domenica 28 aprile 2013

Il Vaticano II: un concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica

  
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Il Vaticano II: un concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica Editoriale di Fides Catholica 2 (2010), di P. Serafino M. Lanzetta.

 L'editoriale è una riflessione sul Vaticano II quale concilio pastorale. Tiene conto delle problematiche che in questo tema si intrecciano, ed echeggia anche i recenti lavori del convegno sul Vaticano II, organizzato a Roma dai Francescani dell'Immacolata (16-18 dicembre 2010).Chi è interessato a richiedere la rivista, può scrivere alla direzione di Firenze: fifirenze@davide.it oppure
alla Casa Editrice: cm.editrice@immacolata.ws



 

Il Seminario Teologico “Immacolata Mediatrice”, dei Francescani dell’Immacolata, ha organizzato un convegno di studi sul Concilio Ecumenico Vaticano II, nei giorni 16-17-18 dicembre 2010, presso l’Istituto Maria SS. Bambina di Roma. Mossi dal discorso del S. Padre alla Curia Romana (22 dicembre 2005), in cui il Pontefice rilevava che nel post-concilio due ermeneutiche si erano tra loro scontrate: quella vera della «continuità nella riforma» e quella che ha seminato confusione perché privilegiante lo spirito, il fattore “evento”, a scapito della lettera, quella cioè della «rottura», ci si è prefisso di esaminare il Vaticano II e di mettere in luce la sua natura e il suo fine peculiari, entrambi di carattere pastorale. Certo, non per svalutare il Vaticano II – non era in discussione la sua legittimità e cattolicità –, ma al fine di mettere meglio in luce quest’unicum che caratterizza un Concilio Ecumenico: non voler dichiarare nuovi dogmi o insegnare in modo definitivo ed infallibile, ma prefiggersi di dire la dottrina di sempre al mondo di oggi; con accenti nuovi, espressioni nuove, ma la fede di sempre, in modo pastorale. Così si espresse Giovanni XXIII nel Discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962):
«Questo massimamente riguarda il concilio ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace» .
Il Vaticano II, indubitabilmente, come conviene ad un concilio, ha portato notevoli progressi nel campo dogmatico: nel suo svolgersi, soprattutto con l’impronta ecclesiologica datagli da Paolo VI, si formularono asserti magisteriali “nuovi”, nella continuità dell’unica Tradizione. Basti rammentare il concetto di collegialità inserito nel contesto della Chiesa comunione, un maggiore approfondimento degli elementa Ecclesiae, per i quali le altre confessioni cristiane sono ordinate all’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ecc.
Papa Montini, nel suo discorso di inizio della II sessione conciliare (29 settembre 1963), richiamava anzitutto la volontà istitutrice pastorale del suo predecessore, definendola e spiegandola con le seguenti parole:

«Ma a questo più nobile scopo del Concilio hai unito anche l’altro, quello cosiddetto pastorale, che al presente sembra più pressante e più propizio del primo . Hai infatti ammonito: "Il nostro lavoro non consiste neppure, come scopo primario, nel discutere, alcuni dei principali temi della dottrina ecclesiastica", ma piuttosto che essa "sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi" (AAS 54 (1962), pp. 791-792 [p. 1101.1103]). Hai anche confermato l’opinione che, negli elementi di cui è costituito il magistero ecclesiastico, la dottrina cristiana non verte soltanto nell’analizzare la verità con la ragione che la fede ha illuminato, ma anche nella parola che genera vita ed azione; e che l’autorità della Chiesa non deve consistere esclusivamente nel condannare gli errori che la deturperebbero, ma deve anche promulgare documenti positivi e costruttivi, di cui essa è feconda. Se dunque il compito del magistero ecclesiastico non è né solamente speculativo né soltanto negativo, è allora necessario che in questo Concilio esso manifesti al massimo la forza e la potenza della dottrina di Cristo, che disse: "Le parole che vi ho detto sono spirito e vita" (Gv 6,64)» .
Dopodiché, Paolo VI – sempre in detto discorso –, elenca e spiega gli scopi del concilio, riassunti in 4: 1) definire più precisamente il concetto di Chiesa; 2) il rinnovamento della Chiesa cattolica; 3) la ricomposizione dell’unità fra tutti i fedeli; 4) il dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo. Ancora una volta, ritorna il concetto di “pastorale” ma spiegato dal Papa Montini, con le parole di Giovanni XXIII, come lo scopo stesso del Magistero della Chiesa:
«Noi non dimenticheremo in nulla le norme che con sapientissima intuizione sono state tracciate da Te, primo Padre di questo Concilio, e che qui è utile rievocare: "Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro – ossia la dottrina cattolica -, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli". Di conseguenza "si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale" (AAS 54 (1962), pp. 791-792 [p. 1101.1103])» .
Paolo VI, nell’allocuzione all’ultima sessione pubblica del Concilio (7 dicembre 1965), confermava lo statuto pastorale fontale del Concilio, sebbene questo non avesse precluso la strada ad un approfondimento dogmatico e dottrinale. Riportiamo ancora le sue parole:
«Ma una cosa giova ora notare: il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, alla quale il ricorso alla esperienza vissuta e l’impiego del sentimento cordiale dànno più attraente vivacità e maggiore forza persuasiva: ha parlato all’uomo d’oggi, qual è. […] Ma chi bene osserva questo prevalente interesse del Concilio per i valori umani e temporali non può negare che tale interesse è dovuto al carattere pastorale, che il Concilio ha scelto quasi programma, e dovrà riconoscere che quello stesso interesse non è mai disgiunto dall’interesse religioso più autentico, sia per la carità, che unicamente lo ispira (e dove è la carità, ivi è Dio!), e sia per il collegamento, dal Concilio sempre affermato e promosso, dei valori umani e temporali, con quelli propriamente spirituali, religiosi ed eterni : sull’uomo e sulla terra si piega, ma al regno di Dio si solleva» .
Qui però ci si consenta una riflessione. La pastoralità, nel suo insieme, viene vista giustamente come il fine del Magistero: il dogma spiegato e incarnato. Si sa bene però che sebbene la pastorale sia sempre il fine della dogmatica, non si identifica con essa. Non si può fare una dogmatica pastorale, ma solo applicare in modo pastorale il dogma hic et nunc. Una delle interpretazioni post-conciliari surrettizia, a nostro modo di vedere, ha trovato in questa volontà dei Pontefici del Concilio – chiara e da leggersi in linea con la fede di sempre nello sforzo di renderla comprensibile oggi – uno sprone a formulare invece la sostanza della fede in modo pastorale per un fine dogmatico, e questo per sposare supinamente ed allegramente il dato delle acquisizioni moderne nei vari campi dello scibile: dall’evoluzionismo al comunismo; dal filantropismo alla negazione della Chiesa: Cristo sì ma la Chiesa no. Era necessario aggiornarsi a 360°. L’ilarità e la fiducia hanno prevalso su un’attenta analisi critica della modernità. Pastorale è diventata l’indole della teologia, sì da dire cose nuove – a volte senza preoccuparsi tanto della loro fondatezza nel dogma e della continuità col Magistero – anche sostanzialmente nuove, in ragione dell’approccio contingente del metodo pastorale. Pur di dialogare con il mondo, ad esempio, si è preferita la filosofia prevalente nella modernità, agnostica e scettica quanto al mistero, dubbiosa e formalmente fenomenica: il mondo, in tal modo, avrebbe capito meglio il messaggio di Cristo. È risultato però che il mondo è entrato nella Chiesa, largamente, ma la Chiesa è ancora fortemente combattuta dal mondo.
Spesso, purtroppo, presi dal fervore del nuovo, quando non addirittura da un accecamento storicista, si è dimenticato di considerare che il Vaticano II non si identifica con la Tradizione della Chiesa, non è il suo fine: questa è più grande, mentre il Concilio ne è un momento espressivo e solenne; si dimentica poi il suo carattere magisteriale ordinario, sebbene espresso in forma solenne dall’Assise conciliare, e l’assenza di pronunciamenti infallibili; si dimentica, infine, che i documenti del Vaticano II – a differenza di Trento e del Vaticano I, ad esempio – sono distinti in Costituzioni, Dichiarazioni e Decreti, e pertanto non hanno tutti il medesimo valore dottrinale, rimanendo pur sempre chiara e fontale l’attitudine generale del Concilio, di insegnare in modo autentico ordinario.
Paolo VI, infatti, nell’Udienza Generale del 12 gennaio 1966, dovette ricordare che,

«bisogna fare attenzione: gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della dottrina cattolica; questa è assai più ampia, come tutti sanno, e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la sviluppa…»
Richiamandosi poi alle Notificazioni del Segretario Generale del Concilio, del 16 novembre 1964, aggiungeva:
«…dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti» .
Dove si annida, però, quella volontà di far risultare il Vaticano II come «un nuovo inizio a partire dal nulla», sì da diventare un «superdogma», mentre esso in verità «escogitò di rimanere in un livello modesto, come un semplice concilio pastorale» (Cardinale J. Ratzinger, Discorso ai Vescovi del Cile, 13 luglio 1988)? A nostro modo di vedere, una della cause è lo stesso lemma “pastorale”, che nella stagione post-conciliare ha subito notevoli trasformazioni: un ricco approfondimento accanto però ad una voluta equivocità. Si è verificata un’inversione: la pastorale è divenuta la vera dogmatica, mentre la dogmatica è stata superata in nome della pastorale. Per molti l’unico concilio dogmatico è il Vaticano II, mentre quelli precedenti sarebbero superabili in nome del nuovo concetto di “pastorale”, che nella categoria “evento” o anche “prassi”, compendia e sorpassa a livello esistenziale la discontinuità dogmatica causata in precedenza dalle definizioni di fede e la stessa reticenza nei confronti del mondo; per altri il Vaticano II, in quanto semplicemente pastorale, sarebbe sic et simpliciter inoffensivo, se non addirittura da cancellare con un colpo di spugna, ignorando però che il mistero-Chiesa rimane identico nel fluttuar degli eventi, in ragione dell’assistenza dello Spirito Santo e della vigile premura del Magistero. Il problema è molto delicato e richiede un esame attento, critico e ragionato, partendo dalle fonti e non dai sentimenti. Qual è la mens del Concilio? Dove si evidenzia? Non si può pertanto prescindere dai documenti e dallo stesso iter storico-dottrinale che ha portato alla loro promulgazione.


Notificazioni fatte dall'Ecc.mo Segretario generale nella congregazione generale 123.a il 16 novembre 1964

È bene, prima di inoltrarci in una presentazione del problema “Vaticano II”, richiamare subito una notificazione inserita in chiusura di Lumen gentium, in modo da avere subito chiaro il valore dottrinale e magisteriale del Concilio così come espresso in sede conciliare.

«È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla chiesa e sottoposto alla votazione.
La commissione dottrinale ha dato al quesito sulla valutazione dei Modi riguardanti il capitolo terzo dello schema sulla chiesa questa risposta:
“Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute”.
In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua Dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:
“Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali.
“Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica”» .


Il Vaticano II un concilio pastorale: in che senso?

Lo scopo del Concilio è ravvisabile nel dialogo con il mondo moderno e l’aggiornamento della Chiesa secondo le richieste giuste della cultura moderna in modo da, come scrive M. Toso,

«realizzare un nuovo e fruttuso rapporto con la modernità. Si tratta di un rapporto di fede e ragione, emblematico per l’oggi…Grazie ad un’ermeneutica della riforma, il Concilio ha, in particolare, ridefinito il rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, continuando ciò che si era fatto nel Novecento. […] Il passo compiuto verso l’età moderna non è stato una capitolazione rispetto a certi suoi errori, bensì un “sì” a ciò che aveva di positivo, ripensandolo e risignificandolo entro un altro quadro culturale» .
L’equivoco, che ha causato una crisi di fede, che è una crisi della Chiesa nella sua essenza divino-rivelata, a nostro giudizio, gioca sulla pastoralità del Concilio. Essa non è messa in dubbio, né dai negatori né dagli osannatori del Vaticano II, ma è maldestramente interpretata, sì da diventare il cavallo di Troia per un ingresso abusivo e talvolta privatistico nell’impianto della fede e della Tradizione della Chiesa. G. Ziviani, riflettendo sulla pastoralità del Concilio, diceva che, l’aggettivo pastorale:
«infatti, programmatico per Giovanni XXIII che convocò l’assise, fu recepito come tale dai padri e risuonò infinite volte sulle loro bocche, sia in aula che nelle commissioni. Ogni gesto volle ispirarsi a quel criterio […]. Con il passare degli anni, la rilevanza teologica di questo concilio “pastorale” è andata via via crescendo e quella che storicamente voleva essere la prosecuzione del Vaticano I – significata già nella scelta del nome – e l’“aggiornamento” della Chiesa, in realtà si è tradotta nella graduale riformulazione di tutti i trattati teologici, costretti ad abbandonare le vie della manualistica e dell’apologetica, per un ritorno alle fonti vive della Scrittura e della Tradizione» .
Così Ziviani, propone la categoria della “Chiesa madre” quale categoria-sintesi per una teologia pastorale rinnovata all’insegna del Concilio, che sviluppi propriamente il dato ecclesiologico e teologico, in quanto tali .

Purtroppo, però – per una “pastoralizzazione” della dogmatica? – la pastorale è diventata il modo pratico (spicciolo talvolta) di avvicinare la fede, di interpretarla, di proporla alle genti e anche di manipolare i suoi dogmi, richiamandosi in modo scorretto alla Tradizione vivente della Chiesa. La Tradizione in quanto vivente autorizzerebbe a proporre diversamente il dato di fede, non più nell’omogeneità del quod ubique, quod semper quod ab omnibus creditum est, intesa come confronto dialogico tra identità e sviluppo dogmatico. La fede è cambiata e può cambiare in nome di un approccio pastorale, quello che la Chiesa insegnava prima sembra non aver oggi nessun valore, in nome dello spirito del Concilio, ovvero del nuovo metodo teologico: quello pastorale. Due sono i termini che sono divenuti equivoci: “pastorale” e “Tradizione vivente”. La Tradizione sarebbe vivente quando è interpretata in modo pastorale per vivere oggi la fede, che per essere attuale e in dialogo deve rinunciare a quello che si credeva prima. Dicendo le cose in modo nuovo (ma in questo modo) si è finiti col “credere in modo nuovo”. Tanti non credono più nell’infallibilità del Papa, nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, nell’escatologia di sempre, col giudizio vero, nel purgatorio, inferno e paradiso; il sacerdozio ministeriale è per tanti una guida dei fedeli sulla base di un comune sacerdozio che affratella tutti e tutti sono uguali. Il peccato è solo una reminiscenza di un passato vergognoso della Chiesa e purtroppo questa vergogna ora è sulla faccia di tutti, a causa di un peccato venuto allo scoperto per altre vie. Questa triste situazione era già vista da H. de Lubac, che con amarezza, dopo il Concilio, si chiedeva: «La Chiesa cattolica stessa resterà in mezzo agli uomini testimone di Dio, oppure diventerà una società antropocentrica?» .

“Pastorale”, infatti, è una categoria che ha generato abusi, come denunciato ad esempio da R. Laurentin. Questi fa notare, che la categoria pastorale, mentre nella I sessione del Concilio significava

«il bisogno di restaurare il legame tra vita ed eternità, tra dottrina e salvezza, rimanendo comunque sul generico e sul vago, nella seconda sessione, alcuni caddero nell’errore di considerare il termine “pastorale” come contrario a “dottrinale”; così la “collegialità” gerarchica e l’amore matrimoniale appartenevano al campo “pastorale”, non a quello “dottrinale”» .
La categoria della pastoralità del Concilio è per lo più l’ingresso della categoria “storia” nell’atrio della fede rivelata, per leggere il Concilio e la fede di sempre alla luce del Concilio, ovvero alla luce delle esigenze e della prassi concreta. Il Concilio per alcuni sarebbe il momento storico dell’ingresso della storia nella fede e in questo in ragione della pastoralità.
Scrive il gesuita P. J. Rosato:

«I tentativi già menzionati di collocare la metafisica classica nel nuovo contesto storico riguardano non soltanto il concetto principale (l’essere inteso come evento), ma anche il suo corollario: che l’essere cioè, specie nella sua manifestazione umana, si esprime come dialogo» .
Il gesuita M. Simone fa sua, sempre in questo contesto, la visione di W. Kasper e dice:
«L’ontologia che pervade il documento (Lumen gentium) – precisa Rosato – sorge comunque ‘dall’esperienza cristiana e prende molto sul serio la storia umana, intesa come il luogo nel quale si manifesta l’essere di Dio e quello dell’uomo’. Con W. Kasper possiamo dire che “l’essere diventa evento nella storia”» .
Soprattutto K. Rahner si è distinto nel mettere in luce il nuovo significato di “teologia pastorale”, ancorato strettamente alla prassi, e in questo senso appaiato a quello di teologia politica . Rahner, infatti, vuole svincolare la pastorale dal solo significato originario di disciplina che incarna il dato dottrinale, per darle quasi uno statuto di “scienza-specchio” della teologia in quanto tale, di disciplina volta a verificare l’operato del teologo. Scrive:
«Se la prassi è vista solo come concretizzazione di certe “idee” in un materiale spazio-temporale, che rimane indifferente, allora anche la T.P. può essere compresa come la direttiva per l’esecuzione dei contenuti della rivelazione, cioè della teologia dogmatica e della teologia morale, dati appunto come idee. Ma se questa concezione di fondo viene contestata da un’antropologia profana e da una migliore comprensione della rivelazione, intesa come storia, allora la teologia pratica, anche se teorica, non sarà più vista come originata dalla teoria teologica»
Là dove, secondo Rahner, la teologia non sarà più vista come riflessione sul Depositum fidei, consegnato alla Chiesa con la morte dell’ultimo apostolo, ma sarà vista come teologia della promessa e della speranza, come teologia storica del futuro di Dio, allora acquisterà notevole valore anche la teologia pratica. In altre parole, Rahner ci dice che la teologia non dovrà solamente ricavare i dati della sua indagine dalla dogmatica e dalla morale, ma dall’antropologia profana, che sarà il metro con cui misurare oggi l’evento della fede. Per questo, a dire di Rahner, le discipline che dovranno stare maggiormente a cuore al pastore, sono, oltre alla pastorale, anche un’antropologia teologica , tema che con Rahner entra nella teologia, fino a segnare un accantonamento decisivo dal trattato De Deo creante et elevante. Per Rahner la pastorale è, in questa dialettica storica, in cui ha una priorità la ragion pratica intesa come libertà, «il principio organizzativo intrinseco ed estrinseco di tutta la teologia» .

Non si radica in questa nuova visione, in qualche modo, l’assorbimento del dogma nella prassi e la possibilità della sua relativizzazione storica? La riformulazione dogmatica della fede, a cominciare dall’anno zero del Concilio, ma per la via del fare, della prassi? Non è derivata da questa visione una teologia politica, presto interpretata come teologia della liberazione?


Epifanie teologiche della pastoralità del Concilio. Rapido sguardo d’insieme

  1. La volontà del suo istitutore, papa Giovanni XXIII. Il Concilio definisce i suoi contorni teologico-dogmatici con Paolo VI che dà una svolta ecclesiologica all’assise conciliare (il che non piace alla Scuola Bolognese, in quanto accadrebbe una specie di dogmatizzazione dell’evento).
  2. Il Concilio arriva al dogma partendo dalla preghiera, dalla vita liturgica. Si avvia una riforma della liturgia – esigibile per altro in ogni tempo – in modo dogmatico o pastorale? Pastoralmente dogmatico, forse è la risposta. Il binomio lex orandi – lex credendi, formulato da Prospero d’Aquitania come legem credendi lex statuat supplicandi, sembra propendere più per la liturgia norma della fede che per la fede norma della liturgia (come aveva detto Pio XII nella Mediator Dei, n. 48: Lex credendi legem statuat supplicandi). Attraverso la preghiera si è raggiunta – o si è cercato di raggiungere – la fede della Chiesa: questo è il primo moto d’inversione della logica della fede ed il trampolino di lancio per poi giustificare l’approccio al dogma mediante il vissuto, cioè mediante la pastorale? Non è in discussione certo la riforma liturgica, ma il modo in cui è stata approntata; modo che è diventato un farwest subito dopo. È qui, in ultima analisi, che la creatività e lo spontaneismo liturgici hanno il loro humus.
    S. Agostino aveva detto: «Crediamo per pregare e se vogliamo che la fede con la quale preghiamo non venga meno, dobbiamo pregare. La fede fa germogliare la preghiera, in quanto da quella germogliata attinge la fermezza della fede» (Sermo 115).
  3. Nelle sue affermazioni centrali riprende il Magistero precedente (soprattutto Pio XII) apportando qualche novità (LG: subsistit in; DV Traditio più interpretativa che costitutiva), ma l’intento centrale è il dialogo ad extra, particolarmente col mondo. Di qui le dichiarazioni classiche di natura pastorale che nel post-concilio hanno preso particolarmente corpo: ecumenismo, dialogo interreligioso e libertà religiosa.
  4. Lo stile adottato nei documenti è biblico e narrativo, non scolastico, definitorio. La teologia post-conciliare infatti ha dato grande adito a ciò sviluppando una simbolica teologica. Questo modo di espressione rimanda per sé ad una “mens Sanctae Synodi” (assente in qualche modo anche nel contesto dell’intero Concilio, in ragione del suo stile) che si può ricercare solo facendo ricorso all’interpretazione ordinaria del Magistero. Come il Magistero dei Pontefici, e del Pontefice collegialmente unito a tutti i Vescovi, ha recepito il Vaticano II?
  5. Il fatto che diverse volte il Magistero si sia visto obbligato ad intervenire per chiarire le posizioni teologiche del Concilio, manifesta la pastoralità dei suoi documenti nel loro insieme, una pastoralità fontale che implica uno sviluppo dottrinale-teologico, o purtroppo, a causa degli abusi e della rottura, una regressione dottrinale della teologia. Il Concilio nel suo insieme è pastorale e in modo pastorale affronta le verità dogmatiche della fede, sì da spiegare, da un lato, l’imprecisione teologica di diverse sue affermazioni (si pensi a PO 16 sul celibato), per le quali si è esigito o si continua ad esigere un intervento chiarificatore (si pensi al subsistit in, all’ecumenismo, alla morale, alla liturgia) dall’altro lato, un tentativo di approccio ad extra più discorsivo e meno dogmatico-definitorio. Alcune teologie errate si sono appellate al Concilio (teologia della liberazione, p. J. Sobrino, p. J. Dupuis). L’interpretabilità del Concilio non squalifica il Concilio, ma ne manifesta la natura pastorale, che richiede, di conseguenza, una corretta interpretazione, in continuità dell’unica Traditio Ecclesiae.

Il Vaticano II: un concilio sui generis?


Potremmo dire che il Vaticano II, perché eminentemente pastorale, è un concilio sui generis, nel senso che è la prima volta che un Concilio viene convocato per parlare al mondo e dire oggi la fede di sempre, facendo leva sull’aggiornamento? Per diverse ragioni sì, ma non nel senso di voler fare del Vaticano II una meteorite e quindi un Concilio da declassare, lasciandolo al bando di una critica dal sapore antiromano e in definitiva antiecclesiale. Non si dimentichi, infatti, che anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), ecumenico anch’esso, come difeso nella tesi d’abilitazione del novello Card. W. Brandmüller, contrariamente al discredito che su di esso circolava, non definì alcun dogma, ma riuscì solo ad emanare quattro decreti, piuttosto disciplinari e poi fu sospeso per contrastare definitivamente il conciliarismo. Fu un Concilio molto importante per preparare poi il Tridentino.

Oggi, però, un altro equivoco spesso ricorrente è la confusione tra dogmatico ed infallibile. Non tutto ciò che è dogmatico è infallibile. Concilio dogmatico non significa per sé infallibile, né tanto meno lo significa concilio ecumenico; come pure concilio pastorale non significa per sé non dogmatico e tanto meno mai infallibile. Dogmatico significa riferimento al dogma della Chiesa, definito o definibile (definitive tenenda): in questi casi la dogmatica è infallibile; ma significa anche riferimento al dogma nei suoi aspetti non infallibili, dottrinali e teologici, quindi in vista di un progresso ulteriore del dato di fede, suscettibili perciò di altri approfondimenti. Non si disprezza il Vaticano II se lo si ritiene infallibile di riflesso, solo quando si richiama a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive tenenda, ma si vuole chiarire la sua natura pastorale, che necessariamente confluisce anche verso la dogmatica. Qui, certo, il discorso si fa più difficile. Pastorale o dogmatico? I due lemmi si intrecciano o si distinguono chiaramente? Il Concilio stesso non riesce a rispondere, tanto meno il post-concilio.

Una sorta di tensione, comunque, tra la pastorale e la dogmatica la si denota già nella fase preparatoria del Concilio. Il Card. Montini, Arcivescovo di Milano, invia una lettera al Segretario di Stato, datata 18 ottobre 1962 (una settimana dopo l’apertura del Concilio), in cui lamentava la «mancata o almeno non annunciata esistenza di un disegno organico…» nel Concilio. Lamentava, in altre parole, i buoni propositi di Giovanni XXIII, ma solo pastorali. Montini proporrà una concentrazione sulla Chiesa come del resto aveva già previsto il Card. Suenens .

Scrive a riguardo G. Palazzini:

«Il Vaticano II ha avuto una finalità nuova, almeno nella sua enunciazione e intonazione, un fine pastorale. È chiaro che anche il Vaticano II si è imbattuto in temi dommatici, perché in fondo ad ogni questione pastorale giacciono una o più questioni dogmatiche; come è vero che ogni formulazione di indirizzo pastorale sfocia in definitiva in una norma. Ma questo Concilio ha inteso affrontare tutto con una visione pastorale: far sì che il tono apostolico ispirasse tutte le sue decisioni e si manifestasse per ogni verso» .
L. Bettazzi, collocandosi sulla linea della Scuola Bolognese, sceglie anch’egli il titolo “Concilio pastorale”, che a suo dire segnerebbe una “discontinuità moderata” da poter affiancare alla continuità di cui parla Benedetto XVI, una continuità che dovrebbe essere anch’essa moderata. Infatti la “continuità radicale” per Bettazzi è rappresentata da chi,
«svalutando il Concilio Vaticano II per la sua qualifica ‘pastorale’ ritiene che esso abbia esaurito il suo compito in un aggiornamento fatto di una più ampia lettura della Bibbia o della liturgia in volgare, mentre le esperienze di comunione (dai Consigli pastorali ai Sinodi episcopali) vanno ridotte al ruolo di consultazioni facoltative, che non intaccano il ruolo fondamentale della gerarchia» .
Bettazzi, però, per chiarire l’apparente contraddizione che nasce da una continuità o discontinuità, si appella anch’egli alla pastoralità del Concilio e dice:
«Ritengo che l’apparente contraddizione possa chiarirsi proprio nella singolare prospettiva di un Concilio ‘pastorale’. Se i Concili ‘dogmatici’ col definire ‘dogmi’ troncavano le contrapposizioni e costituivano dunque quindi ‘discontinuità’ (nel senso che la fissazione per il dopo costituiva una netta diversità rispetto all’ambiguità precedente), un Concilio ‘pastorale’ non rimette in gioco formulazioni dogmatiche e rimane quindi in evidente continuità. Ma questo non toglie che una diversa prospettiva ‘pastorale’ possa portare a vedere le verità di sempre in modo totalmente nuovo da costituire davvero un evento» .
Per il vescovo Bettazzi, il vero problema sembrano i concili dogmatici, come Trento, che definendo le verità della fede e condannando gli errori hanno rappresentato una vera rottura con la vita della Chiesa precedente. Sulla linea della Scuola bolognese, l’evento “Vaticano II” è qui la vera e nuova conciliarità. Senza essere più segno di contraddizione?
Con un’espressione emblematica quanto controversa commentava così Carlo Carretto la grazia del Vaticano II, che aveva fatto cadere le mura di Gerico:

«La teologia divide, fratelli! La mistica unisce, – ed è qui il punto a cui il Concilio ci ha portato – quando ci parla di questo “mistero”. Per questo, non diremo mai abbastanza “grazie” a Papa Giovanni e a Paolo VI, che con il Concilio ci hanno fuso in un’unica realtà mondo e chiesa con elementi di lotta e di liberazione» .
In realtà, uno degli equivoci che ha generato in definitiva la secolarizzazione della Chiesa e la sacralizzazione del mondo è stato proprio questo: una sorta di fusione tra la Chiesa e il mondo. Partiti dalla non contrapposizione, si è arrivati a fare del mondo quasi la categoria chiave della teologia. La pluralità delle filosofie moderne è stata vista come possibilità e validità di una pluralità di “teologie nuove”. Tante filosofie tante teologie, dimenticando però che la teologia è la scienza che studio Dio, l’Uno e il Trino, un mistero che viene dall’alto. Una lucida analisi di questo smarrimento teologico, sì da esser fieri della nascita e dello sviluppo di teologie plurali e a volte anche in contraddizione l’una con l’altra: una teologia della morte come una teologia della prassi o della speranza o della Croce, fu fatta dal più che nonagenario cardinale Pietro Parente, il quale diceva che la crisi della teologia, dipendeva dal fatto che, soprattutto dopo il Concilio, si è accentuata
«la tendenza alla problematica, che invade anche le scuole, dove via via si abbandona il metodo sistematico per inseguire il metodo della ricerca e della monografia. Pian piano S. Tommaso è sostituito da autori personali, amanti più dell’analisi che della sintesi e senza scrupoli si preferisce procedere dall’errore e dall’opinione verso il principio classico della Teologia ufficiale. Risultato di questo metodo è il frammentarismo spesso disorientante e, peggio, una vena di scetticismo riguardo alla verità» .

Una lettura contestualizzata del Vaticano II per capirne la portata e la validità


Il Concilio è da giudicare nell’arco spazio-temporale nel quale si colloca. Si tratta di un tempo tormentoso e conteso tra una speranza di risurrezione nel dopoguerra con l’incentivo materialistico, e la delusione di vedersi sempre più privi di un denominatore comune, che potesse veramente unire senza meramente globalizzare. La cultura annaspa tra un coraggioso sguardo alla modernità, vista non più come nemica e il tramonto della stessa epoca moderna con l’inizio di un’epoca post-moderna e post-cristiana, degenerante presto nel relativismo, quale sfiducia fondamentale nella verità e quindi nel nichilismo. Questa è la lettura che dà ad esempio J. Ratzinger di questo periodo:

«Lo spirito della modernità e la Chiesa non si guardavano più con ostilità, ma camminavano l’uno verso l’altro. Il Vaticano II era cominciato in questo clima ottimistico della riconciliazione finalmente possibile fra epoca moderna e fede; la volontà di riforma dei suoi padri ne era plasmata. Ma già durante il concilio questo contesto sociale cominciò a mutarsi» .
Infatti, ci fu il ’68, che in quanto rivoluzione culturale, significò la rivolta dell’epoca moderna contro se stessa, dice Ratzinger. La società democratica e liberale appariva ora come un carcere. Il risultato così bramato di una ragione capace di autogovernarsi e di autocrearsi, appariva ora come una formula costrittiva, nascondente il pericolo di una schiavitù dell’uomo a causa dell’uomo. L’uomo, invece, voleva essere libero da ogni cosa e anche da se stesso. Così continua Ratzinger:
«La riconciliazione fra epoca moderna e fede, che in qualche modo era stata un’idea conduttrice del Vaticano II, era così messa in discussione nella sua forma concreta. Quell’epoca moderna, con la quale si era cominciato a riconciliarsi non doveva più esserci. La rivoluzione iniziatasi si rivolgeva contro di essa, per realizzare la vera novità, il progresso definitivo. Questo dramma adombrò necessariamente la recezione del concilio e suscitò le note posizioni contrapposte» .
Vi era chi si vedeva in ritardo rispetto al progresso e accelerava sul motore riforma e chi invece vedeva nella resistenza allo stesso Concilio una via di salvezza.

Comunque, le posizioni contrapposte si erano già delineate prima del Concilio, sono presenti nel Concilio e poi permangono dopo, accentuandosi. Il Concilio si dipana in questo periodo di forte crisi identitaria della cultura e della società, in una crisi della verità. Vuole, pertanto, non inferire con altri libelli di condanna e di proibizione, dopo quelli già dolorosi inflitti alla società e all’uomo. Cerca un punto di contatto, un’apertura al nuovo e uno sforzo di far risultare la Chiesa capace di stare al passo con i tempi, giovane e in dialogo con il mondo. C’è una grande speranza che attraversa la grande compagine ecclesiale: la speranza di una nuova primavera per la fede e per la stessa Chiesa, così che continuasse a risvegliarsi nelle anime, adesso tramortite a causa di ideologie, che con l’arroganza del potere, avevano seminato morte e sconquasso. Per tali ragioni il Concilio opta per la pastoralità, che avrebbe potuto barcamenarsi tra il dato di fede e il dato del condivisibile con il mondo e a favore del mondo. Qui però è doverosa una domanda: c’era bisogno di un Concilio per affrontare gli argomenti dottrinali in modo pastorale? Non si potrebbe rispondere a questa domanda, crediamo, senza far riferimento ad una diatriba che percorre il Concilio, lo attraversa ed è presente anche dopo, anche ora: quella divisione tra due modi di intendere la Chiesa: uno quale “Chiesa dal basso” e uno “Chiesa dall’alto”; una Chiesa “mistero-dato” e una Chiesa “mistero-ritrovato”. Non che il Papa optasse per la seconda possibilità e per tale ragione convocò il Concilio, ma nel senso che i dibattiti in aula, evidenziavano, da un lato un desiderio di tener ferma la fede con preoccupazioni (spesso solo) antimodernistiche e quindi dogmatiche, dall’altro, gli auspici di chi pur avendo a cuore queste preoccupazioni, voleva però assecondare il desiderio di cambiamento, di svolta, e l’unica chance risultò quella di dire la dottrina in modo nuovo ma non in modo infallibile, in modo solenne sì ma non definitorio modo. Si tratta allora di fare un’adeguata ermeneutica dell’insegnamento magisteriale? Di valutare separatamente ogni singolo documento del Concilio? Sì è proprio qui, crediamo, che si nasconda un’adeguata risposta alla domanda prima sollevata.

Nel Concilio, nella sua preparazione e nella sua esecuzione, i nodi vengono presto al pettine: come affrontare le dottrine dogmatiche? Come parlarne? Certo non in modo infallibile; ma il linguaggio teologico che ha di mira un fine pastorale non poteva riguardare unicamente tematiche pastorali come Gaudium et spes. Doveva confrontarsi anche con i temi legati al Deposito della fede. Si desiderava un rinnovamento anche teologico e un’apertura alle nuove acquisizione nei vari campi: biblico, patristico, liturgico, storico. La fede doveva progredire, ma il Concilio non voleva assumere un carattere dogmatico, perché sarebbe stato anacronistico. Questi due livelli si incrociano e danno adito spesso ad equivoci. Questo, nella formazione grossomodo di due schieramenti all’interno delle stesse Commissioni preparatorie, come nella stessa aula conciliare, porterà poi ad un garbuglio che si riflette nel post-concilio: uno smarrimento del “mistero Chiesa”. Sembra strano, eppure nonostante che il Concilio abbia insistito sul mistero Chiesa, il post-concilio ha evidenziato una carente visione teologica della Chiesa, bypassando lo stesso tenore del dettato conciliare. Qui si vede che un pre-concilio passando dritto per il Concilio è sfociato con accenti ancora più amari nel post-concilio. Il Concilio ha tentato di arginare questa corrente (soprattutto renana convergente in quella romana: il Reno nel Tevere) ma ha dato anche piena cittadinanza all’approfondimento – non si poteva riprendere sic et simpliciter il dato manualistico e scolatistico di una certa teologia – molto spesso nuovo ma per certi versi tendenziosamente a discapito dell’antico, o letto, in nome della pastoralità post-conciliare, quasi in opposizione ad esso.

Ora, c’è chi si appella alla pastoralità del Concilio per fare iniziare la Chiesa dal Concilio; chi si appella alla dogmaticità del Concilio perché Concilio Ecumenico e così salvarlo dalle dure invettive tradizionaliste, ma col rischio di trasformare tutti i suoi documenti in dogmi; chi infine – come riteniamo che sia più corretto – vede nel Concilio un progresso teologico (dogmatico?, sì ma nel senso di progresso del dogma della fede e non nel senso di infallibilità del dato approfondito in Concilio) da valutarsi con il metro teologico e alla luce della scientificità teologica, in quanto magistero autentico ordinario e non infallibile, suscettibile di miglioramenti, di ulteriori approfondimenti come di verifica di questi quarant’anni o poco più di rinnovamento conciliare.

Quello che risulta ora guardando il mistero-Chiesa, è senza dubbio un fatto: è prevalsa la rottura e il nuovo inizio della Chiesa. Lo vediamo anche da altri effetti collaterali, per così dire: il grande imbarazzo e l’avversione che ha suscitato il Motu proprio “Summorum Pontificum” di Benedetto XVI, la levata di scudi dinanzi alla remissione della scomunica ai Vescovi ordinati da Mons. Lefebvre (perché se bisogna tanto occuparsi dell’ecumenismo, non bisogna tentare anzitutto ogni strada per ricucire le fratture interne alla Chiesa?), un crescente imbarazzo per la proclamazione di Pio XII venerabile. Dinanzi a questi avvenimenti ci si chiede: era questo il senso della collegialità dei Vescovi voluta dal Vaticano II? Non è forse vero che siamo dinanzi allo stesso punto di partenza: come capire ed approfondire il rapporto giurisdizionale tra Romano Pontefice e Collegio dei Vescovi?

Perché però, dopo tutto, ha prevalso la rottura? A questa domanda non si può rispondere senza andare a quel “mysterium iniquitatis” che purtroppo asservisce e regna.
Il Card. Suenens – Padre del rinnovamento pentecostale e non carismatico, come amava definirsi – in un’intervista dichiarò:

«In Concilio ci siamo affidati docilmente allo Spirito Santo, e il Concilio ci ha condotti là dove non volevamo andare, o almeno, non pensavamo di andare…» .
Gesù, invece aveva detto che lo Spirito è come il vento: si sente la voce, ma non si sa da dove viene e dove va (cf. Gv 3,8).

p. Serafino M. Lanzetta, FI

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Concilio Vaticano II
sviluppo delle analisi sotto il profilo storico - filosofico - teologico
<><><> Corrispondenza-confronto
tra P. Giovanni Cavalcoli e P. Serafino Lanzetta

Il dibattito si è aperto il 13 gennaio 2011 con una Lettera aperta - da parte di Padre Giovanni Cavalcoli, OP a Padre Serafino M. Lanzetta, FI - che esprime riserve di ordine teologico sulle questioni sviluppate nel corso del convegno organizzato dai Francescani dell'Immacolata sul Concilio Vaticano II. Padre Lanzetta risponde il 16 gennaio, con una Lettera aperta ricordando che le difficoltà sono riconducibili al modo di intendere il concetto di infallibilità del magistero e quindi all'esercizio magisteriale del Vaticano II, inteso come unicum e declinato nei suoi 16 documenti. Il dibattito prosegue con altri scritti pure pubblicati di seguito. Raccolgo i testi in un unico documento per comodità di consultazione, trattandosi di un'occasione importante per l'allargamento della discussione, che non mancherà di portare i suoi frutti. È bene che si continui a parlarne, ma soprattutto che se ne traggano piste di riflessione e di approfondimento, che non mancherò di registrare, cercando di alimentare il dibattito sul blog Chiesa e postconcilio

 

Lettera aperta di P. Giovanni Cavalcoli a P. Serafino Lanzetta
Carissimo P.Serafino,
 
quanto è stato detto al vostro convegno, e che tu riferisci nella recensione recentemente pubblicata su questo sito, mi trova in gran parte d’accordo:
la necessità di non fare del Concilio Vaticano II una specie di assoluto, salvo poi ad interpretarlo di proprio arbitrio alla maniera modernista, come se esso avesse inaugurato un modello di Chiesa assolutamente nuovo in rottura con la concezione magisteriale precedente; la situazione di grave disagio che stiamo vivendo da molti anni noi cattolici, intralciati ed ostacolati da questa forte presenza modernistica all’interno della Chiesa stessa; il dubbio che non tutto quello che ha detto il Concilio sia veramente saggio e in linea con la Tradizione; la necessità di fare una buona volta chiarezza circa i suoi insegnamenti, onde conoscere veramente il loro valore vincolante e porre termine alle strumentalizzazioni e al doppio gioco dei modernisti.
Detto questo, vorrei però esprimere anche un certo dissenso da quanto è stato detto, continuando un fraterno dibattito che da tempo stiamo conducendo fra noi privatamente e pubblicamente.
Innanzitutto la questione della novità del Concilio. Non c’è dubbio che il Concilio contiene delle novità sia dottrinali che pastorali. Lo riconosci tranquillamente anche tu riprendendo quanto ha detto Mons.Gherardini: “caratteristica del Vaticano II fu quella di trasmettere un insegnamento rinnovato (o forse innovato per certi accenti), in ambito dogmatico e soprattutto in ambito pastorale”.
Il problema è quello di come concepire queste “novità”: rompono col passato o sono in continuità col passato? “I teologi, - tu dici - soprattutto i periti al Concilio, ci dicono che il problema della rottura s’impernia nello stesso Concilio: è lì che hanno fondato la “nuova dogmatica”, la “nuova morale”, che ha avuto successo nel post-concilio, come è lì che hanno radicato, nel solco della Tradizione, il progresso teologico delle dottrine nuove del Vaticano II”.
Tu qui riferisci due tesi opposte. Una che dice che la “rottura” l’avrebbe fatta lo stesso Concilio; l’altra, che dice che il Concilio, nel solco della Tradizione, ha elaborato nuove dottrine stimolando il progresso teologico. La verità è certamente nella seconda tesi, non certo nella prima.
In secondo luogo mi sembra che il convegno non sia stato capace di dimostrare l’asserto del Papa. “continuità nella riforma”. In particolare non avete dimostrato come la novità non è stata una novità di rottura, come sostiene Alberigo, ma una novità nella continuità e nel rispetto della Tradizione.
In terzo luogo il convegno avrebbe dato un contributo più efficace alla questione dell’interpretazione del Concilio e del postconcilio, se si fosse distinto chiaramente l’aspetto pastorale da quello dottrinale. La teoria diffusa secondo la quale il Concilio sarebbe stato solo pastorale non corrisponde a verità. Come hanno detto invece i Papi del postconcilio, esso è stato anche dottrinale e come tale infallibile. La tesi di Don Kolfhaus, secondo cui il Concilio non conterrebbe dottrine infallibili, è molto pericolosa, perché può ingenerare il sospetto che contenga degli errori, cosa per un cattolico assolutamente inammissibile.
E non basta dire con Mons.Gherardini che “il Vaticano II è infallibile nella misura in cui si appella ai precedenti concili dogmatici e a definizioni dogmatiche o quando reitera una dottrina di fede definitiva“, ma bisogna riconoscere con franchezza che anche le dottrine nuove del Concilio sono infallibili, in quanto esplicitazione o sviluppo di dottrine dogmatiche già definite, anche se è vero, come disse Paolo VI, che il Concilio non contiene nuovi dogmi solennemente definiti, come avvenne per esempio con la proclamazione del dogma dell’Assunta o dell’Immacolata.
Ma “infallibilità” non vuol dire altro che assoluta verità in materia di fede; per cui negare questa nelle dottrine di un Concilio ecumenico non è affatto conforme al dovere e al sentire del cattolico. Perché ci sia infallibilità non è necessaria la definizione solenne, ma basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico.

E’ vero che tutto il Concilio è pervaso da un linguaggio pastorale, ed è vero quello che dice Don Kolfhaus che si tratta di una specie di predicazione omiletica somigliante – io direi – a quello che è il linguaggio dei Padri della Chiesa, un linguaggio adatto alla gente comune del proprio tempo. Ora, anche le dottrine dogmatiche sono espresse con questo linguaggio e non con un linguaggio scolastico che fu proprio, per esempio del Concilio di Trento o del Vaticano I.
Tuttavia questa modestia o popolarità del linguaggio del Concilio non deve portarci a sottovalutare il valore dogmatico delle sue dottrine, così come noi accettiamo ogni parola di Nostro Signore Gesù Cristo, anche se Gesù non si è espresso nel linguaggio di Aristotele o di Cicerone.
Per questo un insegnamento come quello, per esempio, circa la libertà religiosa, presente nel Vaticano II, oggi invocato con tanta insistenza e vigore dal Santo Padre, non può non considerarsi un insegnamento infallibile, ossia un insegnamento di fede. Ed altrettanto dicasi per altri insegnamenti nuovi del Concilio. Trovare qui una rottura o una contraddizione con la Tradizione non ha senso, dato che la dottrina di ogni Concilio è sempre una conferma, magari più avanzata e più progredita, ma sempre fedele e coerente, della Tradizione. Ogni Concilio fa fare un passo avanti alla Tradizione. Possiamo dire con il grande teologo domenicano Francisco Marin Sola, oppositore del modernismo, che nel Vaticano II si dà una “evoluzione omogenea del dogma”.
Quindi, giudicare il Concilio “alla luce della Tradizione”, come era nello scopo del convegno, è giusto, ma a patto che si intenda per “Tradizione” non la fase precedente il Concilio, ma quella stessa più avanzata e più progredita, stabilita dalle dottrine dello stesso Concilio.
Questo è il sano progressismo che il Concilio ha favorito e dal quale è stato ispirato, che non ha nulla a che vedere col modernismo, che è una falso e ingannevole accostamento alla modernità ed è un’eresia.
Altro discorso è quello delle disposizioni o degli ordinamenti pastorali. Su questo piano certamente neppure il Magistero di un Concilio è infallibile. Per questo qui al cattolico è concesso esprimere, sempre con prudenza, riserve o critiche. Qui anche un Concilio può prendere provvedimenti meno opportuni o anche errati, che potranno essere corretti successivamente anche da un nuovo Concilio, come la stessa storia dei Concili dimostra.
Per questo, quando si parla di “modernità” bisogna intendersi: è chiaro che se per modernità si intendono gli errori moderni, la modernità non può che essere respinta in blocco. Ma se per modernità, con maggior senso storico e più ampia e concreta veduta, si intende l’insieme delle dottrine dei tempi moderni, dovrebbe essere evidente che nella modernità ci sono anche dei valori, che come tali vanno assunti e integrati nella visione cattolica. E questo è stato uno dei grandi meriti del Concilio, al quale dobbiamo essere estremamente grati. Ciò che invece è da respingere è l’interpretazione modernistica, per esempio l’interpretazione rahneriana della modernità

A proposito di Rahner, mi compiaccio della tua posizione critica nei suoi confronti, che, come sai, è anche la mia. Ma appunto per liberarci dal rahnerismo dobbiamo tener conto dei princìpi e dei criteri che ho enunciato in questa mia lettera, per non prestare il fianco alle critiche e non fare la figura di restare indietro rispetto agli insegnamenti del Concilio, cosa che sarebbe del tutto controproducente e al limite – vedi lefevriani – neppure conforme a un pieno cattolicesimo.
Mi auguro che tu rifletta su queste cose insieme con coloro che condividono il tuo punto di vista. Dobbiamo ringraziare Riscossa Cristiana che ospita questo dibattito tra fratelli di fede, nella comune certezza che il rispettoso leale confronto delle opinioni conduce alla verità.

Padre Giovanni Cavalcoli, OP
Bologna, 13 gennaio 2011
[Fonte:Riscossa Cristiana]
                                                                       
Lettera aperta di p. Serafino Lanzetta a P. Giovanni Cavalcoli

Carissimo P. Giovanni,
 
la ringrazio per la lettera aperta che ha voluto indirizzarmi, la quale mi dà modo di approfondire i temi a cui allude e di spiegarmi meglio. Non dico che la rottura è stata causata dal Concilio: per sé il Vaticano II non può causare la rottura e la continuità allo stesso tempo, «per la contraddizion che nol consente». Dico che alcuni teologi hanno letto i testi come rottura e altri nella continuità. Questo evidenzia due cose:
  1. che si danno due letture teologiche del Concilio (contraddittorie) per il fatto che i testi si lasciano leggere in modo duplice, dato il loro tenore fontalmente pastorale e non definitorio;
  2. questo richiede, pertanto, un criterio ermeneutico a priori corretto per leggere, di conseguenza, correttamente il Concilio: questo criterio è la Tradizione ininterrotta della Chiesa. Quando viene espunta la Tradizione si verifica la rottura. Porto un esempio recente.
Il padre Paolo Cortesi, missionario passionista in Bulgaria, esultava sul suo blog (cf. http://cosebulgare.blogspot.com/2010/12/e-arrivato-il-vaticano-ii-finalmente.html), perché finalmente era giunta in Bulgaria la traduzione dei documenti del Vaticano II. E fin qui tutto bene. Ma, il motivo vero della sua esultanza, consisteva nel fatto che, dopo l’affaccendarsi critico-conservatore di chi pretende di buttare il Concilio nel Tevere (forse si riferisce a noi), in Bulgaria invece era arrivato il vero Concilio. Dopo aver ricordato che il Vaticano II è un dono dello Spirito Santo, il padre passionista si attesta sulle sue peculiarità: «Il Concilio ci educa ad essere non una Chiesa padrona e paladina della verità, ma un Popolo di Dio che cammina nella storia insieme a tutta l'umanità». «Il Concilio ci insegna che la liturgia non è assistere alla ripetizione sacrale dei gesti che compie la casta sacerdotale, ma la celebrazione della salvezza da parte di tutto il Popolo di Dio». «L'ecumenismo non è ricondurre all'obbedienza pontificia i disgraziati scismatici, ma la ricerca di comunione da parte di tutti i cristiani». Infine, ci vien ricordato che il Concilio ha scoperto la Parola di Dio. E tutto quello che la Chiesa era prima? La sua dottrina, la sua vita? Il Vaticano II sarebbe, in realtà, il vero volta-pagina. Qui si vede – è un esempio tra tanti – che una carenza spaventosa del concetto di Traditio Ecclesiae, fa scadere in una visione stranamente dogmatista del Vaticano II. Eppure quegli ambiti rammentati dal padre Cortesi sono quelli che oggi maggiormente soffrono a causa della secolarizzazione.
 
Ma veniamo nuovamente a noi. Il nostro convegno si è attestato non sulla verifica delle nuove dottrine del Vaticano II, ma su un approccio (iniziale e a modo di status quaestionis) di tipo storico filosofico teologico. Quello teologico lo si potrebbe definire “fondamentale”, volto a verificare la natura del Concilio e vederla riflessa nei vari documenti (non in tutti ma nei principali), che sono 16 e sappiamo esser divisi in Costituzioni (di cui solo due godono dell’appellativo “dogmatiche” e presentano un insegnamento dottrinale:Lumen gentium e Dei Verbum), Decreti e Dichiarazioni, con accenti e per un esercizio eminentemente pastorali. C’è una cosa comunque che unisce la diversa tipologia magisteriale del Vaticano II (diversa già in ragione di una distinzione tripartita che compare in questo modo solo nel Vaticano II), ed è il tenore dei documenti: un tenore fontalmente pastorale, di annuncio della fede e non di una sua definizione, che esprime così il fine stesso del Concilio. Così volle Giovanni XXIII, così confermò Paolo VI.
 
Da quanto lei dice, emerge un dato fondamentale, che è il problema-chiave del Vaticano II: qual è l’esercizio magisteriale (complessivo) del Concilio? Lei vede il Vaticano II come ununicum, giustamente, perché un concilio, ma, a mio modo di vedere, si spinge più in là del concilio, quando entra in merito all’infallibilità, non distinguendo nel tutto le sue parti, ovvero i diversi livelli magisteriali del Concilio (stabiliti egregiamente da Gherardini).
 
Mi spiego riassumendo schematicamente lo status quaestionis sull’esercizio magisteriale del Vaticano II, riconducibile a 5 posizioni teologiche:
  1. esercizio del magistero straordinario solenne;
  2. esercizio del magistero ordinario universale;
  3. esercizio del magistero autentico;
  4. esercizio di un magistero omiletico;
  5. esercizio di un magistero differenziato.
Tra questi teologi ve sono anche alcuni insospettabili di conservatorismo o di tradizionalismo (cf.F. Kolfhaus, Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate” [tesi dottorale presso l’Università Gregoriana], Lit, Berlin 2010, pp. 23-34).
 
Fin qui la teologia, che verifica, pur con accenti diversi, un magistero sì solenne (quanto alla forma) ma ordinario (quanto al normale esercizio). Il Magistero stesso, specialmente nella persona di Paolo VI, ha riassunto l’intera portata magisteriale del Vaticano II, definendolo magistero ordinario autentico (cf. Allocuzione del 7 dicembre 1965 e Udienza Generale del 12 gennaio 1966). Ora, il magistero ordinario non è infallibile perché è magistero, sia pur di un concilio, ma solo quando è reiterato e quando appura la definitività di una dottrina di fede o di morale, anche se non definita ma definitiva. L’infallibilità nel Vaticano II è solo di riflesso rispetto a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive; questa infallibilità, sussiste poi solo in alcune dottrine ma non nel Concilio in quanto tale, altrimenti sarebbe stata inutile la precisazione del Segretariato del Concilio per la giusta lettura di Lumen gentium, posta come Nota previa. Riporto i due punti salienti di detta nota che ci riguardano: «Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica» (AAS 77/1 [1965] 72).
 
L’infallibilità si rivela solo nel magistero obbligante tutta la Chiesa, che richiede un atto di fede teologale, in ragione appunto della irreformabilità della dottrina. Per le altre dottrine bisogna tener conto dello spirito (della natura e del fine) del Concilio, e vedere in unità la materia trattata e il modo di esprimersi. Credo sia fuori luogo attribuire sic et simpliciter la definizione di infallibile alle diverse dottrine/insegnamenti del Concilio. Il magistero ordinario perché autentico però rimane vincolante e richiede l’ossequio dell’intelletto e della volontà, pur essendo soggetto ad eventuali revisioni con l’ausilio della teologia, in ragione di una comprensione accresciuta dei dati (si veda su questo il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum veritatis, del 24 maggio 1990, nn. 22-24).
 
Dire comunque che il Vaticano II ha una natura pastorale non è squalificare il Concilio e non significa non riconoscere i suoi insegnamenti dogmatici, ma prevenire un abbaglio, oggi diffuso sia tra i progressisti che tra i tradizionalisti, che porta a leggere il Vaticano II alla stregua del Concilio di Trento o del Vaticano I. Non ci si accorge della peculiarità del Vaticano II, ovvero della sua natura, del suo fine e del diverso tenore magisteriale dei suoi documenti, e si finisce col dogmatizzare tutti i suoi insegnamenti. Questo però è fatale: così, o si fa iniziare la Chiesa dal Vaticano II o si cestina il Vaticano II per far vivere la Chiesa. Il problema rimane fino a quando non ci si decide a tralasciare questa ermeneutica rigidamente tradizionale di approccio al Vaticano II, iniziando a vedere che il nostro concilio è sui generis: inaugura un “nuovo” modo di insegnare e di esser concilio per la Chiesa, modo che darà un’impronta caratteristica al post-concilio: una scelta più pastorale per dire la dottrina di fede della Chiesa. È su questo che ci dobbiamo interrogare.
 
E vengo così ad un ultimo punto, alle novità dottrinali di cui parla. Non sono d’accordo sul fatto che le novità in quanto tali farebbero avanzare la Tradizione. Semmai la comprensione della fede su un piano teologico, ma per il progresso dogmatico è necessaria la definitività della dottrina. Qui leggo un dato simile all’infallibilità: per lei le novità dottrinali sono per sé un avanzamento della Tradizione e pertanto bisogna collocarsi ora dopo di esse per riconoscere la Tradizione nel suo stadio avanzato in ragione del Concilio. Sembra allora che la verifica delle innovazioni non serva o che, se occorra, si pregiudichi la bontà del Concilio. E questo per il fatto che le innovazioni sarebbero infallibili.
 
Invece, a mio modesto giudizio, bisogna collocarsi anche qui su un piano diverso. Non sono le innovazioni che, in quanto tali, fanno avanzare la Tradizione. È piuttosto la Tradizione, che progredendo in ragione del nuovo, in uno sviluppo omogeneo, dà alle cose nuove lo statuto teologico di dottrine o di insegnamenti, in ragione di quanto detto poc’anzi in riferimento al magistero, statuto che può ascendere fino al grado ultimo di irreformabilità. È la Tradizione ovvero la Chiesa-mistero, che accoglie le innovazioni ma al contempo le precede nel suo esserci già, a livello ontologico e cronologico. Questo può apparire un pensiero fissista, ma è quanto dire: c’è prima la Chiesa e poi la sua comprensione, prima Dio e poi l’uomo. Non è per il fatto che siamo di fronte ad un assise conciliare insegnante in modo solenne che avanza necessariamente la Tradizione. Questo certo lo impariamo col Vaticano II, ma neppur possiamo troppo esulare questo concilio dalla tradizione storica dei concili ecumenici. Infatti, anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), non definì alcun dogma ma emanò solo pochi decreti disciplinari. Non di meno però è un concilio ecumenico (difeso dal Card. Brandmüller), ma non per questo si può definire infallibile.

È proprio sul concetto di infallibilità da lei esposto che non mi ritrovo. Lei dice che per avere l’infallibilità «basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico». Allora dovremmo anche dire che, ad esempio, Presbiterorum ordinis insegna in modo infallibile, mentre, in verità al n. 16 c’è una svista storica notevole: sembra che non conosca il dato antichissimo “continenza-celibato”, e mette sullo stesso piano la tradizione latina e la deroga al celibato per i presbiteri della Chiesa greca, deroga nata dopo il trullano, ma in seguito ad un vero imbroglio. Ormai la ricerca storico-teologica è progredita e si dovrebbe provvedere a perfezionare questo passaggio. Faccio anche un esempio al contrario: se Sacrosanctum concilium fosse infallibile, l’attuazione della riforma liturgica, avvenuta spesso e con facilità in deroga allo ius divinum della liturgia, e andando molto al di là di quanto previsto da detta costituzione, sarebbe un’eresia. Si potrebbe dire questo? No, per il fatto che Sacrosanctum concilium non è infallibile ma è una costituzione con una natura pastorale, che apre ai possibili adattamenti.
 
Lei cita poi la Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, definendolo un testo infallibile, dunque dottrinale. Invece, si tratta di in testo che non è né dogmatico né disciplinare, ma contiene norme pratiche di comportamento in materia di libertà religiosa. Questa dichiarazione vuole dare delle norme pratiche e non intende affatto allontanarsi dalla dottrina cattolica sulla libertà religiosa (cf. AS IV/1, 433). Gli abusi, spesso, hanno fatto leva proprio sulla sua infallibilità per accentuare il concetto di libertà religiosa soggettiva, fino a scadere in un relativismo religioso, contro il perenne insegnamento della Chiesa circa il dovere morale di riconoscere la verità e di professarla solo nella Persona del Verbo incarnato. Certo, la libertà religiosa di cui parla il Vaticano II è uno sviluppo del concetto stesso di libertà, che tiene conto del dato della modernità, ma non esaurisce il contenuto della dottrina classica: è un di più, che però necessita della Tradizione per essere compreso, dato il suo fine volto al dialogo con gli uomini.

Vedo una certa frizione tra dottrina e prassi in materia di libertà religiosa, proprio nella sua esecuzione pastorale di Assisi. Non si può dire che Assisi cambia la dottrina della Chiesa in materia di libertà religiosa. Assolutamente no. Ma è una scelta pastorale che deriva dal Vaticano II, da questa dichiarazione e soprattutto da Nostra aetate, per affermare il rispetto e la verità della libertà religiosa di ogni uomo. Al contempo però questa adunanza porta in sé un dato dottrinale: qual è la vera religione? La pastorale che è il fine di Assisi e della Diginitatis humanae, qui, come sempre, incontra la dogmatica: solo Cristo è la verità. Come coniugarle? Il Vaticano II non ce lo dice, ma lascia spazio ad interventi successivi. Il Pontefice opta ora di nuovo per Assisi, pur conscio delle notevoli problematiche sincretiste che ad esso furono connesse in ragione dello “spirito d’Assisi”, da lui denunciato perché funesto quanto lo “spirito del Concilio”. Nessun però potrebbe dire che Assisi cambia la fede della Chiesa nella verità di Cristo unico Salvatore. Se Dignitatis humanae fosse infallibile, non si avrebbe neanche più una certa libertà nella sua attuazione pastorale, il cui giudizio prudenziale spetta al magistero.

In questa tensione tra dogmatica e pastorale nel Concilio, si nasconde, a mio modo di vedere, tutto il problema ermeneutico del Vaticano II. Io per infallibile intendo non-fallibile, irreformabile: allora ben poche sono le dottrine che si possono dire tali.

Direi allora che bisognerebbe leggere “infallibile” nel senso più rigoroso e classico della teologia, mentre il Concilio Vaticano II, quale unicum magisteriale, in modo più flessibile ed articolato, distinguendo i diversi piani, in ragione del progresso teologico verificatosi grazie allo stesso Vaticano II. Gli atti del nostro convegno, che pubblicheremo, ci aiuteranno sicuramente per un discorso più accurato.

Le rinnovo i sensi di stima ed amicizia nei nostri Santi Padri Francesco e Domenico

p. Serafino M. Lanzetta, FI
 
Firenze, 16 gennaio 2011
[Fonte: Chiesa e post-concilio]
                                                                        
La Tradizione contro il Papa - di P.Giovanni Cavalcoli, OP

Per noi cattolici, come si sa, il contenuto del messaggio evangelico, insegnatoci un tempo oralmente da Nostro Signore Gesù Cristo e consegnato agli apostoli e loro successori perché fosse predicato in tutto il mondo, fu già dai primissimi tempi del cristianesimo nel suo insieme messo per iscritto - ed abbiamo gli scritti del Nuovo Testamento come completamento all’Antico -, mentre altre verità non senza rapporto con la Scrittura furono conservate mediante l’insegnamento orale, e ciò costituisce la sacra Tradizione apostolica, detta più brevemente “Tradizione”, parte della quale poi successivamente nel corso dei secoli fu messa per iscritto, senza per questo esser confusa con i testi della Sacra Scrittura. 

Per noi cattolici la conoscenza infallibile del dato rivelato, mediato dalla Scrittura e dalla Tradizione, ci è ulteriormente mediato dal Magistero della Chiesa, continuatore dell’insegnamento degli Apostoli, sotto la guida del Successore di Pietro, il Papa. Vale a dire che il Magistero vivente ed orale della Chiesa ha la funzione, attribuitale da Cristo stesso con l’assistenza infallibile dello Spirito Santo, di trasmettere, conservare, insegnare, interpretare, spiegare, chiarire, esplicitare e sviluppare i dati della Tradizione e della Scrittura. 

Le verità rivelate consegnate da Cristo una volta per sempre agli Apostoli in se stesse sono immutabili perché divine (“cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”) e per questo vanno conservate intatte nei secoli con assoluta fedeltà. Ma nel contempo questo patrimonio di infinita sapienza viene conosciuto sempre meglio dalla Chiesa nel corso dei secoli sino alla fine del mondo, grazie all’aiuto dello Spirito Santo, il quale “rinnova tutte le cose” e per espressa dichiarazione di Cristo, ha il compito di condurre la Chiesa “alla pienezza della verità”. 

Una tentazione che si è verificata nella storia del cristianesimo ed alla quale purtroppo molti hanno ceduto, è stata quella di crearsi la convinzione gratuita ed infondata che per sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato non c’è bisogno di stare agli insegnamenti o all’interpretazione del Magistero vivente ed attuale – per esempio quello di un Concilio -, ma è sufficiente porsi a contatto diretto e personale o con la Scrittura o con la Tradizione. Il primo è stato l’errore di Lutero ed oggi dei modernisti, soprattutto in campo esegetico; il secondo è l’errore dei lefevriani. 

Il famoso, perspicace ed informatissimo sociologo cattolico Massimo Introvigne, in un suo recente articolo, ha giustamente osservato che modernisti, protestanti e lefevriani, per quanto per altri versi in opposizione tra di loro, vengono ad avere nei confronti del Magistero del Sommo Pontefice, soprattutto i Pontefici del postconcilio, il medesimo atteggiamento contrario al vero cattolicesimo, con la differenza che mentre i protestanti da sempre hanno apertamente dichiarato la loro opposizione al cattolicesimo, i modernisti fingono di essere cattolici, ma in realtà sono protestanti, e i lefevriani stranamente vogliono considerarsi cattolici ed addirittura paladini dell’ortodossia cattolica ancor meglio dei Papi del postconcilio e delle dottrine del Concilio Vaticano II, che essi accusano di aver falsato o abbandonato la “Tradizione”.

I lefevriani non si rendono conto che ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa. I lefevriani fanno come chi – mi si scusi il paragone materiale ma rende l’idea - volesse giudicare il valore di un’auto dell’ultimo salone di Torino alla luce di un’auto del 1930.

Avviene così  che come i protestanti pretendono di giudicare l’insegnamento dei Papi alla luce di un contatto diretto e soggettivo con la Scrittura, trovando nei Papi un’infinità di errori, similmente i lefevriani pretendono di giudicare gli insegnamenti del Magistero posteriore al 1962 (come ha osservato lo stesso Benedetto XVI) alla luce di un contatto immediato e parimenti soggettivo con la Tradizione, essi pure credendo di trovare nel Concilio e nei Papi del postconcilio una falsificazione di certi dati della Tradizione. [a proposito della questione con i Lefebvriani, vedi notazioni su uno scritto di P. Cavalcoli a Don Kolfhaus - ndR]

Ora i protestanti, i modernisti ed i lefevriani non si accorgono che con questo loro atteggiamento, per quanto si annoverino tra di loro teologi dotti e dottissimi, finiscono con la pretesa di avocare a sé quel dono di infallibilità che Cristo non ha assicurato né ai teologi né agli esegeti né agli storici della Chiesa, ma ai soli Vescovi, successori degli Apostoli, uniti al Papa e sotto la guida del Papa. 

Da qui la tesi diffusa sia tra i lefevriani che tra i modernisti, secondo la quale gli insegnamenti del Concilio costituirebbero una rottura con quelli del Magistero precedente, gli uni per dispiacersene, gli altri per rallegrarsene, gli uni per svalutare a più non posso l’autorità dogmatica del Concilio, gli altri per fare del Concilio una specie di compendio totale del cristianesimo ad esclusione di tutti gli insegnamenti precedenti, gli uni irrigidendo la Tradizione al preconcilio, gli altri negando valore alla Tradizione. 

Infatti la Tradizione nel senso cattolico, se può essere paragonata, per la sua solidità e certezza, alla “roccia” come Pietro è la “roccia”, tuttavia  non ha l’inerzia della roccia o la rigidezza di un corpo morto, perché essa, come comprese bene il Beato Henry Newman, in quanto prodotto dello spirito, è un essere vivente, che conserva certo la sua identità, ma nel contempo si accresce, si approfondisce e si sviluppa, anche se è vero che il paragone col vivente non è del tutto calzante, perché una proposizione nuova e più avanzata della Tradizione non sostituisce quella precedente come l’età adulta nel vivente sostituisce la giovinezza, ma si aggiunge alla precedente la quale resta valida e vincolante, così come per esempio la cristologia del Vaticano II certo è più avanzata di quella calcedonese, ma questa anche oggi resta valida nel suo insegnamento immutabile. 

L’impressione della rottura possono averla più gli storici del Concilio che non i teologi e se dovessero averla anche questi, sarebbe un fatto grave, perché vorrebbe dire che non sanno vedere la continuità al di sotto del progresso. 

Infatti, mentre è normale per il teologo fare maggior attenzione alle formule definitive o definitorie e quindi fisse cui giungono le discussioni conciliari, lo storico, per sua natura legato al succedersi degli eventi, è portato a guardare con maggior attenzione all’evoluzione dei dibattiti che poi conduce alle conclusioni dottrinali finali ed ufficiali, le sole che valgono dal punto di vista della fede. 

Per questo lo storico che esamina le fasi o le vicende della elaborazione dei documenti conciliari non può non constatare gli effettivi contrasti, anche in campo dottrinale, che sono emersi durante i lavori del Concilio fra conservatori e progressisti, soprattutto fra quei conservatori che si scandalizzavano irragionevolmente delle novità e quei progressisti che tendevano al modernismo. 

Senonchè lo storico, soprattutto se cattolico, non può non prender atto anche delle conclusioni alle quali sono giunti i dibattiti conciliari, conclusioni dove i contrasti sono scomparsi e che appaiono nei testi dottrinali ufficiali, testi che la Chiesa considera definitivi ed irreformabili, come a dire: “infallibili”. 

E qui, ad un attento esame, contraddizioni col passato non esistono. Infatti in campo dottrinale ossia dogmatico un Concilio, secondo la stessa fede cattolica, trattando di materia di fede, non può rompere col passato, non può mutare sentenza, non può esprimere sentenze errate o rivedibili. Un Concilio chiarisce un dato precedente, non lo muta, perché mutare vorrebbe dire oscurare e falsificare. Il che per un cattolico sincero è impensabile e per lo storico onesto non è constatabile. 

Quanto al teologo, se può essergli utile sapere dallo storico come si è giunti alle conclusioni canonizzate nei testi ufficiali per una migliore interpretazione dei testi stessi, deve però guardarsi bene, soprattutto se è cattolico, dal voler ritrovare nei testi ufficiali dottrinali tracce di quelle incoerenze o imperfezioni che lo storico constata con facilità nel materiale che gli viene fornito dalla storia dei dibattiti conciliari precedenti. Così come lo storico non può dare maggior importanza dottrinale ai precedenti contradditori dibattiti rispetto alle conclusioni alle quali è giunto il Concilio con regolari votazioni. 

Quanto ai lefebvriani, per sottrarsi a questo dovere di accettare le dottrine del Concilio, si appigliano a pretesti speciosi quanto inconsistenti. Sono soprattutto due: 1) si dice che il Concilio è solo pastorale e non dottrinale; 2) si afferma che nel Concilio non sono stati definiti nuovi dogmi e che quindi le sue dottrine non sono infallibili. Quindi, conclusione, - essi dicono - possiamo correggere il Papa e il Concilio in base alla “Tradizione”.

A ciò si risponde dicendo che non è vero che gli insegnamenti del Concilio sono solo pastorali, ma si danno, come hanno affermato più volte i Papi del postconcilio, anche insegnamenti dottrinali, come tali infallibili, giacchè perché si dia dottrina infallibile - ossia assolutamente e perennemente vera - non è necessario, come la Chiesa stessa insegna (Vedi Istruzione “Ad tuendam fidem” della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1998), che il Magistero dichiari esplicitamente o solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto si tratti di materia di fede. Questo pronunciamento viene qualificato dalla detta Istruzione come “definitivo” ed “irreformabile”, il che è come dire infallibile. 

Nel Concilio si danno indubbiamente anche insegnamenti di tipo pastorale, che sono anzi la larga maggioranza. In questo campo la Chiesa non è infallibile e, come dalla stessa storia del dogma si dimostra nei fatti, l’infallibilità del Magistero, in quanto esso non si è mai smentito (checché ne dica Küng), parimenti lo storico della Chiesa può agevolmente dimostrare come nel campo pastorale la Chiesa ha commesso errori, che poi hanno dovuto essere corretti. E in tal senso un Concilio successivo corregge gli errori pastorali commessi dal precedente. 

Così non è proibito rilevare errori pastorali nel Vaticano II, che potranno eventualmente essere corretti dal prossimo Concilio. Ma pretendere, magari sotto pretesto di progresso dogmatico, che il Magistero non abbia una dottrina fissa ed immutabile o che nel corso della storia muti parere in fatto di fede o di dogma o che possa sbagliare o correggere errori commessi, è una tesi assolutamente falsa che può essere smentita dagli storici onesti e perspicaci, soprattutto se cattolici, giacchè il cattolico sa per fede che la Chiesa in fatto di dottrina, nonostante certe apparenze contrarie, non può sbagliare, anche se questa certezza può e dev’essere supportata e confermata dalla storia.

 Bologna, 28 febbraio 2011
[Fonte: Riscossa cristiana]
                                                                             

 
Distinguere frequenter. Il Vaticano II e gli assolutismi. In dialogo con P. Giovanni Cavalcoli

 

P. Giovanni Cavalcoli, OP in un recente articolo pubblicato su Riscossa Cristiana, dal titolo La Tradizione contro il Papa, continuava a riflettere sul Concilio Vaticano II, con una volontà precisa di riscattarlo dai modernisti e dai tradizionalisti. Il Padre domenicano, portava a difesa dell'infallibilità delle dottrine del Concilio, il Motu proprio Ad tuendam fidem del 1998. Di seguito gli risponde il P. Serafino M. Lanzetta, argomentando su due cose: 1) non è necessario per accettare il Vaticano II rendere tutte le sue dottrine infallibili; 2) perché una dottrina sia infallibile è necessaria la sua definitività dichiarata dal Magistero, secondo il citato Motu proprio.

Carissimo P. Giovanni,

ho letto i suoi ultimi interventi sul Vaticano II, pubblicati da Riscossa Cristiana. Ammiro la sua infaticabile passione per un argomento così spinoso ma centrale nell’attuale situazione ecclesiale. Mi permetta di rivolgerle qualche domanda e di riflettere insieme con lei, come abbiamo avuto già modo di fare in precedenza. Muoverei da un primo approccio: la situazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. È indubitabile che dopo ogni concilio la Chiesa abbia vissuto momenti di forti turbolenze, in ragione di un riassestamento lento e progressivo della compagine ecclesiale, scossa, normalmente, da errori che la minacciavano, smascherati però dalle definizioni delle verità di fede. Non sono mancate fratture, riacutizzatesi proprio in ragione della chiara ed infallibile posizione dei concili. Mi sovviene quanto si verificò per il Concilio di Nicea. È vero che l’errore subordinazionista, che ammaliava anche vescovi dal calibro di Eusebio, fu sconfitto definitivamente solo con il Concilio successivo di Costantinopoli, definendo la divinità della Spirito Santo, mentre, nel frattempo, gli ariani si muovevano con sinodi ben precisi volti a conquistare dalla loro parte le Chiese. I confini dell’esagitazione ecclesiale però erano ben delineati: da un lato la fede della Chiesa, difesa da S. Atanasio e definita al Concilio, dall’altra l’eresia della non-consustanzialità del Figlio col Padre e di conseguenza un principio di svuotamento del mistero stesso della Redenzione. La cattolicità si stringeva intorno alla stessa fede, mettendo sempre più al bando l’errore dottrinale, che qui si avvaleva dell’accondiscendenza dell’Imperatore. Anche dopo il Concilio di Trento i confini della fede cattolica furono ben presto visibili, e con un’opera di intelligenza pastorale, la Chiesa tornò a risplendere della sua bellezza, graffiata dai suoi figli rivoltosi. Si insegnò che la S. Scrittura e le Tradizioni non scritte sono le due fonti dell’unico deposito rivelato da Dio e consegnato alla sua Chiesa. La Chiesa attinge la sua regola di fede da entrambe, unite nell’unico atto rivelativo, custodite e trasmesse indefettibilmente dal Magistero autentico.

Dopo il Vaticano II, però, si assiste a qualcosa di nuovo: è la stessa Chiesa ad essere colpita da una profonda crisi. Una crisi d’identità. È nel suo interno che si mettono in discussione i dogmi: o li si vuole superare in nome di un meta-dogmatismo o – ciò che mi sembra abbia prevalso – li si vuole arrestare ad ogni costo al Vaticano I, per dare una svolta nuova all’Assise ultima: quella della conciliarità. Che presto diventa neo-conciliarismo.

Lo stesso approccio pastorale del Concilio – che lei dice esser il cavallo di battaglia dei lefebvriani per affossare il Vaticano II – si prestò a svariate letture. Ci fu chi come Y. Congar voleva un concilio pastorale, che non fosse da meno di uno dottrinale e che non si limitasse a definire o ad atomizzare la fede, ma raggiungesse gli uomini del tempo. A questi gli farà presto eco G. Alberigo, il quale dirà che il Concilio pastorale aveva messo in discussione l’ecumenismo dottrinale, fino a far abbandonare la via antiqua per una svolta epocale; chi, poi, come il card. G. Siri, che vedeva proprio nell’elevata enfasi data al lemma pastorale un «equivoco-ombra» per risistemare la dottrina passando al lato della condanna degli errori, ma provocando necessariamente una certa mescolanza. Una misericordia verso gli erranti poteva trasformarsi in una misericordia verso l’errore. Questo in larga parte si è verificato, seppur involontariamente. Riporto una lucida e coraggiosa analisi di questa situazione, fatta dal card. G. Biffi, che dice: «Un magistero che non condanna niente e nessuno – naturalmente con tutta la prudente attenzione alle concrete circostanze e alle esigenze della carità pastorale – è fatale che diventi complice involontario dell’errore e quindi di colui che il Signore Gesù ha chiamato “menzognero e padre della menzogna” (cfr. Gv 8,44)» (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena 2010, p. 53).

Per questa ragione, caro Padre, trovo il suo argomentare un po’ troppo affrettato. Non risponde al vero dire, a mio modo di vedere, che i lefebvriani: solo loro o anche altri?, correggono il Papa e il Concilio in nome della Tradizione – mi sentirei anch’io chiamato in causa, per quanto ciò possa aver peso –, in ragione della pastoralità del Concilio e del fatto che il Vaticano II non ha emanato nuovi dogmi. Questo lo dice anche Paolo VI e con lui in modo particolare Giovanni Paolo II, che ne attuò le istanze più proprie. Si pensi solo alla missionarietà interreligiosa ed ecumenica di questo amato Pontefice.

Mi rendo conto della sua accorata preoccupazione per il Concilio e per le sue dottrine. Il riconoscimento del Concilio: a priori irrinunciabile per ogni figlio della «Cattolica», la spinge però a rendere infallibili tutte le sue dottrine. Giustamente, dall’accettazione delle dottrine dipende l’accettazione del Concilio, ma non necessariamente l’accettazione delle dottrine deve prevederne l’infallibilità perché si accetti il Concilio. Leggo nei suoi scritti, e questo è sicuramente invidiabile, una grande volontà di riscattare il Concilio dai modernisti e dai tradizionalisti. Ma così facendo, ho l’impressione che il “nuovo” del Concilio, che comunque lei riconosce come sviluppo e aggiunta e mai abrogante quello di prima, perché sempre infallibile, debba richiedere necessariamente un atto di fede teologale. Questo vale sempre? In questo modo, però, come si potrà distinguere ciò che è dottrinale da ciò che è pastorale?, cosa che invece lei giustamente vuole fare.

Allora, le mie domande: quali sono a suo modo di vedere le dottrine infallibili del Concilio e gli insegnamenti pastorali fallibili e rivedibili? Riuscirebbe a farne un quadro ben delineato o troverebbe sempre la difficoltà di dover disgiungere il fine e la natura pastorali del Concilio anche dai suoi insegnamenti dottrinali? E se gli insegnamenti dottrinali non sono definiti quindi dichiarati infallibili, in ragione di cosa li si può vedere come tali? Solo in ragione del dato dottrinale nuovo portato dal Concilio o non piuttosto in ragione della Tradizione della Chiesa, metro dello sviluppo dogmatico? Il criterio dell’infallibilità non sta nel dopo, ma nel prima. La Tradizione non dovrebbe essere mai contro il Papa. Se lo è, è perché si è smarrito il suo vero concetto. Pertanto, distinguerei tra accettazione delle dottrine/insegnamenti del Concilio e loro (generale) infallibilità. Accettarle non dipende dalla loro infallibilità, ma dal fatto che sono insegnamenti del Magistero della Chiesa. È la Chiesa la garanzia della loro autenticità. Questo potrebbe aiutarci a liberarci da una soffusa ondata di neo-conciliarismo, quando, ad ogni piè sospinto, si invoca l’autorità dottrinale del Concilio, con un generalissimo “il Concilio dice”, “il Concilio insegna”, ignorando magari lo stesso Magistero post-conciliare. Potrebbe essere anche il modo con cui ci si accosta alle dottrine del Vaticano II, senza prevenzioni dogmatiste, con una libertà, sempre nei confini del vero tracciati dall’Autorità, per verificarne, ad un tempo, il loro ancoraggio al Deposito della fede e lo sforzo della novità in ragione della nuova pastoralità voluta dai Padri.

È vero che il Magistero post-conciliare ha dichiarato a più riprese la continuità delle dottrine conciliari con la Tradizione della Chiesa. Si pensi ultimamente alla Verbum Domini quanto al rapporto Scrittura e Tradizione in Dei Verbum. Ma questo non ci redime ancora, purtroppo, da un angosciante e sordo appello al Concilio e sempre al Concilio. Non sarebbe inopportuno un nuovo Sillabo per mettere in guardia dagli errori declamati in nome del Concilio, con il quale non si chiederebbe alla Chiesa di correggersi ma di correggere gli errori.

Dopo il Vaticano I, ad esempio, non c’era molto da dibattere sul contenuto della Pastor aeternus. Ci furono quelli che lo rifiutarono, ma la Chiesa non dovette ritornare sul suo significato per una sapiente ermeneutica. Invece, si nota una singolarità del Vaticano II, che nasconde un problema ermeneutico di approccio e di lettura degli insegnamenti. Mi convinco sempre più, che più che nelle dottrine del Vaticano II, il vero problema si nasconde nel principio ermeneutico con cui le si legge, tema classico della modernità, postasi proprio come problema gnoseologico. Quel mondo moderno con cui si voleva dialogare ha presentato alla Chiesa il conto della sua principale difficoltà: mettersi in questione per arrivare, solo dopo, alla sua comprensione?

Vengo così all’Ad tuendam fidem (Motu proprio di Giovanni Paolo II, del 1998), che lei cita nel suo ultimo scritto (28 febbraio 2011). Con questo documento, il venerabile Pontefice, si premurava di munire di due paragrafi il canone 750 del CIC (e rispettivamente il can. 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali) per preservare la fede della Chiesa dagli errori che insorgono. Il primo paragrafo di detto canone richiama le cose da credere con fede divina e cattolica, in quanto insegnate infallibilmente dal Magistero solenne o dal Magistero ordinario e universale e contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata (allusione alla due fonti della Rivelazione). Il secondo paragrafo, invece, riguarda l’accoglienza ferma di quelle cose che il Magistero insegna come definitive circa la fede e i costumi. Non si fa però menzione, per appurare l’infallibilità di una dottrina, alla sola “materia” di fede come lei invece dice. Il metro è ancora una volta il Magistero. È interessante notare che questa definitività della dottrina, sebbene di cose non rivelate ma connesse con la Rivelazione e dichiarate tali dal Magistero, fu riconosciuta anche dalla Scuola di Bologna, che all’uscita del Motu proprio, subito s’allarmò con un intero numero monografico di Cristianesimo nella Storia (n. 1, 2000). Si sarebbe così compromessa la voluta scelta del Vaticano II di mettere un certo silenziatore alla Tradizione costitutiva, che ora Giovanni Paolo II, pretendeva rispolverare quanto all’infallibilità di dottrine definitive, insegnate infallibilmente dal Magistero. Si andava così a riprendere un certo modo controversistico e antiprotestante, accantonato dal Concilio. Si ripiombava in una visione dottrinale contro quella propriamente pastorale (vedi ad esempio G. Ruggieri, in Ibid., pp. 4. 103-131: l’unico italiano ad aver firmato il controverso memorandum “Chiesa 2011” dei teologi tedeschi).

Con accenti di rottura, certo, ma anche quest’ermeneutica riconosce che Ad tuendam fidem parla di definitività delle dottrine appurata dal Magistero e dà così piena cittadinanza alla Traditio constitutiva.

Con Benedetto XVI possiamo allora affermare, che «la Parola di Dio si dona a noi nella sacra Scrittura, quale testimonianza ispirata della Rivelazione, che con la viva Tradizione della Chiesa costituisce la regola suprema della fede» (Verbum Domini 18).

Ogni dottrina, anche quella di un concilio, non dovrà mai prescindere da questa «regola suprema».

Con devoti sensi di fraterna amicizia.

p. Serafino M. Lanzetta, FI

 Firenze, 5 marzo 2011
[Fonte: Approfondimenti di "Fides Catholica"]
 


 

  
angolo

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