponde a Ceccanti (30.5.2011) > Padre Cavalcoli scrive da Bologna. E chiama in causa i "bolognesi" (31.5.2011) __________ |
senza dubbio rileggerò il testo, tuttavia mi sovviene di dire, dopo aver letto già due volte per evitare risposte a freddo, che l’analisi è impietosa e ingiustamente impietosa
Se lei ha potuto fare un articolo così ricco, intanto, è grazie al fatto che esistono persone come De Mattei, mons. Gherardini, mons. Lefebvre, ecc… diversamente lei non avrebbe avuto nulla da riflettere sul dramma che la Chiesa sta vivendo da 50 anni…. perchè, è bene dirlo, fino a solo 6 anni fa nè lei, nè io avremmo potuto parlare di questi argomenti senza essere accusati di sedevacantismo
il solo accennare all’esistenza di una Messa con rito antico le sarebbe bastato per essere accusato di lefebvrianismo in parrocchia e magari essere catapultato fuori alla prima occasione… parlarne era uno “sgabbo” imperdonabile…
Non metta però in mezzo padre Giovanni Cavalcoli O.P. quasi egli sostenesse le sue teorie qui esposte, perchè non è così
la diversità di pensiero è stato sempre un anello portante nella comunicazione della Chiesa… quanto alla diversità dottrinale c’è un qui-pro-quo da chiarire subito:
un conto è negare una Dottrina, e questo negare sarebbe eresia…. altra cosa è discutere la sua evoluzione, ed è ciò che sta avvenendo, cioè, si sta discutendo su alcune dottrine in evoluzione dal Concilio, e fino a che il processo non sarà finito, lei non può accusare di scismatico nessuno, nè di sedevacantismo, nè di protestantesimo a chi sta solo CONTRIBUENDO a questo processo di chiarimenti dopo 50 anni di ambiguità dottrinali, dopo che per 50 anni era stato persino vietato di parlarne, e non era un divieto papale eh!….
Ho letto e rileggo i libri di queste persone quali il prof. De Mattei e mons. Gherardini, ed anche se alcuni passi non li condivido, non vi è nulla di eretico o di scismatico nel loro interno, io spero che lei li abbia letti fino in fondo….
quanto al libro, molto serio, sulla Bella Addormentata, io mi ritengo fra coloro che sono per l’ermeneutica (spero abbia letto anche questo libro prima di scrivere l’articolo) della continuità, quindi non sono al 100% con la prospettiva messa dall’autore il bravissimo Alessandro, ma anche qui, non vi è nulla di scismatico nel libro, al contrario
Guardi, le risposte che il Papa ha dato nell’intervista Luce sul mondo, smentiscono le sue teorie
Pag. 41/43: la questione della revoca della scomunica alla FSSPX (Fraternità Sacerdotale San Pio X)
- La revoca della scomunica è stata un errore?
Benedetto XVI:
Forse è il caso di fare qualche precisazione rispetto alla revoca della scomunica in sé; perchè sono state diffuse moltissime stupidaggini, perfino da presunti dotti teologici.
Non è vero che quei quattro vescovi, come spesso si è voluto sottendere, siano stati scomunicati a causa del loro atteggiamento negativo nei confronti del Concilio Vaticano II.
In realtà erano stati scomunicati perché avevano ricevuto la consacrazione episcopale senza il mandato del Papa.
E quindi si era proceduto secondo il relativo canone vigente, un canone già presente nell’antico Diritto ecclesiastico.
Secondo di esso, la scomunica viene inflitta a coloro, che, senza mandato del Papa, conferiscono ad altri la consacrazione episcopale, ed anche a coloro che si lasciano consacrare.
Furono quindi scomunicati perchè avevano agito contro il Primato.
Esiste una situazione analoga in Cina; anche lì sono stati consacrati dei vescovi senza il mandato del Papa e per questo sono stati scomunicati.
Ora, non appena uno di questi vescovi dichiara di riconoscere il Primato in generale nonchè quello del Pontefice regnante in particolare, la sua scomunica viene revocata perché non più giustificata.
Questo è quello che stiamo facendo in Cina – e speriamo in questo modo di riuscire pian piano a risolvere lo scisma – e così abbiamo agito anche nei casi in questione.
In breve: per il fatto stesso di essere stati consacrati senza il mandato del Papa sono stati scomunicati; e per il fatto stesso di aver riconosciuto il Papa – anche se non lo seguono ancora in tutto – la loro scomunica è stata revocata.
In sé, è un processo giuridico assolutamente normale.
Devo dire a questo proposito che su questo punto il nostro lavoro di comunicazione non è riuscito bene.
Non è stato spiegato abbastanza perchè questi vescovi fossero stati scomunicati e perché poi, già solo per ragioni giuridiche, quella scomunica doveva essere revocata.”
domanda – Nell’opinione pubblica nacque l’impressione che Roma trattasse con riguardo gruppi conservatori di destra, mentre riducesse subito al silenzio esponenti liberali e di sinistra.
Benedetto XVI:
Si è trattato semplicemente di una situazione giuridica molto chiara. Il Vaticano II non c’entrava assolutamente nulla; e nemmeno altre posizioni teologiche.
Nel momento in cui questi Vescovi riconoscevano il Primato del Papa, giuridicamente dovevano essere liberati dalla scomunica; senza che per questo mantenessero i loro incarichi nella Chiesa e senza che per ciò stesso fosse accettata la posizione da loro assunta nei riguardi del Concilio Vaticano II”.
*****
per essere scismatici o eretici ci vuole ben altro….
Infine, io posso scrivere di determinate cose NON grazie a de Mattei e Gherardini, ma GRAZIE AD ALTRI (di cui mi auguro Antonio riporti la bibliografia ampia), tra cui soggetti che a suo tempo hanno fatto il lavoro sporco si sono beccate le loro belle porzioni di isolazionismo infraecclesiale ma NON SONO MAI CADUTI nelle ambiguità e nell’allontanamento esplicito o implicito (come nel caso degli autori di cui parlo) del Magistero. Lei, che mi dice di leggerli, ha letto de Mattei e Gherardini? Bene, allora le dico due cose: 1) si legga don Cantoni il quale SMONTA PEZZO PER PEZZO Gherardini; 2) l’atteggiamento di Gherardini (che ho letto) è SEMPRE CRITICISSIMO verso l’autorità romana; a me è stato insegnato (non dai suddetti autori cui PER FORTUNA devo poco, salvo qualche ottimo testo dematteiano su ALTRI temi) che con l’autorità romana si interloquisce, NON si critica, e SEMPRE ci si conforma (ho richiamato esempi di obbedienza che sono SANTI: evidentemente facciamo le pulci anche a loro?); 3) se lei confronta serenamente (senza pregiudizi favorevoli o sfavorevoli verso de Mattei) il discorso dematteiano e quello di B-XVI (e di altri Pontefici) vedrà che de Mattei si allontana dal Magistero su DUE PUNTI: a) giudizio sulla modernità; b) rapporto evento-testi del Concilio.
Dunque, conclusione: NON sono in linea col Magistero e, in quanto tali, esercitano un soggettivismo evidente. Non ho parlato di scisma: dico solo che ciò che accomuna costoro, gli scismatici e i progressisti è l’allontanamento dalla VERA prospettiva del Magistero. Se lei ricava lo “scisma” dai titoli (perché SOLO LI’ può prendere la cosa, essendo un discorso COMPLESSO e che ARGOMENTA e NON parla di scismatici), sappia che i titoli che a qualcuno possono sembrare eccessivi sono di Antonio (il quale ha anche spiegato le ragioni meramente editoriali di tali titoli “strillati”), NON mi competono.
Mi pregio del fatto che discuto anch’io con padre Giovanni Cavalcoli e con il quale mi trovo in perfetta sintonia ma anche qui ci sono aspetti che a mio parere si possono sempre ridiscutere…
Ma rammento pure che il libro Concilio Vaticano II un discorso da fare di mons. Gherardini, fu impreziosito dalla Prefazione di un altro Vescovo… mons. Mario Oliveri Vescovo di Albenga-Imperia
non mi si vorrà dire che anche questo Vescovo è “criticissimo verso l’autorità Romana”?
Allora Filippo, per intenderci meglio e per comprendere come sono solidale con mons. Gherardini, le posto cosa disse Il Vescovo Oliveri in questa Prefazione nel suo libro, dice:
“…Ho letto il tutto con lo stesso animo assetato, con cui ho recepito sinora molte Sue pubblicazioni, diversi suoi libri, tanti Suoi articoli. Il filo conduttore di tutti i Suoi scritti è sempre quello che mette in logico e – direi – ferreo collegamento Verità rivelata e verità meditata dall’umano intelletto illuminato dalla fede, sostenuto dalla Teologia dei Padri della Chiesa, sistematizzata dalla grande Teologia scolastica, tramandatasi per secoli; sorretto dall’Insegnamento del Magistero della Chiesa, che mai può essere in contraddizione con se stesso, che solo può avere uno sviluppo così omogeneo da non dire mai “nova”, ma tutt’al più “nove” (secondo la terminologia del “Commonitorium” di San Vincenzo di Lerino).
….
La Sua pubblicazione mostra con grande chiarezza, con quella chiarezza di pensiero che Le è abituale, in forza della Sua acutezza di intelligenza ed altresì della Sua lunghissima esperienza di Docente, che nella Chiesa non vi può essere se non continuità. Il solo immaginare che vi possa essere “rivoluzione, cambiamento radicale, sostanziale mutazione” sul piano della verità e sul piano della vita soprannaturale della Chiesa, devia già dal sano ragionamento teologico, poiché come ho detto prima, devia dal sano ragionamento anche filosofico. Non disturba soltanto la fede, ma anche la ragione.
….
Il Suo discorso, Chiarissimo Professore, permette di affrontare una profonda analisi del Vaticano II e del suo insegnamento, formulato nei suoi Documenti, tale da condurre a comprendere che anche là dove il linguaggio potrebbe far pensare ad una discontinuità con il contenuto teologico che si ritrova in “tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa” non può che essere un dire “nove” non un dire “nova”. E quindi non si può piegare il “bagaglio dottrinale della Chiesa” a quel linguaggio, ma esso va interpretato in modo che davvero non dica “nova” rispetto alla Tradizione della Chiesa.
Ma, attesa la natura del Concilio e la natura diversificata dei suoi Documenti, penso si possa sostenere che se da una ermeneutica teologica cattolica emergesse che taluni passi, o taluni passaggi e affermazioni del Concilio, non dicono soltanto “nove” ma anche “nova”, rispetto alla perenne Tradizione della Chiesa, non si sarebbe più di fronte ad uno sviluppo omogeneo del Magistero: lì si avrebbe un insegnamento non irreformabile, certamente non infallibile.
Mi conforta moltissimo aver potuto proprio in questi giorni leggere il discorso del Santo Padre alla Plenaria della Congregazione per il Clero. Parlando della formazione dei Sacerdoti, Egli afferma: “La missione ha le sue radici in special modo in una buona formazione, sviluppata in comunione con l’ininterrotta Tradizione ecclesiale, senza cesure né tentazioni di discontinuità. In tal senso, è importante favorire nei Sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa”.
Di fronte a questa Mente del Santo Padre è agevole pensare che Egli vorrà dare buona considerazione alla Supplica, che a conclusione della Sua meditazione teologica sul Vaticano II, il Suo animo di devotissimo figlio della Chiesa ha voluto formulare al Successore di Pietro, chiedendo che al più alto livello del Magistero vi sia “una grandiosa e possibilmente definitiva mess’a punto sul Vaticano II in ognuno dei suoi aspetti e contenuti”, che tocchi la sua vera natura, che indichi che cosa significhi che esso ha voluto proporsi come un Concilio pastorale.
Qual è, dunque, il suo valore dogmatico?
Tutti i suoi documenti hanno lo stesso valore, oppure no?
Tutte le espressioni presenti in essi hanno lo stesso valore oppure no?
Il suo insegnamento è tutto irreformabile?
E vero che alcune risposte a detti quesiti possono già dedursi dal Suo lavoro e dovrebbero potersi enucleare in base ai costanti criteri di giudizio teologico sempre seguiti nella Chiesa; ma nessuno può negare che in molta produzione “teologica” post-conciliare la confusione al riguardo sia molta e densa, e molto densa è l’incertezza dottrinale e pastorale.
Mi permetta perciò, caro Professore, e mi permetta soprattutto il Santo Padre, di unirmi “toto corde” alla Sua Supplica, mentre formulo l’auspicio che la Sua pubblicazione susciti molta attenzione e molta riflessione all’interno della Chiesa, ovunque si voglia fare vera teologia, e sia accolta con il rispetto che merita un lavoro condotto con rigore e certamente con grande amore alla Chiesa, alla sua perenne Tradizione, al suo Magistero, per la fedele conoscenza e trasmissione del quale Lei ha operato in tutta la Sua lunga attività di Docente della Sacra Teologia.
Albenga, 19 Marzo 2009
Solennità di San Giuseppe
Patrono della Chiesa Universale
+ Mario Oliveri,
Vescovo
è da capire se il punto sollevato riguarda il Concilio o il CIC (post-concilio), o, ancora, una cattiva interpretazione e del Concilio E del CIC. Lei dice che il canone 96 “attua il Concilio”. Ma ci andrei molto cauto sul punto: attua l’ecclesiologia del CVII? Oppure ne è una cattiva traduzione giuridica? Oppure, ancora, considerato che un codice è sempre soggetto a interpretazione, non è che semplicemente l’interpretazione del can. 96 che lei mi dà è viziata? Specie se ci si richiama a Feliciani, che non so se si possa realmente dire equilibrato come autore… il senso di revisione costituzionale nasce dalla visione progressista (da cui Feliciani, che scriveva su ‘Concilium’, non è immune). E ancora una volta sono costretto a notare come tale errore colpisca allora anche fuori dalle cerchie progressiste. Lei, in tal senso, richiama il c. 96, ma quello che è il testo letterale del canone NON parla di diritti dei non cattolici, bensì di diritti e doveri dei cattolici, in quanto restino in comunione con la Chiesa (sic). Quella interpretazione che lei richiama NON è il CIC. E comunque riconoscere diritti non significa debilitare l’ordinamento della Chiesa e la sua continuità nel tempo: dipende dai diritti e i doveri che si riconoscono. Se riconoscessimo un diritto ad accedere all’Eucarestia a battezzati non cattolici potrei capire. Ma riconoscere (come accade anche per i non battezzati) la presenza in un processo, ad esempio, non travolge certo la continuità dell’ordinamento, in quanto tale riconoscimento è contingente e non rilevante (perché concernente fattori secondari), altrimenti dovremmo concludere che qualsiasi mutamento sia illegittimo e quindi che il cic del ’17 (e ogni altro elemento della Chiesa) fosse immutabile. E invece così non è perché la Chiesa è realtà dinamica che non travolge il suo nucleo, ma muta nelle contingenze (attuazione del nucleo, in continuità ma NON in fissità).
Con riguardo alle definizioni del singolo (rispondo adesso al punto), il soggettivismo luterano c’è ogni qualvolta si sostenga qualcosa in contrasto con il sentire della Chiesa e cioè con i pronunciamenti dell’autorità in tutti i loro portati logici, non ogni volta si esprima un giudizio tout court. Non ho detto che ogni volta si esprima un giudizio si esercita soggettivismo, perché è una cosa da fessi. E fesso non sono, anche se lei mi fa tale (ovviamente è una battuta). ;D Ho detto solo che, rispetto a quello che è il complesso delle definizioni pontificie in materia, gli autori suddetti esercitano soggettivismo perché giungono a conclusioni (o partono da premesse, molto spesso) che NON sono quelle pontificie (e che, come nel caso di Gherardini, alle volte sono anche esplicitamente critiche dell’autorità! Altro che retta ragione e umile preghiera! E’ abbastanza evidente, già nei toni accesi del Gherardini del ‘Discorso mancato’ un “non serviam” dopo l’altro). Come ho già detto, con riguardo al punto centrale (che nessuno si è degnato qui di smentirmi!), sicuramente NON hanno un sentire con la Chiesa: è vero o no che NON hanno fatto proprio l’invito dei Pontefici, ma hanno aperto un dibattito in cui ci si chiede, in buona sostanza, se sia possibile assecondare tale invito? Ed è vero che B-XVI NON chiedeva questo, se solo si ha la bontà di leggere (meditando) la lettera dei discorsi che ha tenuto alla Curia e ad Auronzo di Cadore? Ora, posto che il Magistero ordinario (anche nelle questioni proximae fidei!) è vincolante per il singolo, rilevo una scarsa adesione a tale Magistero ordinario in tali autori. Dunque, rilevo che i loro giudizi sono viziati da soggettivismo, e non si richiamano alla retta ragione, perché la retta ragione dovrebbe portare a conclusioni aderenti a quelle che si ricavano dal Magistero ordinario e che invece loro non fanno proprie.
lei scrive:
E COSÌ I CRITICI DEL CONCILIO SI SON SPACCATI IN DUE FRONTI
Come si vede, Benedetto XVI è esplicito nel far piazza pulita della reazione anticonciliare che vorrebbe gettare bambino ed acqua sporca, il Concilio insieme al progressismo che lo vuol fraintendere, intendendolo come una Rivoluzione. “Così distruggete la Chiesa” è l’urlo anticonciliare, ma tale urlo sottende l’idea – rifiutata dal Papa – che sia il Concilio a porre questo stravolgimento distruttivo. Beninteso, non si tratta di disconoscere che i testi conciliari siano anche fraintendibili – sebbene non così tanto quanto vogliano far credere i loro detrattori –, ma si tratta comunque di non fraintenderli, come fanno i progressisti.
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Questo aspetto è condivisibile, ma cercando di non colpevolizzare chi ha avuto il coraggio di dire che c’era stato uno stravolgimento perchè di fatto lo si taceva, questo è stato il vero dramma
Basti pensare il Concilio come ad un Cavallo di Troia nel quale si nascosero (e neppure tanto) i modernisti…. non era dunque colpa del Cavallo(=Concilio) ma di chi, dal suo interno tentò abilmente, riuscendovi (parola di Ratzinger) di stravolgerne i lavori imponendo delle linee PASTORALI che non corrispondevano ai TESTI del Concilio….
Giovanni Paolo II impose, ad esempio, la urgente pubblicazione del Nuovo Catechismo (uscito poi nel 1993) perchè da ben 20 anni, dal Concilio, senza alcun Documento conciliare o pontificio, il vecchio Catechismo detto san Pio X VENNE VIETATO….perchè “superato”… da qui cominciarono ad essere pubblicati una serie di catechismi a dir poco eretici, SINCRETISTI, i tre più imponenti firmati dalla CEI e tutti da cestinare… in quello su La Verità vi farà liberi per gli adolescenti alla Cresima, c’è la pagina dedicata ai Santi, ebbene, qui vengono messi sullo stesso piano Martin Luter King con Madre Teresa di Calcutta e Gandi….era quesat la volontà del Concilio? ovvio che no! ma la composizione di tal Catechismo si è fatto VOCE DEL CONCILIO…
Sempre in questo c’è la pagina dedicata all’Ecumenismo, andatela a vedere: una immagine nella quale la Chiesa Cattolica è posizionata sullo stesso livello delle altre chiese protestanti ed ortodosse, poi il Papa, senza dubbio avanti a tutti e dietro di lui i fedeli DI TUTTE LE RELIGIONI che vanno verso Cristo, dipinto FUORI DELLA CHIESA e verso il quale tutti si dirigono, senza distinzione…. dunque la Chiesa Cattolica NON ha il Cristo in sè? questo dirigersi FUORI DELLA CHIESA per andare verso un Cristo che è al di fuori di Essa è forse una nuova dottrina nata dal Concilio? ovvio che no! ma intanto è lo stesso Ratzinger a denunciare un ecumenismo sincretista e sbagliato, intessuto in nome dello “spirito del concilio”
Non fu il Concilio quale strumento legittimo a stravolgere la Chiesa, ma tutte quelle pastorali che in nome del Concilio IMPOSERO dei cambiamenti devastanti….
ma senza dubbio fu dal Concilio che venne agevolata l’apostasia e il linguaggio conciliare….
Il linguaggio è molto importante
basti pensare alle ricette o alle diagnosi dei medici, non ci si capisce molto, ma basta chiedere al medico di tradurci il senso di una diagnosi….
ma che tale linguaggio sarebbe dovuto rimanere ECCLESIALE ce lo rammenta il capitolo 6 di san Giovanni sull’Eucaristia….
ad un certo punto, finita la lezione di Gesù, Pietro è sconvolto: “Signore, IL TUO LINGUAGGIO E’ DURO, chi potrà comprenderlo? Molti dei tuoi discepoli SE NE VANNO VIA…!”
Gesù non dice a Pietro: “fermali, avete capito male! adesso vi spiego….”
no! al contrario, Gesù dice a Pietro: “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?”
il linguaggio “duro” ha una sua ragion d’essere perchè NON TUTTO ciò che è della e nella Chiesa può essere spiegato
il tentativo di voler semplificare, con le pastorali e i vari catechismi, i dogmi, le dottrine, l’ecumenismo, la libertà religiosa ecc.. non hanno fatto altro che PENALIZZARE la Chiesa stessa, si è gridato: “no! non scappate via! adesso vi spieghiamo noi i misteri della Chiesa…” e così si sono svuotate le chiese, i seminari, i noviziati….. perchè dove finisce il mistero l’uomo non ha più la necessità di restare
Tutto questo ed altro è stato ben dispiegato in 30 anni dall’allora vescovo e poi cardinale Joseph Ratzinger, a più riprese e con molta insistenza….noi non crediamo al caso e non è un caso che egli sia stato chiamato a governare la Chiesa…. ma c’è ancora molto da fare!
Io sono convinta che ogni Papa ha il suo compito specifico…. Benedetto XVI doveva riportare giustizia alla Liturgia calpèestata, il prossimo successore (magari fra 20 anni eh! ^__^) avrà altri compiti, ad ogni giorno basta la sua pena…
Mons. Gherardini, con i Frati dell’Immacolata, con il prof. De Mattei, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, e tanti altri, si stanno muovendo nella giusta direzione
per ora, un abbraccio fraterno!
rammento che san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura pur essendo amici avevano idee diverse su alcune questioni dottrinali, e non andavano d’accordo durante le dispute…
Possiamo parlare di catechismi sincretisti, di teologie spericolate, di ecumenismi sempliciotti, di liturgie creative, etc. quanto volete. Ma dobbiamo metterci in testa che non fu il Concilio a provocarli. Fu invece quell’equivoco spirito conciliare che non esisteva se non nella mente di chi in malafede ha strumentalizzato il Concilio, per dare un calcio a quanto di buono c’era nella Tradizione. Se non comprendiamo questo, finiamo per dare ragione a chi, per motivi diversi, porta avanti un’ermeneutica della rottura.
Il fatto, poi, che siano usciti libri di orientamento tradizionalista che parlano del Concilio non mi sembra una così grande conquista se lo scopo è quello di dare addosso al Concilio anche da parte cattolica (e non più solo da parte di chi cattolico non è).
Io guardo a quello che Giovanni Paolo II, già beato, disse del Concilio nel suo testamento spirituale: “desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato- mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato”.
Poteva un mistico come Giovanni Paolo II, a cui tutti – amici e nemici – riconoscono un colloquio con Dio quasi visibile tanto era intenso, prendere una cantonata così forte e considerare ” grande dono dello Spirito” quello che si cerca di far passare per evento che ha affossato la Chiesa?
Ritengo corretta l’analisi di Filippo Giorgianni e credo che anche le critiche esposte dagli altri, che hanno lasciato i loro commenti, dimostrano che permane sempre lo stesso equivoco: addossare al Concilio colpe non sue.
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concordo sull’eterno equivoco, ma ritengo corretto tirarmi fuori da questo;-) ossia, ho specificato in ben due interventi che non è e non fu colpa del Concilio, ma che lo stesso venne usato come un Cavallo di Troia…. il paragone è mio, ma che il Concilio fu strumentalizzato lo dice anche Ratzinger
Il Concilio è uno strumento, se uno lo usa male non è colpa dello strumento, ma di chi lo ha usato malamente….
idem una pistola, questa può difendermi e può essere usata bene, ma se sono un malintenzionato posso provocare una strage… e la colpa non sarebbe della pistola, ma di chi ha premuto il grilletto…
Benedetto XVI lo ammette e lo riconosce, molti Pastori sbagliarono..
ed anche oggi, basti vedere il fatto che le sue richieste per dire la Messa in parrocchia ancora non vengono applicate: ritorno del Crocefisso sull’Altare e gli inginocchiatoi per la Comunione… e questo perchè per 50 anni si è lasciato seminare l’errore, primo fra tutti anche Giovanni Paolo II che era arrivato a celebrare una Messa Pontificia senza più un briciolo di sacralità…..
Orgoglioso di essere gaioso e non dimentichiamo di Lutero, Gandhi e Stalin….
Intanto ho trovato questa su Faccia-libro. Ho chiesto la tua amicizia, cosi’ ci troviamo spesso sul web.
https://www.facebook.com/redazione.papalepapale?ref=pymk
E’ vero che a tutto il magistero ordinario, e non solo a quello infallibile e straordinario, spetta l’ossequio della volontà e dell’intelletto.
Peraltro, accanto all’ossequio, che deve sempre essere presente, è lecito:
- Dire “non ho capito”. Il Magistero puo’ benissimo essere autentico, eppure non spiegarsi bene. Tanto è vero che Gesù le sue parabole le doveva spiegare ai suoi discepoli, perché non erano di immediata comprensione. Quindi si puo’ dire “senz’altro è cosi’ pero’ non ho capito, spiegatemelo meglio”. Questo vale anche quando ci siano due o piu’ affermazioni del Magistero apparentemente in contrasto tra loro. Spetta al Magistero chiarire il contrasto, ma è lecito farlo presente
- E’ lecito far notare che ad un determinato insegnamento del Magistero non corrisponde una adeguata applicazione nei fatti. Per esempio, San Paolo ha fatto notare a San Pietro che da un lato insegnava che non c’era piu’ distinzione tra giudei e pagani, dato che la salvezza deriva dalla fede indipendentemente dalla legge mosaica, d’altro canto rifiutando di prendere cibo con i pagani contraddiceva nei fatti l’insegnamento.
- E’ lecito far presente ai pastori le proprie necessità e i propri desideri (art. 212 n.2 codice diritto canonico)
- E’ non solo lecito, ma a volte anche doveroso, manifestare ai Pastori il proprio pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa. (art. 212 n.3 cdc)
- I fedeli hanno il diritto di rendere culto a Dio secondo le disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi Pastori e di seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla dottrina della Chiesa. (art. 214 cdc)
Provo a trarre qualche corollario:
- I lefebvriani hanno diritto di chiedere spiegazioni sugli apparenti contrasti tra vecchio e nuovo Magistero (p.es. sulla libertà religiosa ecc.). Non hanno invece diritto di presumere che il contrasto sia insanabile
- I fedeli hanno diritto di chiedere p.es. “se la Chiesa insegna che nel SS. Sacramento è presente Nostro Signore in corpo, sangue, anima e divinità, perché il prete nella Messa nuova gli volge le spalle ? – non è un contrasto tra verità insegnata e fatti praticati ?”; oppure di chiedere “se la Chiesa insegna che fuori della Chiesa non c’è salvezza, perché certi preti insegnano che le religioni sono tutte uguali?”. E qui, se il contrasto è solo apparente, il Magistero lo dirà e lo chiarirà. Se invece il contrasto è reale, i Pastori dovranno correggerlo.
- È lecito, e probabilmente anche doveroso, far presente ai pastori che, per esempio, il bene della Chiesa richiederebbe una maggiore precisione del linguaggio del Magistero, una maggiore diffusione del rito straordinario della Messa, il desiderio chessò, di un maggiore utilizzo del canto gregoriano ecc. Poi però i pastori sono loro, mica noi. Tocca a loro decidere. Una loro decisione eventualmente non conforme ai nostri desideri non è un motivo sufficiente per andarsene sbattendo la porta.
- Se per esempio il prete X della tal parrocchia professa (che Dio non voglia) idee moderniste, panteiste, indifferentiste ecc. questo mi dà diritto a cambiare parrocchia per seguire il mio metodo di vita spirituale conforme alla dottrina della Chiesa. Mi dà anche diritto di segnalare al Vescovo la non conformità dell’insegnamento di quel sacerdote a quello della Chiesa. Ma questo non mi legittima a uscire dalla Chiesa.
Alcuni chiarimenti di Mons. Gherardini, su di sè, sul Concilio, sulla Tradizione e anche sulla F.S.S.P.X
La novella dello stento ovvero La disputa sull’interpretazione del Vaticano II
di Mons. Gherardini, fonte: RiscossaCristiana
“La novella dello stento ovvero la disputa sull’interpretazione del Vaticano II È probabile che i lettori più giovani mai prima d’ora si sian imbattuti nell’espressione la novella dello stento. Da ragazzo, la udivo quasi tutte le sere, al momento in cui, dette le preghierine ed ascoltata l’ultima fiaba prima che m’addormentassi, la nonna ricominciava la novella appena terminata, premettendo: “questa è la novella dello stento, che dura tanto tempo e che non finisce mai”. C’era anche un’altra espressione per indicare l’insopportabile ripetersi di qualcosa: lungo/a come la camicia di Meo. E’ mia impressione, soprattutto leggendo certi Autori, che anche l’interpretazione del Vaticano II sia diventata “lunga come la camicia di Meo”, ripetitiva cioè e superficiale, ed appunto per questo una vera “novella dello stento”. Alludo ad Autori nei quali mai si coglie un sia pur flebile tentativo d’approfondimento, uno sforzo di comprensione alla luce delle fonti, del Magistero e dei “probati Auctores”, un’analisi contenutistica e comparata dei documenti conciliari; mai una verifica fra il dettato conciliare e le note a piè di pagina che dovrebbero confermarlo e documentarlo, oppure fra questo dettato conciliare e quello dei precedenti Concili ai quali vien fatto appello. Si ripete fin alla stanchezza, proprio come quella prodotta dalla “novella dello stento”, che il Vaticano II è infallibile anche se non è dogmatico, perché – e qui sta l’unico immane erculeo sforzo di fondazione critica – è assistito dallo Spirito Santo.
cliccare qui per il testo integrale:
http://www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1319:la-novella-dello-stento-ovvero-la-disputa-sullinterpretazione-del-vaticano-ii-di-mons-brunero-gherardini&catid=61:vita-della-chiesa&Itemid=123
Nel testo che le ho proposto, ho ritenuto validissmo il chiarimento che mons. Gherardini fa tra la sua posizione e quella detta dei lefebvriani…. non sta accusando “altri”, ma a ragione chiarisce la sua personale posizione e lo spiega:
I sostenitori della giustificazione aprioristica e fideistica, privi in assoluto d’autocritica perché altrettanto in assoluto sicuri di sé, s’ergon a giudici di chiunque la pensi un po’ diversamente e sentenziano contro chi valuti il Vaticano II sulla base non d’un aprioristico e fideistico ricorso allo Spirito Santo, ma del metodo rigorosamente critico – teologico: alla luce cioè della Fede rivelata e della sua presenza nell’ininterrotto Magistero ecclesiale dagli Apostoli ad oggi. Poiché codesta medesima luce evidenzia non pochi elementi del Vaticano II o discutibili o difficilmente collegabili con la continuità del detto Magistero, il rilevarlo è considerato un peccato mortale e vien investito da veementi accuse ai limiti del non-senso: “interpretazione modernista” è la più grave così come la più assurda, oppure “interpretazioine lefebvriana”, quasi un colpo di grazia contro la reazione in agguato, che osa sfidare il Papa, il Magistero e soprattutto loro, gli aprioristi e fideisti del momento. Mi nasce il sospetto che io stesso sia per loro un “modernista” ed un “lefebvriano”. A dir il vero essi stessi mi combattono per ben altri motivi ed è quindi evidente il loro stato confusionale: non si rendon conto, infatti, che “modernista” e “lefebvriano” non stanno insieme: è modernista chi considera la Rivelazione non conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, ma tuttora in atto e riconoscibile nei movimenti del subcosciente e nell’evolversi della cultura, alla luce della quale, anzi, il modernista interpreta ed accomoda le verità del “Credo”; è “lefebvriano” chi appartiene alla Fraternità sacerdotale san Pio X, fondata dal ben noto Mons. M. Lefebvre, o anche chi, sia pur al di fuori della Fraternità, ne condivide le riserve sul Vaticano II, nonché sull’aperturismo del postconcilio e sulle avventure liturgico-teologiche degli ultimi cinquant’anni. Non credo che i suddetti sostenitori, se pur in stato confusionale, ignorino la mia posizione teologica assolutamente antimodernista e la mia estraneità alla famiglia lefebvriana. E’ vero che qualche membro di essa, secondo quanto leggo in pubblicazioni ufficiali, ha detto di me: “Non è dei nostri, ma la pensa come noi”; ciò peraltro è del tutto insostenibile. Sulla prima affermazione non c’è né se né ma che tenga: anche se amico sincero d’alcuni membri della Fraternità, appartengo al clero secolare, son incardinato nella diocesi di Prato, in servizio presso la Santa Sede fino al 1995 e membro del Capitolo vaticano dal 1994. Sulla seconda affermazione i se ed i ma son d’obbligo. Condivido con la Fraternità alcune idee di fondo: il senso della Tradizione viva perché ininterrotta, la “romanità” del Fondatore, la critica all’attuale involuzione mondana, ed altro ancora. Non però l’autonomia con cui la Fraternità “conosce” cause matrimoniali, scioglie matrimoni, riduce allo stato laicale: queste son competenze della Chiesa e dei suoi tribunali, non d’una “società sacerdotale”, oltretutto non ancora canonicamente riconosciuta. Anche sul piano teologico, nel quale alcuni lefebvriani emergono per competenza e profondità, non proprio su tutto mi sento in sintonia….
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poi uno può concordare o meno, mache il testo non dica nulla non è corretto
Poi è vero il fatto che “nessun” Concilio è infallibile… ciò che lo rende infallibile è il pronunciamento del Pontefice… si legga qui per comprendere in quale situazione si è fatto il Concilio:
http://www.papalepapale.com/develop/e-la-chiesa-cadde-in-mano-agli-intellettuali-teologi-e-concilio-parte-1/
ma ora le porto un esempio concreto, mi perdoni la lunghezza
Paolo VI vietò la Messa antica senza alcuna Bolla Pontificia… di colpo accettò la nuova Liturgia inventata da Bugnini dopo un colpo basso…a riguardo della Riforma con la Sacrosanctum Concilium un conto era la questione della lingua attraverso la quale si doveva tradurre le venerabili formule latine nella lingua del luogo, vernicolari, altra cosa fu la completa modifica della struttura.
Nel 1969, mediante la costituzione apostolica Missale Romanum, Paolo VI stabiliva il cosìddetto “Novus Ordo Missae” (NOM) il quale intendeva rimanere in linea con una stretta interpretazione della dottrina non andando a modificare quello tradizionale codificato da san Pio V mediante la Bolla “Quo primum tempore” del 1570, fedele interprete del Concilio di Trento, ma che di fatto, il NOM, finì per essere definito “ex novo” e non dunque semplicemente che poteva “coesistere” con l’antico Rito, ma che di fatto sarebbe entrato prima o poi in rotta di collisione era inevitabile.
Non fu dunque l’intenzione dei Documenti del Concilio a voler creare una nuova Messa a discapito dell’antica, ma bensì il nucleo fondante l’ala progressista della Chiesa che si comportò come se il Rito antico fosse decaduto in prescrizione.
In quel periodo il caos invase la Chiesa e i Seminari: sacerdoti e fedeli furono obbligati da una domenica all’altra ad abbandonare la Messa che avevano fino a quel momento celebrato ed ascoltato e chi si permise di rifiutare un simile stravolgimento venne immediatamente additato come ribelle “nemico del Concilio”.
Famoso è il “Breve Esame critico del Novus Ordo Missae” elaborato dai cardinali Ottaviani e Bacci in una lettera che inviarono a Paolo VI, con l’aiuto di un importante gruppo di teologi romani…
Nella Lettera si faceva presente che non si trattava solamente di una questione di “dilettantismo” – o pastrocchio se preferite – o di attaccamento al passato, quanto il problema assai più grave che il NOM andava dissociandosi e allontanandosi letteralmente dalla Dottrina Cattolica come venne per altro stabilita dalla XXII sessione del Concilio di Trento.
Il problema reale risiedeva NELL’AMBIGUITA’ della messa riformata, suscettibile di più diverse interpretazioni tanto dal punto di vista cattolico quanto da quello protestante….
Tornando così alla Sacrosanctum Concilium, tale Costituzione del Concilio aveva nelle intenzioni il dare delle direttrici per riformare la Liturgia, ma in nessun modo esse implicavano la completa innovazione che poi avvenne!
Ciò che non si comprende è come sia stato possibile che all’improvviso, nel 1969, Paolo VI diede forza ad un rito che seppur nella sostanza del Canone centrale della Consacrazione era il medesimo, di fatto esso appariva completamente non rinnovato ma NUOVO e che nulla aveva a che fare con la dottrina stessa della Liturgia antica a cominciare dall’uso di certi termini, per poi finire con il dare all’assemblea la parte della protagonista alla nuova Messa…
Queste non sono considerazioni faziose, ma la considerazione delle intenzioni dell’artefice “oscuro” della riforma, padre Annibale Bugnini… il quale scriveva nel 1967:
“La questione non è semplicemente quella di restaurare una valida opera maestra, ma, in molti casi, sarà necessario provvedere a nuove strutture per riti interi. E’ una questione di rinnovamento completo, quasi direi DI RIFONDAZIONE, e in certi casi si tratterà di una CREAZIONE NUOVA….
Non stiamo lavorando per dei musei, vogliamo una liturgia viva per gli uomini del nostro tempo”.
In verità, come è facilmente dimostrabile, Paolo VI non era di queste intenzioni, eppure lasciò fare e finì egli stesso per adeguarsi alle iniziative di Bugnini….
E’ scandaloso apprendere che nel 1967 il Concilium che stava ancora lavorando, diede alla luce un formulario che chiamò “Missae normativa”, elaborato con la collaborazione di ben sei protestanti, e che fu portato ai vescovi per l’approvazione….
Il bello è che i vescovi infatti NON accettarono questo formulario e che anzi, scatenò come era giusto che fosse, molte reazioni contrarie che alla fine esso venne ritirato ma non gettato, bensì tenuto nel cassetto in attesa di “tempi migliori”…
Con astuzia luceferina il testo venne ritoccato qua e là senza modificare la sostanza che aveva invece ottenuto la negazione dei Padri, e portato davanti a Paolo VI il quale, incredibilmente, lo approvò con il nome di “Novus Ordo Missae”…
Era il trionfo dell’ala progressista-modernista, ce l’avevano fatta, avevano vinto la loro battaglia!
Una battaglia che oggi, a ragione, sta ricombattendo qualcuno che grazie a Benedetto XVI ha avuto il coraggio di cominciare a parlare…
io dalle 18 di oggi ho letto solo qui da voi, la risposta del prof. De Mattei su MIL, e mons. Gherardini per trovare una risposta comprensibile
in altre parti so brevissima….
E poi l’ho detto: l’argomento di Francesco merita più che qualche battuta…. il dibattito è apertissimo!
In primo luogo, questi “tradizionalisti” si dicono “difensori della fede cattolica”.
Ora, nella storia di “difensori della fede cattolica” ve ne furono tanti. Prendiamo, ad esempio, i Vecchi Cattolici di Utrecht che nel 1691 abbracciarono il giansenismo, rompendo in seguito con Roma. Anche questi si proposero come i “veri
difensori della fede cattolica” . Lo stesso discorso può valere anche per i seguaci
del febronianesimo, ossia i seguaci di quella corrente religiosa che fu creata da Febronio (al secolo Johann Nikolaus von Hontheim), vescovo ausiliare di Treviri (in Germania), che stabilì che il Papa fosse solo un “primus inter pares” e che si definì espressione della vera Chiesa cattolica.
Anche i luterani svedesi e gli anglicani si definiscono “cattolici”.
Ora, queste Chiese “cattoliche” ebbero (ed hanno tuttora) molto in comune con alcuni tradizionalisti (come i sedevacantisti). In primis, queste Chiese rifiutavano (e rifiutano) l’autorità del Papa.
In pratica, non riconoscono al Papa il fatto che egli sia il primate della Chiesa cattolica, il Vicario di Cristo sulla Terra. Ciò è singolare perché proprio il principio di successione apostolica riconosce al Papa questo primato. Il Papa è successore dell’apostolo Pietro, l’apostolo a cui Gesù diede le chiavi. Gesù diede le chiavi solo a San Pietro. Questo fa sì che il Papa abbia un primato sugli altri vescovi.
Inoltre, vi è anche la dottrina. Prendiamo, ad esempio, William Kamm, il vescovo
australiano che è ha definito illegittimo l’attuale Papa Benedetto XVI, si è eletto
Antipapa e si fa chiamare Pietro II il Romano. Questi ha affermato di avere visto Dio e la Vergine Maria (che gli hanno mostrato visioni apocalittiche) e ha abolito il celibato ecclesiastico (cosa che è d’obbligo per la Chiesa cattolica latina) e ha istituito i “matrimoni mistici”, una sorta di poligamia.
Praticamente, questa è gnosi allo stato puro e, come dice il buon Filippo Giorgianni, la gnosi è il volto presentabile del satanismo. Io credo che questo
“pseudo-tradizionalismo” nasconda solo sentimenti perversi ed egoismi.
Cordiali saluti.
Intendere i testi del Concilio Vaticano II e i loro contenuti in perfetta continuità con la Dottrina cattolica tradizionale (tale è per sua natura divinamente garantita: del che essi testi costituiscono la conferma più lampante), e intenderne gli arricchimenti che lo Spirito Santo vi ha apportato per le esigenze della missione nel mondo contemporaneo, è la cosa più facile da farsi per chiunque, non essendo del tutto illetterato, e anche senza essere teologo, si dia pena di leggerli e meditarli. Non per nulla, per aiutare tutti a tale comprensione nell’Anno della Fede, il Papa ha caldamente consigliato di buttare nel cestino tutti i testi “sul” Concilio per accostarsi direttamente alla sua “lettera”, ancora meglio aggiungendo lo studio del Catechismo della Chiesa Cattolica.
Per fare un solo esempio, se si legge il testo del Dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, è impossibile per qualsiasi persona onesta e raziocinante non intenderne la stupenda dottrina completamente opposta alle ideologie immnentiste e relativiste negatrici della Verità sempre condannate dal Magistero, e il profondo legame tra la Verità e la libertà, la prima condizione e garanzia della seconda per ogni persona su questa terra, e per il suo diritto di conoscere Cristo attraverso la Santa Chiesa e a Lui aderire. Ugualmente non si può non capire che gli sviluppi dottrinali esplicitamente apportati dalla Dichiarazione, attraverso il superamento di certe formulazioni dottrinali del Papi precedenti circa il diritto di libertà civile dei culti, ineriscono ad aspetti contingenti della dottrina sociale legati alle forme storiche variabili del potere secolare; restano interamente radicate nel Depositum fidei e nella Tradizione Apostolica, e il rigettarle significa compromettere e danneggiare la perenne missione della Chiesa nel nostro tempo.
Gli spregiatori della libertà e della Verità, oggi come sempre, fanno il gioco dei nemici della Chiesa, e il meno peggio che si possa pensare di loro, a partire da Lefebvre, è che siano stati sopraffatti dallo “spavento” provocato dal “fumo di Satana” che ha oscurato il messaggio del Concilio, spavento che li ha sopraffatti a causa di deficit di Fede.
Detto questo, mi sia concesso, per concludere, dare due piccoli suggerimenti a quanti continuano pericolosamente ad arrampicarsi sugli specchi alla ricerca disperata di “contraddizioni” che possono solo fare danno.
Il primo suggerimento è di studiare bene i punti da 103 a 120 del Catechismo Tridentino (meglio ancora cercando le corrispondenze nel Catechismo universale del 1992) per capire bene che cosa vuol dire esattamente, compiutamente e praticamente “Credo la Chiesa”.
Li trovate qui: http://www.maranatha.it/catrident/13page.htm
Il secondo, se avete passione per storia, è di approfondire un aspetto delle origini dello scisma lefevriano, segnatamente riguardo agli ambienti e circoli ateistici, gnostici e anarco-tradizionalisti che diedero la spinta forse decisiva, per esempio raccolti attorno a Vittoria Guerrini alias Cristina Campo.
Uno spunto lo trovate qui: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/weil/vassallo.htm