martedì 9 aprile 2013

mons. GHERARDINI - LA CONTRO-CHIESA -in appendice:"Sugli ebrei, così serenamente"

 
 

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di  Mons.  Brunero  Gherardini
 

Mons. Brunero Gherardini è nato a Prato il 10 febbraio 1925 ed è stato ordinato Presbitero il 29 giugno 1948 a Pistoia per la Diocesi di Prato. Dopo un lungo servizio presso la Santa Sede, prima come officiale dell'allora Sacra Congregazione dei Seminari, poi come professore ordinario d'ecclesiologia nella Facoltà Teologica (di cui è stato anche decano) della Pontificia Università Lateranense, è canonico della patriarcale Basilica di S. Pietro, Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi e membro della Pontificia Accademia S. Tommaso d'Aquino. È il postulatore della causa di beatificazione del Beato Papa Pio IX. Dal 2000 dirige la Rivista internazionale "Divinitas".
 

In questo studio mons. Brunero Gherardini - postulatore della causa di beatificazione del B. Pio IX - si attesta sulla questione ebraica unicamente per lumeggiare le implicazioni teologiche di questo tema per la Chiesa. Non intende per questo essere tacciato di antisemitismo: questo studio non è volto in nessun modo a compromettere i valori del rispetto e della stima verso gli Ebrei, quanto piuttosto a precisare dogmaticamente il loro ruolo nei confronti dell'Alleanza di Dio con il suo popolo e in particolare nei confronti di Gesù e della sua morte. Analizzando i testi, se ne deduce che, seppur condivisa con quella d'altri soggetti (Giuda ed i Romani), la responsabilità degli Ebrei è fuori discussione: non solo "i grandi sacerdoti e gli anziani persuasero il popolo a chiedere (la salvezza di) Barabba e la morte di Gesù" (Mt 27,20), ma la folla stessa urla che "il sangue di Lui ricada su di noi ed i nostri figli" (Mt 27,25). E quando Pilato "se ne lava le mani" e si dichiara "innocente" del sangue di Cristo, rimette ogni decisione alla discrezione degli Ebrei: "Pensateci voi" (Mt 27,24). Il loro verdetto è allora: "Sia crocifisso" (Mt 27,23)! La responsabilità ebraica della crocifissione non è certo inferiore rispetto a quella romana ed a quella personale di Giuda. L'eminente studioso con questo articolo ci offre una profonda riflessione inerente ad una tematica teologica particolarmente delicata, ma che oggi è estremamente importante affrontare, soprattutto senza pregiudizi ideologici.

SUGLI EBREI: COSÌ, SERENAMENTE
La questione ebraica si riaccende spesso e non di rado divampa, assumendo toni d'intolleranza intimidatoria e ricattatoria, per colpa di qualche cattolico estremista, o dei c.d. gruppi fondamentalisti, ma anche - e più frequentemente di quel che si creda - per colpa degli stessi Ebrei.
Sull'argomento intervengo con la stessa serenità con cui, a suo tempo, presi posizione favorevole alla tesi di R. Martin-Achard1 circa «l'universalismo» d'Israele2, e con lo stesso spirito che, ancor prima, da prete novello, m'inclinò verso un'associazione internazionale di preghiere per il mondo ebraico e successivamente verso l'«Amicizia ebraico-cristiana». Spero che tali precedenti allontanino del tutto dalla mia persona il sospetto della prevenzione.
Ovviamente, non intervengo sulla complessità ed i vari aspetti della questione ebraica: non ne ho la competenza, né dispongo dello spazio necessario per un compito di sì vasto respiro. M'auguro pure che nessuno, ragionevolmente dissentendo da quanto sto per dire, veda nella mia posizione un ennesimo rigurgito d'antisemitismo: sarebbe un non-senso, sia perché semitismo ed antisemitismo attengono all'aspetto razziale della questione - al quale mi sento assolutamente estraneo - sia perché l'interesse teologico, l'unico dal quale son mosso, trascende i limiti della razza e perfino della stessa natura: "Non est Judaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus neque femina" (Gal 3,28).
L'aspetto della questione ebraica che desidero metter a fuoco ha due lati: l'uno si ricollega direttamente alla morte di Cristo, l'altro alla continuità/discontinuità tra sinagoga e Chiesa, o meglio tra religione ebraica e Cristianesimo.
1 - Gli Ebrei e la morte di Cristo - Da quando il mondo intero poté assistere al film The Passion di Mel Gibson, è passato del tempo: quel tanto ch'era necessario per parlarne liberi dal forte impatto emotivo che la pellicola ebbe sulle coscienze dei vari spettatori. Tra le reazioni più intransigenti, ed in qualche caso anche scomposte, emersero quelle di provenienza ebraica. La ragione di esse discendeva dalla sostanziale aderenza del film ai dati storici del Nuovo Testamento. E poiché codesti medesimi dati collegano la crocefissione di Cristo alla parte in essa sostenuta dagli Ebrei, dal mondo ebraico si sollevarono, e tuttora si sollevano, alte proteste. Televisioni giornali e riviste di tutto il mondo, a più riprese, ne misero in evidenza i momenti salienti. In uno di questi era visibile in primo piano un cartello con la seguente scritta: The Passion is a lethal Weapon against Jews3.
L'impressione, ampiamente confermata da tali reazioni, è che l'Ebreo d'oggi veda un po' in tutti, dovunque ed in tutte le direzioni attacchi letali all'immagine dell'Ebraismo. È poi un fatto innegabile che si è ben al di là dell'impressione dinanzi all'accusa lanciata contro la pellicola di Mel Gibson dall' "Anti-Defamation League" - un organismo operante ormai dal 1913 all'ombra e per iniziativa della potentissima B'nai B'rîth4. L'accusa si fonda sulla negazione della storicità degli Evangeli, fonte primaria di Mel Gibson, nonché sul presunto ripudio da parte cattolica sia di Nostra aetate, erroneamente definita enciclica, sia della "dottrina papale degli ultimi decenni"5.
Gravissima è la parte dell'accusa che destituisce gli scritti neotestamentari di validità storica. Ancor più grave è che cattolici più o meno rappresentativi se ne faccian difensori e portavoce. Costoro dimenticano - voglio sperare che non lo faccian di proposito - le conseguenze deleterie che ne deriverebbero sul dogma cattolico in genere, ed in specie sui dogmi dell'incarnazione, della rivelazione e dell'ispirazione biblica6. Sta di fatto, però, che all'umile confessione si preferisce la deriva del patrimonio dogmatico sopra accennato e con esso, di conseguenza, della stessa fede cattolica. La ragione? Una sola: non urtare la suscettibilità del mondo ebraico.
L'editrice Ancora ha diffuso una Guida alla lettura del film "La Passione secondo Mel Gibson"7. Nell'introduzione alla quarta parte si legge: "È vero che gli Evangelisti nel raccontare la Passione insistono unilateralmente (il corsivo è mio) sulla responsabilità dei Capi giudaici (c.s.) nella condanna di Gesù e tendono ad assolvere (c.s.) i Romani. Ma la loro posizione risente d'un particolare momento storico. Mentre scrivevano, gli Evangelisti facevano parte d'una comunità che doveva tenersi buoni i dominatori romani, mentre era spesso perseguitata dai Giudei che non vedevano bene l'espandersi della prima comunità cristiana"8. Un tal modo di ragionare, non privo - e lo si costaterà subito - d'inesattezze storiche in antitesi alla testimonianza delle fonti, è l'eco fedele di quello diffuso ad arte in atmosfera conciliare e postconciliare, al seguito di Nostra aetate. L'ecumenismo parve un'esigenza primaria e divenne un "molok" al quale si sacrificò molto, se non proprio tutto.
Si volle creare e stabilizzare un'atmosfera nuova in vista di più amichevoli rapporti tra Ebraismo e Cristianesimo. Si doveva rimuovere la coltre dei vecchi rancori e dissipar i secolari contrasti, addensatisi subito dopo l'esecuzione capitale di Cristo. A tal fine, una re-interpretazione del testo sacro che ne espungesse o devalorizzasse i riferimenti antigiudaici, parve un'urgenza senz'alternative. Ricordo bene come s'espresse a tale riguardo il card. J. Willebrands - ormai "alla verità", come si dice in Toscana dei defunti - nella sua veste di responsabile dell'organismo vaticano per la riunificazione dei cristiani: andando ben oltre la delimitazione "cristiana" del suo compito istituzionale, s'improvvisò storico ed esegeta biblico, confondendo antisemitismo e giudizio critico nei riguardi d'Israele. Il 14 marzo del 1985, infatti, a Oxford, nel quadro d'un incontro ecumenico, indicò com'espressione della reazione cristiana all'ostilità degli Ebrei contro Cristo e la sua Chiesa le parole del Nuovo Testamento che "hanno avuto conseguenze antisemitiche e contribuito ad una visione negativa dei Giudei e del giudaismo"9.
Una tale esegesi, figlia naturale della Formgeschichtliche Methode e pertanto sostanzialmente avversa alla storicità ed ispirazione dei testi sacri, fu ripresa in tutti gl'incontri tra Ebrei e Cristiani, per dar una spiegazione storicistica ai passaggi neotestamentari non favorevoli agli Ebrei stessi. Identica spiegazione ritroviamo oggi anche negli atti ufficiali del mondo cattolico. Per l'emozione ch'esso suscitò, molti - immagino - hanno ancora presente il documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoa, del 16.03.2005. Il par. 3 di esso è frutto della suddetta esegesi, la quale affiora pure nel par. 5. Vi si leggono, infatti, parole eversive insieme della storia e dei racconti evangelici: "Gruppi esagitati di Cristiani... assalivano... le sinagoghe, non senza subire l'influsso di certe erronee interpretazioni del Nuovo Testamento concernenti il popolo ebraico nel suo insieme... Tali interpretazioni... (che) son circolate per troppo tempo, generando sentimenti d'ostilità nei confronti di questo popolo,... sono state totalmente e definitivamente rigettate dal Concilio Vaticano II"10.
È indiscutibile che, se i primi Cristiani o i loro posteri misero a ferro e fuoco le sinagoghe ebraiche, non son degni di memoria storica che non sia un'aperta condanna. Ma che le interpretazioni di testi, oltretutto d'evidenza cristallina, debban considerarsi "erronee" solo perché ne rilevano il contenuto non molto lusinghiero per il mondo ebraico, è ingiustificabile per più d'una ragione.
Anzitutto, non è affatto vero che l'insistenza sulle responsabilità ebraiche della crocefissione di Cristo sia da attribuire "unilateralmente" agli Evangelisti. Chiunque lo sostenga, o è prevenuto o non è informato. Anche un modesto cultore di storia e di filosofia conosce Rabbi Moses Ben Maimon (o Maimonide, 1135-1204), il più rinomato pensatore giudaico del Medioevo, studioso e commentatore accurato del Talmúd11. E proprio Maimonide, cioè un ebreo (e quale ebreo!) dichiarò apertamente che "gli Ebrei ebbero davvero un ruolo determinante nella morte di Gesù e che ne avevano tutte le ragioni"12. Son le ragioni che si leggono nel Talmúd, un commento ufficiale, nella sua definitiva configurazione verificatasi attorno al 500 d.C., della Legge mosaica13; più esattamente, un commento che "si occupa degli innumerevoli aspetti della legge ebraica, ma lascia aperte le conclusioni mandatórie... È in se stesso un rituale, un'opera di sacro intellettualismo"14. E come tale, della condanna a morte di Cristo ad opera dei capi d'Israele dà la seguente giustificazione, poi ripresa da Rabbi Maimonide: "praticò magia, seduzione e corruzione corruziones"15.
Non sussiste alcun dubbio, in effetti, sul fatto che le fonti del pensiero ebraico e le sue ufficiali spiegazioni, cioè la Mishnah ed il Talmúd, riconoscono pienamente legittima la condanna a morte di Cristo, in base ai "suoi crimini" d'empietà e di magia; e riconoscono pure inevitabile che, per tali crimini, i capi pronunciassero la detta condanna. Oggi lo rileva anche, con estrema correttezza, D. Klinghoffer, uno scrittore ebreo al di sopra d'ogni sospetto16.
Chi, pertanto, ha definito "unilaterale" il racconto evangelico che addebita ai capi ebraici la morte in croce di Cristo, rinnega la storia e - ne son certo, in buona fede - accredita il falso.
Chi poi limita codesto addebito ai soli capi, cade in una seconda inesattezza. È vero, infatti, che la responsabilità dell'uccisione di Cristo ricade in buona parte sulla coscienza dei capi d'Israele. È vero, cioè, che "principes sacerdotum et omne consilium quaerebant falsum testimonium contra Jesum" (Mt 26,29; cf 27,1) e che, in una spasmodica ricerca dei capi d'accusa, sobillavano accanitamente la plebaglia contro Gesù e subornavano le autorità romane. Quando poi fu posta l'alternativa tra Gesù e Barabba, "principes sacerdotum et seniores persuaderunt populis ut peterent Barabbam, Jesum vero perderent" (Mt 27,20). Che dunque "principes sacerdotum et seniores - et omne consilium" - abbian la propria parte di responsabilità e non certo l'ultima, nessuno può onestamente negarlo. Ma non si può negare nemmeno che i capi non furon gli unici responsabili. Ad un certo punto, l'intera popolazione insorse. In realtà, venuto il momento cruciale, s'assiste al coinvolgimento di "tutti" in una responsabilità comune. Gesù, colui ch'era passato in mezzo ai contemporanei facendo del bene a tutti (Act 10,38), viene ora sputacchiato schiaffeggiato deriso flagellato e coronato di spine; lo spettacolo è toccante e potrebbe indurre non pochi alla resipiscenza. Se non che, mentre "pontifices et ministri clamabant, dicentes: Crucifige, crucifige eum" (Gv 19,6), si leva pure il grido della folla sobillata: "Omnes dicunt: crucifigatur" (Mt 27,22). Quel grido si fa presto parossistico: non questa o quella persona, ma "universus populus dixit: Sanguis eius super nos et super filios nostros" (Mt 27,25)17. È un grido d'una drammaticità sconvolgente. I benefici ricevuti e l'esaltazione del trionfale ingresso in Gerusalemme son di punto in bianco cancellati. La folla non ha più fame e sete della Parola di Dio, né dei miracoli che Dio aveva tante volte operato attraverso Cristo, e non ricorda più d'essere stata anche recentemente da Lui sfamata: improvvisamente ciecamente satanicamente ne invoca la morte ed auspica di venir presto irrorata, insieme con i propri figli, dal sangue di Lui.
Il quadro è d'una trasparenza indiscutibile. Nessuno, perciò, può sentirsi autorizzato a modificarlo tanto nella sostanza, quanto nei particolari. Nessuno, cioè, può parlare d'unilateralità degli Evangeli nel sottolineare le responsabilità giudaiche della morte di Cristo, per la semplice ragione che gli Evangeli si limitano a registrare la notizia di tali responsabilità, comuni ai capi e all'intero popolo ebraico.
C'è una terza inesattezza, al seguito delle precedenti: quella degli Evangeli che scaricano sul mondo ebraico il peso morale dell'esecuzione mortale di Cristo, per metter un velo sulla parte che vi ebbero i Romani. La giustificazione addotta è veramente puerile offensiva ed ingiusta, riguardando uomini,che, intrepidi e a testa alta, "ibant gaudentes...quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati" (Act 5,41). L'accennata giustificazione concerne un non confessato tentativo di tener buono l'invasore Romano per non urtarne la suscettibilità, come a dire, un accarezzar il lupo per il verso del pelo. Che all'alba del Cristianesimo ci siano stati dei "lapsi" perché incapaci di fronteggiare la prospettiva del martirio, si sa e non è uno scandalo: anche i primi cristiani erano degli uomini e non tutti gli uomini son degli eroi. Ma che gli agiografi neotestamentari, tutti testimoni di Cristo fin allo spargimento del proprio sangue, abbian tentato d'ammansire la giustizia romana, potrebb'esser sostenuto soltanto in base a sicuri documenti. Ci sono? Dove? Quali? È evidente che quando la storia vien ricostruita non quale ci fu consegnata dalle fonti, ma quale si vorrebbe che le fonti ci consegnassero, alla fantasia ed alla prevenzione non ci son limiti.
2 - I testi incriminati - Innanzi tutto li passerò in rassegna; quindi tenterò di coglierne il senso genuino.
Si tratta dei testi riguardanti le premesse della sentenza capitale a carico di Gesù, nonché la sua esecuzione. Nel prenderli in esame, specie là dove si disponga di testi paralleli, sceglierò l'una o l'altra redazione, non senza segnalarne tutto il contesto per la completezza dell'informazione. Ecco, dunque, i testi relativi alle premesse.
Inizio da Mt 22,15: "Pharisaei consilium inierunt ut caperent eum (Jesum) in sermone". Altrettanto, ma non senza qualche piccola variante, si legge in Mc 12,12; in Lc 20,20; in Gv 8,6. Dal punto di vista letterario, la formula indicante il riunirsi dei capi ebraici con lo scopo di discutere la colpevolezza di Cristo e di condannarlo, compare non una volta sola. E chiarissimo è il suo senso. La predicazione di Gesù, ora direttamente ora indirettamente, aveva colpito in pieno petto specialmente i Farisei. Questi, che non eran certamente degli stupidi, s'eran resi conto d'esser il bersaglio preferito del biondo Rabbi Nazareno e per tale motivo corsero ai ripari: un pretesto, colto dalle sue stesse labbra, per accusarlo. Oltretutto, non era la prima volta che si comportavan in tal modo; Mc 3,6 lo documenta chiaramente, e s'era appena agl'inizi della vita pubblica di Gesù: "Pharisaei statim cum Herodianis consilium faciebant adversus eum quomodo eum perderent". La conferma viene da Mt 12,14: "consilium faciebant adversus eum, quomodo perderent eum".
Persistendo nel loro atteggiamento inquisitorio e preoccupati del fatto che Gesù avesse ridotto al silenzio i Sadducei in tema di risurrezione (Mt 22,23-33; Mc 12,18-27; Lc 20,27-40; Act 23,6.8), continuarono ad interrogarlo mediante un loro legisperito, alla ricerca d'un pretesto accusatorio (Mt 22,34-36; Mc 12,28-31; Lc 20,25-28). Dal canto suo, Gesù dava l'impressione, con disinvolta e coraggiosa parrhesìa, di voler offrire lui stesso il desiderato pretesto: prima infatti invitò le turbe a metter in pratica l'insegnamento degli Scribi e dei Farisei (Mt 23,3: "Omnia quaecumque dixerint vobis, servate et facite"), ma subito aggiunse: "Secundum opera vero eorum, nolite facere": non seguitene l'esempio, non l'incoerenza tra il dire ed il fare, non l'ambizione e l'ipocrisia, non la cecità spirituale, le rapine, le immondezze, le persecuzioni contro i profeti e la loro soppressione (Mt 23,4-39, e numerosi passi paralleli). Le posizioni vennero così ribaltate: l'accusato si fece freddo e deciso accusatore.
Il tramare nell'ombra, però, continuava. Mt 26,3 lo documenta: "Tunc congregati sunt principes sacerdotum et seniores populi in atrium principis sacerdotum, qui dicebatur Caiphas; et consilium fecerunt ut Jesum dolo tenerent et occiderent. Dicebant: non in die festo, ne forte tumultus fieret in populo" (Mc 14,1.2; Lc 22,1.2; 20,18).
Da rilevare quel "dolo" del testo mattaico: in esso son riconoscibili i tratti della cospirazione, poi esaltati dal tradimento: un apostolo mercanteggia il Maestro con i principi dei sacerdoti e pattuisce le modalità della consegna, presto esattamente rispettate (Mt 26,14-16; Mc 14,10.11; Lc 22,3-6). Da rilevar pure quanto sia insistente e reiterata l'indicazione dei capi ebraici: l'attenzione è tutta proiettata verso il loro comportamento. Che, peraltro, in qualche caso sa anche dissimularsi. Quando, nel Tempio, Gesù rivendica l'origine divina della sua dottrina, chiede ai Giudei: "quid me quaeritis interficere"? Essi gli danno dell'indemoniato ed osservano: "quis te quaerit interficere"? (Gv 7,20) E rinnoveranno l'accusa d'indemoniato anche in seguito (Gv 8,48.52; 10,20).
Da Mt 26,57-58 si vien a sapere che, arrestato Gesù, la turba lo condusse da Caifa "principem sacerdotum, ubi Scribae et seniores convenerant". Ciò significa che il collegio giudicante s'era ufficialmente ed istituzionalmente riunito. Mancando però l'oggetto del giudizio, "quaerebant falsum testimonium contra Jesum, ut eum morti traderent" (Mt 26,59). Lo scopo ch'era stato ripetutamente dichiarato, fu ancor una volta la molla dalla quale le trame dei capi venivan mosse: si voleva la morte di Cristo. A tal fine, anche due soli falsi testimoni eran più che sufficienti (Mt 26, 61). La seduta si chiuse con una scena drammatica: dopo che Cristo s'era autoproclamato Figlio di Dio, "princeps sacerdotum scidit vestimenta sua, dicens: blasphemavit; quid adhuc egemus testibus? ...audistis blasphemiam: quid vobis videtur? At illi respondentes dixerunt: reus est mortis" (Mt 26,65-66; Mc 14,52ì3-72; Lc 22,54-71; Gc 18,12-27). Non si trattò affatto d'una farsa. Per la mentalità ebraica e per la Legge, Gesù, proclamandosi Dio, era davvero un bestemmiatore meritevole della pena capitale. II tribunale poté solo trarne le conseguenze.
Il cap. 27 di Mt s'apre portando nuovamente in primo piano "principes sacerdotum et seniores populi adversus Jesum, ut eum morti traderent" (Mt 27,1; Lc 22, 66; Gv 18,28). D'improvviso, però, il tribunale ebraico - quel medesimo tribunale che in Gv 19,7 rivendicherà l'urgenza della Legge, sentenziando: "nos legem habemus et secundum legem debet mori" - riversò sul tribunale romano la responsabilità della sentenza: "Et vinctum adduxerunt eum et tradiderunt Pontio Pilato praesidi" (Mt 27, 2; Lc 23,1; Gv 18,31-32). II tribunale romano, sensibile alla ragion di stato quanto gli Ebrei alla bestemmia, iniziò la sua indagine. Chiese, per bocca del suo presidente, se Gesù fosse re, ponendolo sotto il fuoco incrociato dell'accusa di cui i capi l'imputavano (Gv 10,33: "quia tu, homo cum sis, facis teipsum Deum") e della domanda che Pilato, geloso custode della sovranità romana, gli rivolgeva (Lc 23,3: "Tu es rex Judaeorum"? Gv 19,37) 1 capi, intanto, e la turba dai medesimi sobillata gridavano: "Qui se regem facit, contradicit Caesari!...non habemus regem, nisi Caesarem" (Gv 19,12.15). E Gesù, dopo un pacato "tu dicis" in risposta affermativa alla domanda di Pilato sulla sua regalità, né a lui, né alle grida provocatorie della folla aggiunse una parola. L'attesta Mt 27,14: "Non respondit ei (Pilato) ad ullum verbum"; poco sopra leggiamo: "Et cum accusaretur a principibus sacerdotum et senioribus, nihil respondit" (Mt 27,12).
Non ci volle molto perché Pilato si convincesse dell'innocenza di Gesù, com'egli dichiara apertamente in Gv 18,38 (19,4; Lc 23,22): "Causam (mortis) invenio in eo nullam". Evidenti furon pure i suoi tentativi di liberarlo. Quando però s'accorse della loro inutilità e del tumulto che andava crescendo, "lavit manus coram populo, dicens: innocens ego sum a sanguine iusti huius; vos videritis". In quel momento la folla invocò il sangue di Cristo su di sé ed i propri figli (Mt 27,24-25; 23,35; Act 5,38).
Forse, in Pilato prevalse anche il timore che un'eventuale liberazione di Cristo mettesse in dubbio la sua fedeltà a Cesare; ed alla folla che proprio questo gli rinfacciava, cedette rassegnato. Fece quindi fustigare Gesù e lo consegnò poi nelle mani dei capi e della folla stessa, perché secondo la loro Legge lo mettessero in croce (Mt 27,25-26; Gv 19,15-16).
E così fu. Dopo il racconto della crocefissione, ha inizio un secondo gruppo di passi neotestamentari, dei quali qualche cenno, a puro titolo esemplificativo, ho anticipato nella parte iniziale di questo scritto: sono quelli riguardanti, direttamente o no, la parte avuta dagli Ebrei nella morte di Gesù.
Appena cominciaron a diffondersi i primi indizi della sua risurrezione, l'insieme del mondo ebraico unitamente ai suoi capi ritornò in primo piano. Alla scoperta del sepolcro vuoto, "quidam de custodibus venerunt in civitatem et nunciaverunt principibus sacerdotum omnia quae facta fuerant" (Mt 28,11). L'Evangelista mette subito in evidenza la doppiezza di quei capi, i quali, per non piegarsi né all'evidenza del sepolcro vuoto, né al racconto delle pie donne che giuravano d'aver visto il Risorto e parlato con Lui, inventarono la storiella del trafugamento del cadavere: "Dicite quia discipuli eius nocte venerunt et furati sunt eum, nobis dormientibus" (Mt 28,12-13). La loro falsità è resa più grave dal denaro ("pecuniam copiosam") con cui la sostennero e dall'apparente zelo con cui richiesero a Pilato una sorveglianza speciale "ne forte veniant discipuli eius et furentur eum" (Mt 27,64). Raffinata doppiezza, che passerà poi emblematicamente nel nome stesso di Fariseo.
Una circostanza fa riflettere. In Gv 7,13 s'avverte l'atmosfera che già prima dell'esecuzione capitale di Cristo s'era largamente diffusa: "Nemo palam loquebatur de illo propter metum Judaeorum". Questo medesimo timore, ad esecuzione compiuta, imprigionò i discepoli nel cenacolo, che i medesimi sprangarono accuratamente sempre "propter metum Judaeorum" (Gv 20,19). Evidentemente, le reticenti esigenze del dialogo eran ancora di là da venire e la paura che il trattamento usato con Cristo fosse esteso anche ai cristiani, per un verso tenne costoro alla larga dagli Ebrei, per un altro non impedì che la ricostruzione storica fosse fedele alla realtà dei fatti.
Nello sbarrato cenacolo, dunque, s'eran nascosti i Dodici, unitamente a Maria e alle pie donne, "perseverantes unanimiter in oratione" (Act 1,14). In occasione della Pentecoste successiva alla morte e risurrezione di Gesù, ripieni di Spirito Santo usciron all'aperto. In Gerusalemme, con gli Ebrei c'eran "viri religiosi ex omni natione quae sub caelo est" (Act 2,5); essi avevano ascoltato gli Apostoli ciascuno nella propria lingua (Act 2,8). Rivolto direttamente agli Ebrei, Pietro non nascose la verità dei fatti dietro parole di comodo; fu perentorio: "Jesum Nazarenum...per manus iniquorum affligentes, interemistis" (2,22.23). Con la consapevolezza del testimone oculare, continuò: "Hunc Jesum resuscitavit Deus, cuius omnes nos testes sumus...certissime sciat ergo omnis domus Israel, quia Dominum eum et Christum fecit Deus, hunc Jesum, quem vos crucifixistis" (Act 2,29.32.36). Contrariamente a quanto oggi avviene, i destinatari delle parole di Pietro né le rifiutarono, né s'inalberarono, ma umilmente chiesero che cosa dovessero fare: fu un implicito riconoscimento delle proprie responsabilità. "Poenitentiam agite - rispose subito Pietro - et baptizetur unusquisque vestrum in nomine Jesu Christi in remissionem peccatorum vestrorum: et accipietis donum Spiritus Sancti. Vobis enim est repromissio, et filiis vestris, et omnibus qui longe sunt, quoscumque advocaverit Dominus Deus noster" Act 2,37-39. Sulla questione della "repromissio" dovrò ritornar in seguito; per ora, sarà sufficiente leggerne attentamente testo e contesto.
Pietro aveva appena risanato lo zoppo che chiedeva l'elemosina presso la Porta Speciosa del Tempio (Act 3,1-10), quando arringò la gente colà riunitasi, dicendo: "Viri Israelitae, ... Deus...glorificavit filium suum Jesum, quem vos tradidistis et negastis ante faciem Pilati, iudicante illo dimitti. Vos autem sanctum et justum negastis et petistis virum homicidam donari vobis : auctorem vero vitae interfecistis, quem Deus suscitavit a mortuis, cuius nos testes sumus...Poenitemini igitur et convertimini, ut deleantur peccata vestra" (Act 3,13-15.19; Mt 27,20.21.22). II giorno dopo, i principi dei sacerdoti, gli anziani del popolo e gli Scribi di Gerusalemme vollero indagare ancora sul miracolo verificatosi presso la Porta Speciosa; sotto l'azione dello Spirito Santo, Pietro fece loro osservare che ciò era avvenuto "in nomine Domini nostri Jesu Christi Nazareni, quem vos crucifixistis, quem Deus suscitavit a mortuis...Hic est lapis qui reprobatus est a vobis aedificantibus" (Act 3,5-11).
Il testo che segue modifica alquanto l'orizzonte, passando dall'incriminazione degl'Israeliti per la morte di Cristo al coinvolgimento di vari responsabili: Erode e Ponzio Pilato, i quali in occasione deila condanna di Cristo divennero amici, i Gentili, la popolazione israelitica (Act 427; Lc 23,12). Evidentemente l'enumerazione dei responsabili, anziché toglier il carico di responsabilità dalle spalle d'ognuno, lo sottintende e vi si richiama.
Dopo di che gli Apostoli vennero incarcerati e per intervento divino liberati. I capi ebraici riuniron il tribunale per decider il da farsi e protestarono perché gli Apostoli li consideravan responsabili della morte cruenta di Cristo: "vultis inducere super nos sanguinem hominis istius". Pietro e gli Apostoli, invece, rinnovaron l'accusa: "Deus patrum nostrorum suscitavit Jesum, quem vos interemistis suspendentes in ligno". Dopo l'accusa, il richiamo e l'evangelizzazione: "Hunc principem et salvatorem Deus exaltavit dextera sua ad dandam poenitentiam Israeli et remissionem peccatorum". Ma gli Ebrei non recedevano: "Haec cum audissent, dissecabantur et cogitabant interficere illos...(Apostoli) ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati" (Act 5,17-19.30-33.41-42).
Poco dopo, seguendo il filo narrativo degli Atti degli Apostoli, s'incontra il protomartire Stefano, un intrepido giovane che, al servizio della verità e con la forza di essa, polemizza vigorosamente con gli Ebrei, rievocando le loro responsabilità storiche: "Dura cervice et incircumcisis cordibus et auribus, vos semper Spiritui sancto resistitis, sicut Patres vestri ita et vos. Quem Prophetarum non sunt persecuti Patres vestri"? Il richiamo storico non era fine a se stesso; doveva introdurre l'attenzione dell'uditorio all'ultimo atto di codesta persecuzione, dominato dalla passione e morte di Cristo. In effetti, "(Patres vestri) occiderunt eos qui praenunciabant de adventu lusti, cuius vos proditores et homicidae fuistis" (Act 7,50-53). Ne seguì non soltanto il martirio di Stefano, ma una "persecutio magna in Ecclesia" (Act 8,2). Gli Ebrei, in effetti, rifiutaron per la prima volta la memoria e la responsabilità della crocefissione di Cristo, disperdendo i cristiani con la speranza che anche il nome e il ricordo di Cristo venissero per sempre dimenticati; ma "qui dispersi erant pertransibant, evangelizantes verbum Dei" (Act 8,4).
Con l'evento sulla via di Damasco, ha poi inizio l'epopea di Paolo. Rispetto a quello di Pietro, egli formula un kerygma diverso: non più direttamente rivolto ai correligionari ebraici, bensì ai pagani. Cambia il modo di presentare Cristo, non Cristo, non la sua storia, non la sua verità. Pietro, tuttavia, non scompare dalla scena degli Atti. Lo si ritrova presto accanto al Centurione Cornelio, ai suoi parenti ed amici, nell'atto d'evangelizzar loro Gesù e di render testimonianza "omnium quae fecit in regione Judaeorum et Jerusalem, quem occiderunt suspendentes in ligno" (Act 10,39). È una costante: il solo evocare gli Ebrei richiama alla mente dell'Apostolo la responsabilità da loro contratta nel mandar a morte il Signore.
Il pensiero di Paolo è più sfumato, ma sostanzialmente non diverso. Ad Antiochia di Pisidia, tuttavia, le sue parole son chiare: "Nullam causam mortis invenientes in eo, petierunt Pilato ut interficeret eum" (At 13,28). È vero che nel suo epistolario Paolo addita nei nostri peccati la causa proporzionata della morte di Cristo (1 Cor 15,2; Rm 4,25; 5,8.9.10) e mette in risalto lo spirito oblativo di Lui (Ef 5,2.25) nel darsi volontariamente e per puro amore alla morte:"Tradidit semetipsum pro nobis oblationem et hostiam Deo in odorem suavitatis.... dilexit Ecclesiam et seipsum tradidit pro ea"(Ef 5,2.25); "Dilexit me et tradidit semetipsum pro me" (Gal 2,20). È vero pure che in Rm 8,32 Paolo collega direttamente la morte del Signore alla volontà del Padre "qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum". Tuttavia, per esser egli stesso israelita e della fazione farisaica, conosceva bene come fossero andate le cose. E se questo "come" non è esplicitamente denunziato nel suo epistolario, non significa che abbia voluto dissociarne i suoi ex-correligionari. Lo descrive anzi in una cornice prettamente ebraica: una condanna a morte, inflitta "fuori dalla porta" della città santa (Ebr 13,12), in piena aderenza alle disposizioni della Legge, ad un condannato che per ciò stesso, cioè per la croce, era da Dio maledetto e rinnegato dal suo popolo (Gal 3,13). C'è poi un'altra ragione per la quale c'è reticenza sulle responsabilità del popolo ebraico: quella croce, che nel paganesimo contrassegnava d'infamia uno schiavo criminale e nell'ebraismo sommergeva nell'ignominia il delinquente, in Paolo diventa lo strumento d'una redenzione cosmica. Gli "arconti" o principi di questo mondo, identificabili nelle potenze angeliche (Ef 1,21; Col. 1,16) che provvedono all'ordine sociale al cui mantenimento è preposto Pilato per i Romani e il sinedrio per gli Ebrei, se avessero conosciuto la sapienza di Dio, che non è umana sapienza, ma il piano eterno della salvezza universale, "numquam Dominum gloriae crucifixissent" (1 Cor 2,6-8).
3 - Interpretazione dei suddetti testi - Per non incorrere nel pericolo d'interpretazioni soggettive ai danni della Sacra Scrittura che, proprio perché tale e come tale affidata alla Chiesa, sfugge nettamente ai limiti del soggetto, m'affido ai criteri più volte determinati dal Magistero ecclesiastico, nonché alla sua dottrina. Ciò non comporta un'adesione indiscussa a tutto quanto si legge nella Dei Verbum del Vaticano II, sia perché ciò che di dogmatico il Vaticano II espose, appartiene per sua stessa confessione al magistero precedente, sia perché alcune novità della Dei Verbum lascian alquanto insoddisfatti. Essa, pur senza dichiararlo esplicitamente, rinunzia di fatto alla dottrina classica dell'assoluta inerranza biblica e limita l'inerranza stessa alla sola "verità salutare"18. Se si pensa che l'inerranza assoluta della Sacra Scrittura non è soltanto una tra le varie premesse d'ogni lavoro esegetico, ma è anche una verità della fede cattolica, a più riprese almeno implicitamente confermata dal Magistero ecclesiastico e dalla tradizione scolastica19, s'intravede per quale motivo abbia poco sopra definito non soddisfacenti alcune novità della Dei Verbum; esse suscitano - a dir il vero - non poche perplessità. Per uscire dalle quali, sarà bene che l'esegeta cattolico si lasci guidare dai capisaldi del Magistero, in special modo dalla "Providentissimus Deus" di Leone XIII e dalla "Divino afflante Spiritu" di Pio XII: l'una infatti stabilisce un'esatta nozione d'ispirazione biblica, nozione che chiamerei teologica in quanto ripugna alla dissociazione della fede dall'ispirazione stessa e dall'inerranza; l'altra mette in evidenza e richiama la varietà dei generi letterari presenti nella Scrittura, le regole per la loro interpretazione ed il senso letterale che ne discende20.
La tendenza odierna è, invece, per il superamento dei due accennati capisaldi, dando, proprio per questo, la fondata impressione di staccarsi direttamente dall'ambito autenticamente cattolico. Si tratta d'un ambito determinato non da scelte soggettive, ma dalla fedeltà alla linea segnalata dal Magistero. A tale linea è certamente fedele il Vaticano II, specie con la sua formulazione d'un criterio indiscutibile: "in lumine fidei - sub Ecclesiae Magisterii ductu"21. Questo, e non la tendenza sopra accennata, sarà dunque anche il mio criterio.
Prima però di riprender il discorso sul significato dei passi neotestamentari riguardanti il mondo ebraico, mi permetto - per i non addetti ai lavori - qualche parola sui sensi biblici. Anzitutto, due son quelli relativi a tutta la Scrittura in quanto umano-divina: il senso letterale e quello tipico. Padri, Dottori, Sommi Pontefici e tutti gli Autori classici invitano alla ricerca del senso letterale attraverso testo-contesto-passi paralleli-scienze ausiliarie, come quello che maggiormente chiarisce il pensiero d'un determinato passaggio. Il senso tipico è quello dell'Antico Testamento che allude al Nuovo e lo prepara. Fondamentale per determinare con chiarezza l'intenzione divina, quale fu percepita dall'agiografo sotto ispirazione, è il senso letterale in tutte le sue forme e figure stilistiche (metafore, parabole, allegorie, simboli); non appartengono, ovviamente, ad esso il c.d. senso accomodatizio - vi ricorre talvolta la Liturgia - nonché i non-sensi ed i controsensi, in quanto offensivi della verità rivelata22.
La conseguenza da trarre è che anche i passi del Nuovo Testamento non favorevoli al mondo ebraico debbano esser interpretati in senso letterale: la qual cosa comporta un'interpretazione delle parole secondo il loro valore, stabilito o ricuperato:
a. attraverso l'esame interno del testo e del suo contesto;
b. attraverso la filologia, la semantica, la storia, l'archeologia, l'orientalistica, cioè con l'ausilio di tutte le scienze ausiliarie,
c. ferma però restando la base dogmatico-teologica d'ogni interpretazione neotestamentaria, cioè l'origine apostolica e la storicità dei quattro Evangeli.
Alla luce di ciò, è a dir poco strano il modo sbrigativo e solo apparentemente storico-scientifico di chi, dinanzi al ripetuto "quem vos crucifixistis, vos interemistis", se n'esce con la trovata d'una mentalità antiebraica che avrebbe contraddistinto i primi cristiani, e non è nemmeno sfiorato dall'evidenza d'un testo, dal quale trasuda la mentalità anticristiana che portò alla crocefissione di Cristo. Del resto, tutt'era stato previsto dallo stesso Gesù: "...Filius hominis tradetur principibus sacerdotum et Scribis, et condemnabunt eum morte, et tradent eum Gentibus ad illudendum et fagellandum- et crucifigendum" (Mt 20,18-19). I responsabili della crocefissione son qui segnalati ancor prima ch'essa venga messa in atto:
1. i grandi sacerdoti e gli Scribi, cioè i capi del popolo ebraico, il quale consegnerà loro Gesù perché venga condannato a morte;
2. i Gentili, vale a dire il rappresentante dell'impero romano, Pilato, ed i suoi soldati.
Sulla diversa colpevolezza di questi due gruppi, è ancora Gesù a far luce: "Qui me tradidit tibi - dice a Pilato - maius peccatum habet" (Gv 19,11). Ora, dal racconto evangelico emergono, senza possibilità d'errore, i responsabili di codesta consegna: Caifa e tutte le autorità ebraiche, sostenute dalla folla esacerbata (Gv 11,4953; 18,14), nonché Giuda iscariota, che di fatto eseguì la consegna (Gv 18,2.5; cf 6,71; 13,2.11.21)23.
Analizzando, dunque, i contesti, se ne deduce che, seppur condivisa con quella d'altri soggetti (Giuda ed i Romani24), la responsabilità degli Ebrei è fuori discussione: non solo "i grandi sacerdoti e gli anziani persuasero il popolo a chiedere (la salvezza di) Barabba e la morte di Gesù" (Mt 27,20), ma la folla stessa, qui chiamata "popolo-Xaòg", urla che "il sangue di Lui ricada su di noi ed i nostri figli" (Mt 27,25)25. E quando Pilato "se ne lava le mani" e si dichiara "innocente" del sangue di Cristo, rimette ogni decisione alla discrezione degli Ebrei: "Pensateci voi" (Mt 27,24). II loro verdetto è allora "Crucifigatur"(Mt 27,23)!
L'interpretazione letterale, attenta a tutte le sfumature del testo e del suo contesto immediato e remoto, non può esser altro che univoca: la responsabilità ebraica della crocefissione non è certo inferiore rispetto a quella romana ed a quella personale di Giuda.
Ciò nonostante, specie dopo che Nostra aetate rifiutò formalmente l'espressione "popolo deicida" e l'accusa di deicidio contro il popolo ebraico, s'è assistito alle grandi manovre per attenuar o addirittura negare le gravi responsabilità di questo popolo. Come se il quarto Evangelista fosse il solo ad insistere sulle dette responsabilità, s'è preteso di vedere il racconto del quarto evangelista nell'ottica delle sue categorie spirituali e di leggerlo quindi secondo i suggerimenti del senso tipico. Ed un primo suggerimento sarebbe quello di veder simboli e sensi traslati in tutto quello che riguarda le responsabilità ebraiche della crocefissione di Cristo26. Cioè, in pratica una destoricizzazione del testo, con un benservito se non all'origine apostolica dell'intero messaggio neotestamentario, almeno alla storicità di quella parte del quarto Evangelo che riguarda il popolo ebraico ed i suoi capi nel decidere l'esecuzione capitale di Cristo. Come se, quanto a storicità e senso letterale, non si disponesse dell'evidenza critica nei Sinottici e negli Atti, e ciò non trovasse conferma anche nell'epistolario paolino.
È possibile, pertanto, cioè tenendo presenti i testi "incriminati" ed i criteri esegetici con cui è doveroso interpretar il Libro Sacro, pervenire ad ineludibili conclusioni. I fatti son noti: dopo l'ultima Cena, durante la quale Cristo suggella con il suo Sangue, sacramentalmente reso presente e disponibile, l'Alleanza nuova predetta dai profeti (Mt 26,26-28; 1Cr 11,23-25), si sottopone alla tremenda notte della sua agonia nell'Orto degli Olivi (Gv 18,1-27 e luoghi paralleli). Qui vien arrestato dalle orde scomposte di Giuda, il traditore prezzólato dai capi ebraici. In quella medesima notte, sul far dell'alba, si riunisce ufficialmente il Sinedrio e condanna Gesù come bestemmiatore; s'era infatti autoproclamato Figlio di Dio (Mt 26,63-66; Gv 10,33; Act 7,56). La condanna è formalmente ineccepibile: una volta stabilita la veridicità dell'accusa, la condanna diventava un adempimento dovuto. Poiché Pilato, al quale spettava il diritto di vita e di morte, poteva rimaner poco convinto da un delitto di "lesa maestà divina" - e di fatto se ne uscì con un "vedetevela voi" (Mt 27,24) per trarsi fuori dalle strettoie del discorso teologico o semplicemente religioso -, il Sinedrio, con abilità luciferina, portò l'attenzione del procuratore romano sul piano politico, insinuando a carico di Gesù la colpa di "lesa maestà imperiale" (Lc 23,2). Vista insufficiente anche codesta insinuazione, l'attenzione fu concentrata sulla vera ed unica causale: Gesù è un bestemmiatore, soggetto come tale al giudizio del supremo tribunale ebraico, che Pilato, secondo la legge romana, deve rigorosamente rispettare.
Se non che Pilato non solo non riconosce alcuna colpevolezza in Gesù, ma, al contrario, si convince sempre più della sua innocenza e cerca di salvarlo. Giuridicamente parlando, il suo comportamento non è affatto esemplare: rimette Gesù al giudizio di Erode, poi ne propone l'alternativa con il malfattore Barabba, infine pensa di placare l'odio giudaico contro l'innocente decretandone la flagellazione. Il Sinedrio e la plebaglia né s'accontentano né demordono. Pilato, allora, ancor meno correttamente, fa propria la condanna già formulata dalle autorità ebraiche (Mt 27,24-25), ma se ne lava le mani.
Sempre dal punto di vista giuridico, non han rilevanza gli strani prodigi che accompagnano la crocefissione di, Cristo e scuotono non poche coscienze (Mt 27,51-54). L'ha tutta, invece, il fatto che, alle tre del pomeriggio del venerdì dopo l'ultima Cena, in mezzo a due ladroni, "lesus... iterum clamans voce magna, emisit spiritum" (Mt 27,50).
La condanna e l'esecuzione, basate sull'accusa di "blasphemia", portano una chiara impronta di provenienza ebraica. Nostra aetate 41f tenta però di sollevar il popolo ebraico da ogni responsabilità. Vi si legge, sì, un piccolo riconoscimento, introdotto da una proposizione concessiva - "Etsi auctoritates Judaeorum cum suis asseclis mortem Christi urxerunt" - , ma il seguito è tutto a discolpa degli Ebrei: "quae in passione eius perpetrata sunt, nec omnibus indistinte Judaeis tunc viventibus, nec Judaeis hodiernis imputari possunt". La proposizione concessiva, nonostante la sua solida base neotestamentaria, perde quasi tutto il suo valore storico in conseguenza della proposizione principale, che dichiara innocenti gli Ebrei d'allora e di oggi. Seguono anche altre dichiarazioni che riguarderanno il prossimo paragrafo, e che, per il momento, non prendo in esame.
Accennando alla larga base neotestamentaria, mi riferivo ai testi sopra riportati ed esaminati. Nessuno poteva, né può ignorarli; nemmeno il decreto conciliare Nostra aetate. Esso, però, volle indebolirne o negarne la forza testimoniale. Da qui la distinzione tra gli Ebrei d'allora e quelli d'oggi, tutti ugualmente discolpati. C'è qui un'incongruenza neanche troppo latente: se "auctoritates" sintetizza le espressioni neotestamentarie già incontrate, come "principes sacerdotum et seniores populi", chi se non il popolo è sottinteso in "cum suis asseclis"? E vero che, solo in regime democratico, dietro la sentenza d'un tribunale c'è tutto il popolo, in nome del quale quel tribunale opera; ma il popolo non è affatto assente neanche nell'operato del tribunale teocratico d'Israele che condanna Gesù per bestemmia. Le autorità stesse, infatti, s'appellano al popolo, lo interrogano, lo sobillano, lo coinvolgono nell'uccisione di Cristo e ne precostituiscono le gravissime responsabilità storiche. Pertanto, la distinzione tra gli Ebrei d'ieri e quelli d'oggi avrebbe un senso, se alludesse agli Ebrei che allora rifiutarono Cristo e quelli che oggi l'hanno riconosciuto e lo confessano. Non c'è senso, invece, nell'aver fatto d'ogni erba un fascio.
Più grave ancora è il tentativo, in atto prima e dopo il decreto conciliare, di non riconoscere realtà di popolo alla massa che grida sulla piazza contro Cristo. Poche centinaia, si dice, non sono il popolo, non lo rappresentano, non ne esprimono la volontà27. Come se il popolo ,fosse la somma di determinati individui. "Ciò che caratterizza in primo luogo un popolo è la condivisione di vita e di valori, che è fonte di comunione a livello spirituale e morale"28. Quanti durante il processo a Cristo gridavano: "sia crocefisso...il suo sangue scenda su di noi e sui nostri figli", non eran certamente tutti gli Ebrei, ma eran gli Ebrei presenti nella Città santa per la festa di Pasqua, abbarbicati fin a rimanerne accecati ai loro valori di razza e di religione, individuati come Ebrei proprio da codesti valori, in nome dei quali si sgolavano dinanzi al Sinedrio ed a Pilato perché Gesù venisse dichiarato reo di morte. Rivendicando l'osservanza dei detti valori, essi stessi si riconoscono popolo ed agiscono come popolo. E quando Caifa, il sommo pontefice di quell'anno, rimprovera ai suoi colleghi di non aver capito nulla non avendo considerato che "expedit ut unus moriatur homo pro populo (?.aoi)" (Gv 11,50), riconosce realtà di popolo a quanti stanno reclamando l'esecuzione capitale di Cristo.
Nostra aetate 4/f vuole che "Judaei neque ut a Deo reprobati neque ut maledicti exhibeantur". Il discorso è d'estrema delicatezza; lo riprenderò unitamente a quello sul popolo deicida nell'ultimo paragrafo. Per ora mi si permetta di richiamare la connessione di Mt 27,25 con Mt 23,31-39 dove Gesù denuncia le gravi responsabilità storiche delle "guide cieche" d'Israele e ne preannuncia le conseguenze: la crocefissione del Salvatore come ultimo anello delle dette responsabilità e l'abbandono della "vostra casa", chiara allusione a Ger 12,7 (22,5; Ez 10,18-19; 11,22-23) che predice l'allontanarsi di Jahvèh da Gerusalemme.
Per concludere, mi sembra innegabile, alla luce del senso letterale di quei testi sacri che ne costituiscono la fonte storica, quanto segue:
a. il popolo ebraico passò dall'"osanna" al "crucifige" sotto l'azione perversa dei suoi capi;
b. questi infatti tutto fecero pur di mandar ad effetto la loro volontà di "perdere" Gesù;
c. lo fecero come "capi" nel rispetto della Legge e quindi dei valori riguardanti l'intero popolo israelitico, il quale ne assecondò gl'intenti;
d. e rimasero, per questo, i primi - anche se non gli unici - responsabili del drammatico evento.
4 - Il popolo dell'Alleanza - Nonostante il loro coinvolgimento in esso, Nostra aetate 4/b-c attesta non solo gl'inizi della Chiesa dal popolo ebraico, ma anche la continuità tra l'Alleanza antica e la nuova. Chiama infatti i "Christifideles, Abrahae filios secundum finem", dai quali la Chiesa ebbe la "Revelationem Veteris Testamenti" ed ai quali appartiene, secondo l'Apostolo (Rm 9,4-5) "l'adozione a figli, la gloria ed i patti d'Alleanza, la Legge, il culto e le promesse". Dai figli d'Abramo, cui "appartengono i Padri, nacque Gesù secondo la carne".
Il testo, forse per dir troppo in breve, risulta un po' confuso, ma non inintelligibile. La chiave interpretativa dovrebb'esser la distinzione tra "secondo la fede" e "secondo la carne". L'averla spesso dimenticata ha prodotto giudizi infondati e quindi insostenibili, come quello della continuità tra l'antica e la nuova Alleanza. O come quello degli Ebrei destinatari ancor oggi e detentori delle promesse salvifiche.
"Secondo la carne" si dà indubbiamente una continuità di razza tra gli Ebrei antichi e gli attuali; può considerarsi eccezione, secondo la carne, qualche convertito all'ebraismo appartenente ad altre stirpi. Ma anche costui ha diritto, non "secondo la carne", bensì "secondo la fede", ad esser considerato ebreo a tutti gli effetti. La religione ebraica lo costituisce tale29.
"Secondo la fede" non tutti gli Ebrei posson considerarsi spiritualmente legati alla Chiesa, nel senso inteso da Nostra aetate 4/a, che sottolinea il vincolo "quo populus Novi Testamenti cum stirpe Abrahae spiritaliter coniunctus est". A parte il fatto che la Chiesa voluta e fondata da Cristo nel segno della cattolicità non può legarsi a nessuna stirpe30 senza cessare d'esser se stessa, è doveroso affermare fortemente che l'unico legame esistente tra la Chiesa ed Abramo è "secundum fidem": nasce dalla fede e la esprime. È la fede d'Abramo, da Gesù stesso chiamato "vostro padre" per indicare non la continuità fra Israele e la Chiesa, ma il legame di stirpe tra il capostipite e la sua discendenza; quel "vostro", infatti, restringe il legame alla discendenza carnale, del tutto estranea alla cattolicità della Chiesa. Tuttavia, al di là e al di sopra della stirpe, un legame di fede è dato dal rapporto che lo stesso Abramo stabilì con Cristo: "...exultavit ut videret diem meum; vidit et gavisus est" (Gv 8,56). Questo medesimo legame congiunge ancor oggi in perfetta unità la Chiesa e quei discendenti d'Abramo, i quali accettarono ed accettano Cristo, poiché "qui ex fide sunt, benedicentur cum fideli Abraham" (Gal 3,9). Non quindi i discendenti "secondo la carne", membri di quel popolo che si lasciò gravemente coinvolgere nella crocefissione di Cristo, lo rifiutò come Messia e Figlio di Dio e continua tuttora a rifiutarlo; ma solo i discendenti "secondo lo spirito".
Han quindi perfettamente ragione coloro31 che distinguon il giudaismo in quello antico ed in quello talmudico postcristiano (o giudaismo rabbinico). Nel primo determinante è non già il fatto razziale ma l'attesa del Messia e la preparazione alla sua venuta; nel secondo è la stirpe che conta e la stessa religione ha connotazioni razziali. Tra l'uno e l'altro si colloca Cristo, Figlio di Dio, incarnatosi per l'umana salvezza, attorno al quale si stringe il "piccolo resto d'Israele" costituito da Maria, dagli Apostoli, dai discepoli e dai primi convertiti: tutti provenienti da Israele, ma ormai al di là d'Israele, essendo i primi credenti in Cristo. È questo l'evento con cui coincide l'esordio della Chiesa; e mentre nel giudaismo rabbinico continua il rifiuto radicale di Cristo, il "piccolo resto" d'ieri e d'oggi mantien il suo legame e la sua continuità con la fede d'Abramo attraverso la Chiesa stessa.
Tre sono allora le questioni che ne discendono:
a. se l'attuale popolo ebraico sia davvero da Dio rifiutato e maledetto;
b. se mantenga ancora le antiche promesse;
c. se sia ancora "il popolo dell'Alleanza ".
Il nocciolo della questione ebraica sta tutto in tali domande, alle quali rispondo per quel tanto che ne so e che mi consente di mantenere la serenità preannunciata nel titolo.
a. Bisogna partire dall'elezione per dar un'adeguata risposta alla prima domanda. La parola (bahar, rad. bhr) richiama il concetto di b'rîth e con esso l'assoluta libertà con cui Dio si sceglie Israele come popolo suo, riversando su di esso la sua misericordiosa e non dovuta hesēdh. In conseguenza dell'elezione, Israele, a differenza d'ogni altro popolo e grazie a circostanze diverse nelle quali lo stesso Jahvèh gli rivela la sua predilezione, diventa il popolo eIetto. Prima in Abramo e nella sua posterità (Gn 12,1-3; 22,15-18; 26,4; Es 41,8; Neh 9,7), poi al momento dell'esodo sotto la guida di Mosè (Ex 3,7-10; Dt 6,21-23; Ps 105,26). Il Dt fa capire la natura sovranamente libera di siffatta scelta: non perché sia il popolo più numeroso, essendo anzi il più piccolo (Dt 7,7); non perché sia il più giusto, essendo anzi "di dura cervice" (Dt 9,4-6); ma perché l'amore di Dio è libero. In libertà "Egli ha scelto te" (Dt 7,6) e non viceversa. L'ha fatto per aver al proprio servizio un popolo santo, e santo in forza di tale servizio; un popolo che si diversifichi dagli altri popoli per rinomanza onore e gloria (Dt 26,19) facendo in sé rifulgere la grandezza e la santità d'Jahvèh (Dt 7,-6).
Appare fuori discussione che, per quella medesima libertà, con la quale Jahvèh elegge, possa anche abbandonare l'eletto, qualora questi non si comporti con la dovuta fedeltà; la hesēdh di Dio (Dt 7,9.12) esige infatti la hesēdh dell'uomo (Dt 6,4; 11.1) e non tollera che venga meno: "Tra tutte le famiglie della terra io non ho conosciuto che voi; ma per tutte le vostre iniquità, io vi punirò" (Am 3,2). Risuona qui l'lo sovrano di Colui che, presceltosi un popolo, non permette ch'esso dimentichi l'amore preferenziale da cui fu innalzato a "popolo di Dio" e trascuri la missione alla quale fu eletto e destinato (Am 4; 9,7-8). Sullo sfondo oscuro di tali trascuratezze ed infedeltà, si staglia il rifiuto da parte di Dio e verso tale rifiuto Geremia, unitamente ad altri profeti, mantiene sveglia l'attenzione dei suoi correligionari. È una spada di Damocle (cf 2Re,23,27) sulla sorte d'Israele che, per la pervicacia delle proprie colpe, da popolo di Dio decade a popolo da Dio condannato e respinto (Gr 6,30; 7,29; 14,19; 31,37), così come Giuda era stato eletto dopo che Efraim era stato rifiutato (Ps 78,67) e la sposa amata ed infedele era stata ripudiata in attesa della sua conversione, secondo il drammatico racconto d'Osea.
Non è stata dunque la Chiesa a parlar arbitrariamente ed infondatamente di rifiuto; essa lo ha letto nella divina rivelazione e ne ha tratto le conseguenze. Né s'è mai soffermata sul momento dei rifiuto stesso, perché la rivelazione stessa le ricordava che l'ira di Dio non è per sempre e che il rifiuto sarebbe stato alla fine seguito da una "nuova elezione di Gerusalemme" (Zac 1,17; 2,16). La Chiesa ha sempre visto in essa la prospettiva del nuovo Israele al quale Is 41, 8 (43,20; 44,2; 45,4) riserva ancora l'antico e significativo titolo: "il mio eletto".
Il ripudio d'Israele, dunque, pur non essendo assoluto, è un dato di fatto; riguarda solo il giudaismo che in Gesù non riconobbe, né riconosce il Messia. Quel rifiuto durerà tanto quanto l'atteggiamento negativo degli Ebrei nei confronti di Cristo. Con "la nuova elezione", tuttavia, resta aperta e luminosa la prospettiva del ricupero32. Un tale ripudio comporta anche una maledizione? È davvero maledetto quel popolo che fu il popolo dell'elezione? Il popolo benedetto?
Non si parla di maledizione se non sulla base della benedizione. Dio stesso prospetta l'una e l'altra al suo popolo (Dt 11,26-28) non perché sia nella libertà del popolo la scelta della benedizione o della maledizione, ma perché esso conosca che la sua benedizione non è assoluta. E infatti ancorata alla sua fedeltà all'amore di Dio e all'osservanza dei suoi comandamenti (Dt 11,28; 30,15-18). Se ne ha un riflesso neotestamentario, di grande rilievo, in Mt 25,41-46: Dio non si diverte a maledire perché esprime il suo amore nella benedizione, e tuttavia maledice chi rifiuta Cristo.
Chi parla di "popolo maledetto" non dà un segnale d'antisemitismo; il significato di "maledizione" è rigorosamente delimitato al rifiuto di Cristo; del resto la parola è d'uso biblico: in Gn 3,14 è maledetto il serpente; in Gn 4,11, Caino. Spesso colpisce chi va contro Dio e la sua Legge (Nm 22,6; 23,8; 2Re 2,24; Lam 3,65). Se, rovesciando le posizioni, colpisce Dio, costituisce il grado più alto dell'infedeltà dell'uomo (Lv 24,11.15; Job 2,9). II Nuovo Testamento esclude che il liberato dalla maledizione possa a sua volta maledire (Lc 6,28; Mat 5,44; Rm 12,14) , ma è addirittura Colui che ci libera dalla maledizione a farsi per noi maledetto (Gai 3,13). In breve, può certamente apparire di cattivo gusto il dir agli Ebrei che son da Dio maledetti, ma nessuno dovrebbe dimenticare che ciò può esser detto soltanto in ottica biblica, in base a criteri dell'Antico e del Nuovo Testamento ed, in ultim'analisi, in base ad un unico criterio che, esplicito o implicito, riassume tutti gli altri: il rifiuto di Cristo.
b. Nell'attuale condizione di popolo ripudiato, è lecito allora affermare che Israele mantien ancora le antiche promesse? che è ancora titolare dell'Antica Alleanza? Nostra aetate 4/b non si pronunzia chiaramente; si limita a dire che Dio, "ex ineffabili misericordia sua, antiquum Foedus finire dignatus est" con Israele, il popolo da Lui eletto, dal quale la Chiesa ebbe poi la rivelazione veterotestamentaria. Un po' più chiaramente s'esprime in 41d, dove, pur ricordando l'opposizione ebraica a Cristo, non ha dubbi sul fatto che "Judaei Deo, cuius dona et vocatio sine poenitentia sunt, adhuc carissimi manent propter patres". Questa giustificazione fa pensare alla continuità delle promesse e dell'Alleanza: quei lontani padri che ebbero da Dio le une e l'altra, son per gli Ebrei d'oggi la garanzia sicura del loro coinvolgimento nelle stesse promesse e nella stessa Alleanza che resero ieri i Padri e rendono oggi i figli "a Dio carissimi". Tuttavia, ciò che rimase tra le righe del decreto conciliare, venne presto reso esplicito da interventi di teologi cattolici e di responsabili dei rapporti tra Chiesa cattolica e mondo ebraico. Perfino la Liturgia del Venerdì Santo, facendo piazza pulita di quel "pro perfidis Judaeis" nel quale i destinatari avvertivano un senso offensivo, l'ha semplificato in "pro Judaeis", aggiungendo la preghiera ch'essi possan "in sui (Dei) nominis amore et in sui foederis fidelitate proficere".
Qui l'Alleanza è un dato di fatto, innegabile; si chiede che la fedeltà ad essa da parte ebraica non solo non venga mai meno, ma cresca. E perché l'orizzonte ideale della nuova Liturgia poss'apparire ancora più terso, la preghiera ricorda le "promissiones" concesse da Dio "Abrahae eiusque semini" e si chiude implorando "ut populus acquisitionis prioris ad redemptionis mereatur plenitudinem pervenire".
Quell' "eiusque semini" rivela un'intenzionalità non criptata, vuoi far capire che le promesse d'Jahvèh non si bloccaron sull'Israele della primissima ora, ma s'estendono ai suoi attuali discendenti. Quali? Quelli "secondo la stirpe" o quelli "secondo la fede"? La risposta è ovvia e trasparente nel richiamo alla redenzione. Non avrebbe senso, infatti, quell'"ad redemptionis pienitudinem pervenire", con riferimento ad un popolo che si definisca pervicacemente per il suo rifiuto del Redentore; sarebbe un nonsenso non solo storico-teologico, ma anche semplicemente logico, non essendo possibile che raggiunga la pienezza della redenzione chi si tiene alla larga dalla redenzione stessa.
Mantengo un rispettoso silenzio su discorsi e scritti ufficiali che assicurano la permanenza degli Ebrei nell'Alleanza salvifica, la prima e mai revocata (?) Alleanza, anzi l'unica che, in quanto tale, non sarebbe né antica né nuova, e che, pertanto, è ugualmente via di salvezza per il mondo ebraico e per quello cristiano. La ragione addotta, vale a dire l'irrevocabilità delle promesse e dell'Alleanza, tien conto del fatto che "i doni di Dio sono irrevocabili", ma ignora un altro fatto e cioè che tali doni posson esser rifiutati. Israele li rifiutò rifiutando Cristo e la sua redenzione, continua anzi a rifiutarli, dunque non li possiede, dunque non è "a Dio carissimo" se l'esser cari a Dio presuppone ed esige la piena ed incondizionata adesione al suo progetto salvifico in Cristo.
Mi permetto d'esprimer il mio dissenso, sereno e sommesso ma senza tentennamenti, dai colleghi che, certo in buona fede, han ripreso la tesi d'Israele destinatario ancor oggi delle antiche promesse e titolare dell'Alleanza33. Nessuno mette in dubbio la realtà scritturisticamente incontestabile d'israele-popolo-delle promesse ed ogni buon teologo conosce l'immutabilità di Dio, il quale "non è un uomo per mentire né un figlio d'Adamo per ritrattarsi" (Nm 23,19). Egli infatti non abbandona nessuno se non ne è abbandonato; ed anche in questo caso è come il padre del figliol prodigo, con le braccia aperte a colui che ritorna al suo cuore di padre. La questione, biblicamente storicamente teologicamente, è questa. Essa vede al centro della storia del popolo eletto il dato incontestabile dell'Alleanza e delle promesse, prima ai patriarchi, poi a David, infine, quando cioè Israele non ha più dignità di popolo, avendo perso re, tempio, onore e capitale, alla Gerusalemme nuova, "madre d'una discendenza innumerevole" (Is 54,3; 60,4) e "casa di preghiera per tutt'i popoli" (Is 56,7). Quando ciò si verifica, Israele non è più monolitico: l'Israele che accoglie e continua la fede d'Abramo, è da questa destinato a collegarsi con una discendenza senza fine e ad esser casa di preghiera per tutt'i popoli: la sua fede in Cristo l'assimilerà alla "creazione nuova" e gli darà di questa il respiro universale. Al contrario, l'Israele che chiude le porte a Cristo, costituisce il punto di rottura rispetto al passato e all'avvenire. Non avrà "una discendenza innumerevole", non sarà "casa di preghiera per tutt'i popoli", perché non sarà più portatore dell'Alleanza e delle promesse. La sua condizione storica ne è rimasta alterata. Tutto s'è in lui progressivamente modificato ed inaridito. L'eredità che l'arricchiva gli è scivolata di mano; l'Alleanza che lo caratterizzava è stata rivolta ad altri (cf Mt 21,41). Si parla ormai d'un'Alleanza nuova, perché quella antica ha perso valore ed efficacia. Ed a parlarne, non è questo o quel dottore privato, non un antisemita di nuovo o vecchio conio, ma l'autore dell"‘Epistola agli Ebrei", un testo canonico contenente la rivelazione cristiana. Eccolo: "Dicendo autem novum, veteravit prius. Quod autem antiquatur et senescit, prope interitum est" (Ebr 8,13).
Che tale evento si sia ormai verificato, l'attesta Ebr. 8,6 rivelando che la funzione mediatrice di Cristo è tanto più elevata, quanto più nobile ed efficace, perché fondata su nuove e definitive promesse, è l'Alleanza di cui Egli è mediatore. II Sacro Testo ci mette di fronte ad una sostituzione: un'altra economia salvifica al posto della precedente, dichiarata caduca e ormai alla fine. Nuova e definitiva ormai è l'altra (SEUtEpaS in 9,6 e 10,9)34.
Se, dunque, il Sacro Testo ha - come ha - ancor un valore, il solo porlo in discussione insospettisce; il trascurarlo, e peggio ancor il riferirsi ad esso per sostener esattamente il contrario di quanto rivela, squalifica chi se ne rende colpevole. E quanto il Sacro Testo rivela, riguarda promesse ed Alleanza che gli Ebrei un giorno ebbero graziosamente da Dio e che non avrebbero mai dovuto rifiutare; cosa che nemmeno oggi dovrebbero fare35, non essendone capaci. La rinuncia alle antiche promesse ed all'Alleanza è implicita nel rifiuto del loro epilogo in Cristo. Anche per questo, dunque, oltre che per il trasferimento dell'Alleanza da un popolo ad un altro, gli Ebrei secondo la carne non ne son più i legittimi titolari. E non posson, perciò, rinunciare a ciò di cui non dispongono più.
c. Il terzo quesito se il popolo ebraico sia ancor il popolo dell'Alleanza, trova una risposta indiretta in quanto precede. Se si tratta degli Ebrei che costituirono "il resto d'Israele" e lo continuano nel tempo, costoro son ancor il popolo dell'Alleanza: non in quanto razza ebraica e discendenza carnale dal loro capostipite, ma in quanto acquisiti per la fede alla redenzione di Cristo.
Se invece si tratta di quel popolo ebraico che si configura in termini etnico-religiosi secondo l'ebraismo talmudico e postcristiano, continuando a definirsi in base alla sua secolare ripulsa di quel Cristo sul quale già s'appuntavano le antiche promesse, la risposta non può esser che negativa. L'Alleanza antica è stata sostituita e Cristo è il mediatore unico della nuova (cf Ebr 12,24).
5 - Conclusione - In fondo al percorso che m'ero prefisso, m'accorgo che potrei dir ancora tante cose, sulle quali, invece, taccio per non eccedere nell'uso del tempo mio ed altrui.
Continuando un'osservazione iniziale sulla totale estraneità di quanto esposto alla ricorrente accusa d'antisemitismo, non nego che l'antisemitismo ci sia; se ne vedono spesso le manifestazioni e le conseguenze. Dico solo che un sereno e serio discorrere su dati biblico-teologici riguardanti gli Ebrei non ha nulla che fare con l'antisemitismo. E nemmeno con i piani egemonici degli apocrifi Protocolli dei Savi di Sion, e con le biliose ritorsioni antitedesche di provenienza giudaica, di cui in Occhio per occhio di John Sack36.
Non è facile capire in che cosa l'antisemitismo consista: evidentemente il suo significato s'evince dal prefisso "anti" che precede il sostantivo "semitismo". Ma ciò solo in parte fa luce su un concetto che di per sé non è di facile comprensione. Quando Pio XI dichiarò che siamo tutti semiti, non disse un assurdo: semiti furono infatti Maria, Giuseppe, gli Apostoli e, nella sua umanità, lo stesso Gesù. Tuttavia, ad avvalorare la sua asserzione, Pio XI la precisò con l'avverbio "spiritualmente" e con il riferimento alla fede: quanto ad essa, infatti, tutti discendiamo da Abramo che, per la fede, vide i giorni del Signore Gesù e ne gioì (Gc 8,56). L'antisemitismo significa, allora, un comportamento o un indirizzo avverso al popolo ebraico? Nessun biblista e nessuno storico risponderanno di sì senza ma e senza se. Semita infatti non ha un significato univoco, pur rimandando a Sem ed ai suoi discendenti (Gn 10,21), la cui complicatissima classificazione, peraltro, segue criteri culturali, storici e geografici, più che caratteristiche etniche. Sembra infatti che, assai più d'altre ragioni, sian le lingue di varie popolazioni e la loro corrispondenza reciproca ad unificarne il raggruppamento sotto il nome di Semiti. E l'analisi delle lingue ha portato alla conclusione che furon certamente Semiti:
a. gli Accadi della Mesopotamia al tempo dei Sumeri;
b. gli Amorrei della valle del Tigri e dell'Eufrate fino al Golfo Persico;
c. gli Aramei del deserto siro-arabico e dintorni dei Golfo d'Alessandretta;
d. i Cananei della zona tra il Libano, la Siria, la Palestina, la depressione tra il Mar Rosso, il Golfo d'Aqaba ed i territori tra il Mediterraneo ed il deserto siro-arabico. Cananei son pure i Fenici, gli Ammoniti, i Moabiti (cf Gn 19,3038), gli Idumei (da Esaù=Edom) e gli Ebrei (da Giacobbe=Israele).
e. Sono infine di discendenza semitica anche gli Etiopi e gli Arabi37.
Se il mio scritto nascesse da spirito antisemitico, sarei curioso di sapere contro quale delle popolazioni sopra indicate sarebbe rivolto. E se per caso fossero gli Ebrei a sentirsene colpiti, la curiosità aumenterebbe per capire come e perché essi unifichino su se stessi dei rilievi storico-teologici che, in teoria, potrebbero riguardare tutti gli altri Semiti.
Sarà solo una mia impressione, ma a me par eccessivo ed un po' puerile il cedere acriticamente alla moda ormai largamente diffusa di veder un po' dovunque non solo un antisemitismo che risolleva la testa, ma che la volge, oltraggioso ed impudente, in direzione antiebraica. A tale riguardo, sarà opportuno chiarir l'idee.
Fermo restando che antisemita non significa soltanto antiebreo, il "soltanto" dovrà esser espunto da ogni esposizione critico-scientifica. Riconosco, peraltro, che al detto significato limitativo fu riservata un'accoglienza pressoché unanime in seguito a persecuzioni scatenate da motivi razziali, economici, sociali, politici, nelle quali il dato religioso era preminente. Con l'accusa d'antisemitismo, tuttavia, sono state impropriamente bollate, qualche volta - ed oggi in particolare -, quelle espressioni di senso negativo nei confronti degli Ebrei, che affiorano lungo la storia dei rapporti giudeo-cristiani38. Non mi pare criticamente corretto il metter tutto sullo stesso piano. Che si sia ecceduto nei toni, è indubbio ed è deprecabile, soprattutto quando ad eccedere fu un testimone della religione dell'amore, magari ai vertici del governo ecclesiastico; ma torno a ripetere che non si trattò d'antisemitismo, puerilmente ancorato all'accusa d'omicidi rituali39, di pozzi avvelenati40 e d'ostie profanate 41. La causa dell'opposizione cristiana e segnatamente cattolica era di natura rigorosamente religiosa e, come tale, non riconducibile né ad una ragione razziale, né a contrapposizioni politiche. Sull'altra sponda, infatti, c'era il ripudio di Cristo, della sua rivelazione, della sua Chiesa; da questa matrice, squisitamente religiosa, insorgeva l'accusa di "maledizione" e di "deicidio".
Sulla prima di esse ho già detto molto di quanto pensavo che dovesse esser detto, sulla seconda mi permetterò tra breve qualche osservazione. Su ambedue, peraltro, mi si permetta d'insistere per sottolineare l'acriticità del peso che P. Demann addebita ali' "assurdità teologica" e alla "carica dell'odio"42. È assurdo teologicamente - l'avverbio indica un ben determinato settore dello scibile ed esclude il valore assoluto dell'asserto - ciò che contraddice alla sacra rivelazione, alla realtà dei fatti ai quali essa si riferisce, alla dottrina della Chiesa che su di essa si fonda. Ora, l'equivoco della "mai revocata Alleanza" in base all"`irrevocabilità dei doni di Dio" può aver indotto a giudicare assurdo, teologicamente parlando, anche ciò che tale non è. Ma, appunto, si tratta d'un equivoco. In Gal 3,14-15 si legge che "Christus nos redemit de maledicto legis...ut in Gentibus benedictio Abrahae fieret...per fidem". Qui tutt'è chiaro. La benedizione antica, l'Antica Alleanza, i doni che Dio aveva elargito al popolo eletto son passati, mediante la fede, ai pagani. Chiunque creda in Cristo cessa d'esser ebreo o romano o greco, perché diventa una "creazione nuova". E nuova grazie a quella benedizione il cui destinatario, ieri, era il popolo ebraico ed oggi è chiunque, da qualunque popolo, confessi in Cristo il Figlio di Dio, l'unico mediatore, il proprio salvatore (cf 1Tm 2,5; ct 4,12; 10,43; 1Cr 1,30; Rm 5,9-10; Gv 3,18; 10,9; Mc 16,15). Lo stato di popolo eletto si concluse con il no a Cristo; ciò che lo costituiva eletto è passato ad altri: "veniet et perdet colonos et dabit vineam aliis", si legge in Mc 12,9. Quel "perdet" mette in evidenza la riprovazione e la condanna.
È, dunque, teologicamente assurdo non il trarre, "in lumine fidei, sub ductu Ecclesiae", le dovute conseguenze dalla rivelazione neotestamentaria; bensì, il contrario. Ma l'accusa di "deicidio "rientra nel teologicamente assurdo o nel teologicamente corretto?
La questione, in questi termini, e soprattutto se la si fondi sul presunto parallelismo della maternità divina43, è mal posta. Maria ha diritto al titolo di "Madre di Dio" sia perché generò Colui che è l'Unigenito del Padre e, come tale, Dio egli stesso, sia perché le spiegazioni che ebbe dall'Angelo al momento dell'Annunciazione la misero in condizione d'emettere un "sì" pienamente responsabile e di totale adesione al progetto di Dio. Nell'uccisione di Cristo non si riscontra questa medesima coincidenza di causalità materiale e formale. Chi ,lo mise a morte uccise, sì, il Figlio di Dio, non perché proprio il Figlio di Dio volesse uccidere, bensì colui che, definendosi tale, aveva bestemmiato e meritato l'esecuzione mortale. La causale unica dell'uccisione di Cristo fu una bestemmia: "Pur essendo uomo, s'è detto Dio". Gesù, dunque, fu messo in croce non perché era Dio, ma perché si diceva Dio. Il deicidio, pertanto, è qui solo "materialiter" presente, ma "formaliter" è del tutto assente.
È vero che in Act 3,14-17 l'apostolo Pietro rimprovera agli Ebrei d'aver tradito e rinnegato dinanzi a Pilato "il Santo ed il Giusto", cioè il Figlio poi risuscitato dal Padre, e d'avergli preferito un omicida. Ma non accenna per nulla alla consapevolezza degli Ebrei che Gesù fosse davvero Figlio di Dio, né alla loro conseguente determinazione d'ucciderlo per tale ragione : "Santo e Giusto" non significano "Dio" né "Figlio di Dio". Anzi, la responsabilità del deicidio è almeno implicitamente espunta da Pietro là dove osserva: "Scio quia per ignorantiam fecistis"44.
Che la questione sia mal posta si deduce anche da un altro motivo. Quasi sempre, alla liberazione degli Ebrei dall'accusa di deicidio si fa seguire un richiamo al coinvolgimento di tutti i peccatori, d'ogni tempo e luogo, nella morte di Gesù. In effetti, già Is 53,5.6 aveva sottolineato ch'Egli sarebbe "stato trafitto a causa dei nostri peccati, ...e dei nostri delitti". Inoltre, una tradizione ininterrotta porta attraverso i secoli la voce della Chiesa, la quale ne ripete il contenuto e lo raccoglie nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dove confluisce a sua volta l'insegnamento del Catechismo Romano, ispirato al Concilio di Trento e come tale approvato nel 156645: "La Chiesa, nel magistero della sua fede e nella testimonianza dei suoi santi, non ha mai dimenticato che «ogni singolo peccatore è realmente causa e strumento delle sofferenze» del divino Redentore... La Chiesa non esita ad imputare ai cristiani la responsabilità più grave nel supplizio di Gesù, responsabilità che troppo spesso essi hanno fatto ricadere unicamente sugli Ebrei". Questione mal posta, perché trasferita dal piano storico-giuridico a quello morale-teologico. Su questo piano si sa, per l'attestazione che ne dà la stessa rivelazione in 1 Cor 2,8, che gli Ebrei "non avrebbero mai crocefisso il Re della Gloria" se come tale l'avessero conosciuto. Sta di fatto, però, che furon gli artefici della sua crocefissione. La conseguenza da trarre è che:
a. sul piano storico, la loro responsabilità è innegabile, così come innegabile è il concorso d'altri soggetti;
b. sul piano teologico, manca nel modo più assoluto la formalità che configuri l'esecrando delitto di deicidio, nonostante che la vittima crocefissa fosse proprio il Figlio di Dio.
A mio modesto parere, anche la non estensibilità della responsabilità suddetta ai membri attuali del popolo ebraico presta il fianco a qualche riserva. Nessuno, sia ben chiaro, intende sostenere la non pertinenza personale delle colpe: chi le ha commesse, ne porta la responsabilità e le conseguenze. Ciò, tuttavia, non autorizza a chiudere gli occhi su una qualche loro continuità. La stessa Scrittura avverte a tale riguardo che, come di generazione in generazione si diffonde la lode del Signore (Ps 78,13), così Egli rimprovererà l'iniquità commessa fino alla terza e alla quarta generazione (Es 20,5; Nm 14,18). C'è una solidarità di fondo, infatti, alla quale nessuno sfugge. E la solidarità che stringe ogni singolo uomo nell'unità del genere umano, ma anche quella che fa di determinati individui un unico e medesimo popolo. All'interno di esso, ovviamente, agiscono i capi, ma impersonando il popolo e spesso in suo nome. Fu certamente dei capi d'Israele la responsabilità della crocefissione di Gesù, ma il popolo non se ne dissociò, anzi la fece propria e l'invocò. Ne consegue che, se gli Ebrei d'oggi - e l'esser ebreo, per confessione degl'interessati46, è il collegamento a due valori costitutivi, la religione e la nazione, i quali trascendono gl'individui d'ieri d'oggi e di domani - non commisero personalmente il misfatto della crocefissione, non per questo non ne condividono moralmente la responsabilità ed il peso. Per la misteriosa solidarità che li congiunge nell'unità del popolo ebraico, son anch'essi, che pure a quel misfatto non parteciparono personalmente, solidali con esso in quanto Ebrei47.
Un'ulteriore conseguenza riguarda la decisione dei Padri conciliari, nella fase preparatoria di Nostra aetate, d'appoggiare la loro benevola presa di posizione nei riguardi d'Israele a Rm 11,28-29 non senza un uso piuttosto libero del testo sacro. Esso dice: "Secundum Evangelium quidam, inimici propter vos: secundum electionem autem, carissimi propter Patres. Sine poenitentia enim sunt dona et vocatio Dei". Il testo approvato è il seguente: "Secundum Apostolum, Judaei Deo, cuius dona et vocatio sine poenitentia sunt, adhuc carissimi manent propter Patres" (NAe 4/d).
Che l'uso del testo fosse piuttosto libero fu chiaro agli stessi Padri conciliari, come risulta dalla Expensio modorum. Ma è ancor più chiaro in sede esegetica. L'Apostolo scrive a cristiani provenienti dal paganesimo, contro i quali gli Ebrei sono spesso in disaccordo. Egli intende metterne a fuoco le peculiari posizioni e presenta agli etnico-cristiani la reale situazione degli Ebrei: "invisi a Dio" in quanto nemici dell'Evangelo ed a Lui cari in considerazione dei loro Padri. Essendo stati gratificati da Dio con la scelta del Messia dai loro ranghi ed avendone per primi ascoltato l'Evangelo, per primi avrebbero anche dovuto accoglierne la parola e metterla in pratica. La rifiutarono. Il rifiuto è tuttora in atto. Perciò non son più amici di Dio. Discendono però dai Padri, attraverso i quali venne loro assicurata l'elezione che li rende a Dio carissimi: dunque, non in quanto Ebrei che rifiutano Cristo - sotto questo aspetto sono anzi "invisi" -, ma in quanto eredi di quei Padri che predissero Cristo e la sua salvezza, ed in quanto chiamati, essi pure, alla conversione per la gloria eterna. L'elezione - e con essa le promesse, la benedizione, l'Alleanza - ha la sua continuità nella "creazione nuova" operata da Cristo, il quale pertanto si pone dinanzi a tutti, Ebrei compresi, come l'unico Salvatore. Non avrebbe senso, altrimenti, il continuo ripetere da parte della Chiesa che l'unico Salvatore è Cristo, se non lo fosse anche per gli Ebrei.
In questa luce è da interpretare Rm 11,29: "i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili". Lo sono, certamente, ma secondo l'eterno progetto salvifico di Dio, realizzato da Cristo. Lo si capisce anche grammaticalmente parlando: infatti, la presenza dell'articolo determinativo (τά ed η) individua non doni generici o comuni, ma quegli specialissimi doni che si concentrano nell'Alleanza di Dio col suo popolo: l'antico ed il nuovo Israele48.
Ad esso son chiamati anche gli Ebrei. In esso, con la tensione amorosa del Padre verso il figliol prodigo (Lc 15,11-32), Dio ne attende e ne vuole l'integrazione.
 

NOTE
1 Israél et les nations. La perspective missionnaire de l'Ancien Testament, Delachaux & Niestlé, Neuchatel-Parigi 1959.
2 ...on doit reconnaitre qu'en théorie...le Talmúd émettait des principes de franc universalisme», J. BONSIRVEN, Talmúd, in DThC XV, Parigi 1946, c. 22.
3 Da notare che "Lethal Weapon" è il titolo d'un altro film di Mel Gibson: un accostamento senza dubbio intelligente.
4 E. RATIER, Misteri e segreti del (sic!) B'nai B'erîth. La più importante organizzazione ebraica internazionale, tr. it. dal fr., Verrua Savoia 1998, p. 198-207; cf. EPIPHANIUS, Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, volume di 545 pagine, privo d'altre indicazioni (editore, luogo e data d'edizione), p. 476-489.
5 Dal "Dossier sul Film La Passione", pubblicato da "Sodalitium" XX/4 (2004) 4-18.
6 Tra le moltissime introduzioni all'Antico e al Nuovo Testamento scelgo C. ZEDDA, Introduzione ai Vangeli, Roma 1957 (volume prezioso, informato ed aggiornato sulla produzione scientifica del suo tempo, e proprio per questo ancor valido) e "Bible de Jérusalem", Parigi 1974, p. 1407-1413.
7 Con testi di R. Royal, L. Baugh e G. Bertagna, Milano 2004.
8 Ivi, p. 84.
9 Cf. B. GHERARDINI, Coscienza cattolica e cultura contemporanea, Roma 1987, p. 208.
10 La Passione, cit. p. 86.
11 Per opportune notizie si veda E. COHEN, Maimonides, in RGG, IV. Tubinga 19603, c. 611-612; H. BAMBERGER, Das System des Maimonides, Berlino 1935; E. GILSON, La Philosophie au Moyen Age, Parigi 19722, p. 373ss.
12 La Passione, cit. p. 22.
13 R. S. HIRSCH, Ueber die Beziehung des Talmuds zum Judentum und zu der sozialen Stellung seiner Bekenner, Francoforte s.M. 1884, p. 5, dove si sostiene che il Talmúd "è l'unica sorgente dell'attuale Giudaismo, il suo fondamento, l'anima vivente che l'ha modellato e consacrato". Si veda anche il cit. J. BONSIRVEN, DTHC XV, c. 9-30; A. STEINSALZ, The Talmúd, A reference guide, New York 1989; I. SHALAK, Storia ebraica e Giudaismo. Il peso di tre millenni, Verrua Savoia 20002, p. 69-99.
14 A. STEINSALZ, cit. da I. SHALAK, Storia, cit. p. 98. In realtà, non è facile sintetizzar in breve che cosa sia il Talmúd. Basti dire ch'esso è duplice: quello babilonese, la vera autorità del mondo giudaico, e quello palestinese, in funzione supplementare. Consta della Mishnah e della Gemara. L'una, in lingua ebraica, è un codice di leggi in sei volumi, redatti dal 200 dell'era volgare in poi; l'altra, molto più voluminosa della prima e scritta per lo più in lingua aramaica, "è un'esegesi della Mishnah e dei libri biblici" con una parte babilonese (tra il 200 e il 500) ed una palestinese (tra il 200 e prima del 500).
15 J BONSIRVEN, Talmúd, cit., c. 26: "...expliquant comment le fondateur du Christianisme fut mis à mort en punition de ses crimes d'hérésie et de magie". Le accuse infamanti contro Gesù e sua madre Maria vennero poi riprese nel IX sec., dall'autore del satanico pamphlet Toledot Jesu.
16 D. KLINGHOFFER, in "Los Angeles Time" 1 gennaio 2004. Cf. La Passione, cit. p. 22.
17 È interessante quanto al riguardo scrive un Autore che pur indulge all'interpretazione storicizzata delle Scritture, J. MCKENZIE, Il Vangelo secondo Matteo, in E. R. BROWN - J. A. FITZMEYER - R. E. MURPHY, Grande commentario biblico, Brescia 1973, p. 965: "Togliere i capi giudaici dalla scena del racconto della Passione equivale in pratica a negare qualsiasi carattere storico del racconto ...Ma il racconto è indubbiamente storico, anche se a carattere popolare". Se dunque è storico, lo è non per i soli capi, ma anche per tutto il popolo, che gridò ad una sola voce: sia crocefisso e il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli!
18 Dei Verbum 12: "...Scripturae libri veritatem, quam Deus nostrae salutis causa Litteris Sacris consignari voluit, firmiter, fideliter et sine errore profitendi sunt". Il testo, quarto e definitivo lungo l'iter della sua formulazione, s'appoggia all'autorità di Sant'Agostino, di San Tommaso, del Tridentino, di Leone XIII e di Pio XII. Sarebbe certo interessante una verifica a tale riguardo, ma difficilmente contenibile in poco spazio. È significativo ricordare che la quarta stesura della Dei Verbum soppresse ogni riferimento all'inerranza biblica, per poter sostenere che esente da errore nella Bibbia, e specificamente nel Nuovo Testamento, è tutto ciò che riguarda il messaggio della salvezza. Cf. DACQUINO P., L'ispirazione dei libri sacri e la loro interpretazione, in AA.VV. La Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, 3. vol collana "Magistero Conciliare", Torino-Leuman 19673, p. 297-304.
19 CONC. OECUM. VATIC. I, Constit. Dogm. "Dei Filius", 3: De Fide, can. 4, DS 3029; Cf. NICOLAU V. M., Sacrae Theologiae Summa, Madrid 1962, p. 1064ss.; J. RENIÈ, Manuel d'Exégèse Biblique, 1.Lione-Parigi 19496, p. 58-61; G. PERRELLA - L. VAGAGGINI, Introduzione generale, 1.Torino 19603, p. 10-72; A. ROMEO, Ispirazione biblica, in AA.W., Il Libro Sacro; Padova 1958, p. 55-189; H. HOEPFL, Introductio generalis in Sacram Scripturam, Roma-Napoli 19586, p. 19-118.
20 LEONE XIII, Ep. Encicl, Providentissimus Deus, 18 nov. 1893, in ASS 26 (1893/94) 278ss., e DS spec. 3291-3294; Pio XII, Ep. Encicl. Divino afflante Spiritu, 30 settem. 1943, in ASS 35 (1943) 309ss. e DS spec. 3826-3831.
21 Decr. "Optatam totius" 16/a; "Dei Verbum" 24; "Lumen gentium" 25; Pio XII, Ep. Encici. Humani generis, 12 ag. 1959, in AAS 42 (1950) 567-569; Alloc. Si diligis, 31 mag. 1954, in AAS 46 (1954) 314; PAOLO VI, Alloc. 12 mar. 1964, in AAS 56 (1964) 364.
22 Cf. J. V. BAINVEL, Les contresens bibliques, Parigi 19062; G. Riccioni, Bibbia e non Bibbia, Brescia 19474.
23 Cf. Bible de Jérusalem, Parigi 19742, p. 1559, nota f: Les chefs juifs et spécialement Caiphe, 11,51s; 18,14, mais aussi Judas qui l'a livré à ceux-ci, 6,71; 13,2.11.21; 18,2.5.
24 R. LAURENTIN, Conferenza tenuta a Roma, in Nostra Signora di Sion, nel nov. del 1965, in Bilan du Concile, Parigi 1966, p. 133-135.
25 Su questa frase non si deve insistere troppo, perché era una frase corrente, più volte ripetuta dalla Sacra Scrittura (Lv 20,9; Gios. 2,19; 1Sam 1,16; 1Re 2,33), sembra anzi che lo sia tuttora in Oriente, ed abbia solo il senso d'indicare un reo meritevole di morte.
26 Cf. G. BAUM, Les Juifs et l'Evangile, Parigi 1965, p. 165ss.; ID., Declaration of Vatican II on the relation of the Church to the non-Christian Religions, in Center for Biblical and Jewish Studies, 8 (1966) sp. p. 4; A. BEA, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia 1966, p. 141-162. Sarà opportuno notare che il c.d. senso tipico può riscontrarsi, propriamente parlando, tra Vecchio e Nuovo Testamento, e precisamente là dove l'uno prelude in alcuni episodi e personaggi ad episodi e personaggi dell'altro, oppure là dove, da come Dio si comportò in alcune situazioni descritte dalla Scrittura, s'arguisce pure il suo comportamento in situazioni analoghe (cf. 1Cr 10,1-11). Un ricorso al senso tipico che, al di là di tali limiti, può risolversi in un puro e semplice soggettivismo, già venne escluso dall'Ep. Encicl. Humani generis (AAS 42/1950/568-570). Il senso tipico deve infatti risultare dalla stessa rivelazione e solo allora può addursi a prova d'una verità cristiana, la quale, peraltro, s'affida ordinariamente ed insuperabilmente al senso letterale ed ai passi espliciti del testo rivelato, Cf. SAN TOMMASO, STh I, 1, 10 ad 1; Quodl 7, 14 ad 4.
27 F. LovsKI, Antisémitisme et mystère d'Israél, Parigi 1955, p. 226. Va notato che le comunità ebraiche, fiorenti al tempo di Gesù in Mesopotamia, in Egitto, in Asia minore, a Roma e in tutto il bacino mediterraneo, nulla detraggono a danno della realtà e condizione di popolo, proprie degli Israeliti rimasti in patria; anzi, opponendosi quasi ovunque al messaggio di Cristo, ne seguon l'esempio e ne partecipano le responsabilità.
28 PONT. CONSIGLIO GIUSTIZIA E PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 20043, n. 386, p. 211.
29 Cf. E. TOAFF, Essere ebreo, Milano 1994, p. 13: "Ebreo è un popolo che ha una religione. I due concetti sono inscindibili. L'identità ebraica è costituita soprattutto dall'appartenenza al popolo ebraico".
30 Anzi, con Cristo ed in Cristo le stirpi stesse vengono meno: Gal 3,27-29: "Quicumque enim in Christo baptizati estis, Christum induistis. Non est Judaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus neque femina. Omnes enim vos unum (eU maschile) estis in Christo"; Rm 10,12: "Non enim est distinctio Judaei et Graeci".
31 P. es., A. RAVENNA, L'ebraismo postbiblico, Brescia 1958; D. JUDANT, Jalons pour une théologie chrétienne d'Israél, Parigi 1975; G. Ricciotti, Storia d'Israele, 1.Torino 1932, p. 139-338; P. HEINISH, Geschichte des Alten Testaments, Bonn 1950, p. 39-153. Non mi pare però che la distinzione sia da questi ed altri Autori scavata in tutta la sua intelligibilità.
32 Di tutt'altro parere è B. HUSSAR, La religione giudaica, in AA.VV., Le religioni non cristiane nel Vaticano Il, Torino-Leumann 19672, p. 252-261 secondo il quale gli Ebrei non sono dei riprovati per la semplice ragione che la riprovazione non ebbe mai luogo. A mio modesto avviso, questo è un grave errore, dovuto alla mancata distinzione tra il giudaismo talmudico e il giudaismo del "resto d'Israele", l'uno indubbiamente ripudiato da Dio che non poteva approvarne il rifiuto di Cristo, l'altro da Dio costituito in continuità con le antiche promesse per la sua fede in Cristo.
33 Alludo specialmente ai relatori del Simposio storico-teologico del 30 ottobre-1 novembre 1997, i cui Atti figurano in Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano. Colloquio internazionale, Città del Vaticano 2000, con particolare attenzione per M. Dubois, P. Beauchamp, I.-M. Garrigues. Rimando poi a A. BEA, Il popolo ebraico nel piano divino della salvezza, in Civiltà Cattolica, 6.11.1965, p. 209-229; P. BEAUCHAMP, L'Église et le peuple juif, in Etudes, 321 (1964) 249-268; Gr. BAUM, Les Juifs et l'Évangile, Parigi 1965; BR. HUSSAR, Destinée d'lsraél et destinée du Chrétien, in La vie spirituelle, 100 (1959) 595-622; ID., Réflexions sur le Mystère d'lsraél, in Bible et Terre Sainte, gennaio 1966; W. D. MARSCH-K. THIEME, Christen und Juden. lhr Gegenúber vom Apostelkonzil bis heute, Magonza-Gottinga 1961; J. DE MENASCE, Quand lsraél alme Dieu, Parigi 1931; N. LOHFINK, L'Alleanza mai revocata. Riflessioni esegetiche per il dialogo tra cristiani ed ebrei, Brescia 1991.
34 Un grande, forse il più grande commentatore dell'"Ep. agli Ebrei", C. Spico, L'Epítre aux Hébreux, Parigi 19532, p. 244, scrive al riguardo: "Le mot important de l'oracle prophétique est KaLVtj; sa portée est plus grande qu'il ne paraît. On aurait pu concevoir que Dieu allait rajeunir, modifier, améliorer une alliance qui semblait faite pour durer toujours. Non point. Dès là qu'il annonce une SLae1K11 KcLV, il rend irrémédiablement vieille (cf. le parfait) la précédente; celle-ci n'est plus seulement ancienne, mais périmée et caduque. ‘Nouvelle' doit donc s'entendre au sens d'innovation qui remplace purement et simplement un ancien ordre de choses".
35 Cf. LOHFINK N., L'Alleanza mai revocata, cit. p. 17-18.
36 SACK, Occhio per occhio. Polonia 1945: la storia della vendetta ebraica contro i nazisti, Milano 1995.
37 Si veda G. LEVI DELLA VIDA, Les Sémites, Parigi 1938; S. MOSCATI, Storia e civiltà dei Semiti, Bari 1949 (10552); W. VON SODEN, Semiten, in RGG3 V. Tubinga 1961, c. 1690-1693; E. HAMMERSHAIMB, Semitiche Sprachen, ivi c. 1694-1696.
38 Se ne ha una documentazione storica, forse un po' troppo "gridata", in Autori come FR. LOVSKI, Antisémitisme, cit. p. 146-148.196-198.305-308; L. POLIAKOV, Du Christ aux Juifs de cour, Parigi 1955, p. 64-65. 72-80
39 L. POLIAKOV, Du Christ, cit. p. 72-80.
40 Ivi p. 115.
41 FR. LOVSKI, Antisémitisme, cit. p. 197.
42 P. DEMANN, Les Juifs sont-ils-maudits? in Cahiers Sioniens, luglio,1948, p.277.
43 Cf. al riguardo P. BEAUCHAMP, L'Église et le peuple juif, in Etudes, sett. 1964, p. 265ss.
44 C'è un bel testo in SANT'AGOSTINO, Enarr. in Ps. LXV,5 PL 36,5 dove l'accusa di deicidio vien allontanata dagli Ebrei crocefissori di Cristo, perché, "se l'avessero saputo, non avrebbero crocefisso il Signore della Gloria" (1Cor 2,8).
45 CCC (Libr. Editr. Vatic. 1992) 598; Cat. Rom., I, 5, 11 (Ed. BAC Madrid 1956, p. 124).
46 Cf. E. TOAFF, Essere ebreo, cit. p. 13.
47 Cf. J. MARITAIN, Le mystère d'Israèl et autres essais, Parigi 1965, p. 34-37 che insinua una colpa nazionale e parla di "castigo-avvenimento"; la parola di Maritain è tanto più probante in quanto egli appartiene al folto gruppo dei favorevoli ad Israele e condanna con essi l'antisemitismo.
48 Interessantissimo a tale riguardo Rm 11,30-32 che costituisce un po' l'interpretazione dei due precedenti versetti. L'Apostolo parla sempre ai cristiani dell'Urbe, convertiti dal paganesimo, e dice: Anche voi, un tempo, foste a Dio ribelli (ribellarsi-ribellione, cf. Rm 11,10.21); oggi però che la mancata obbedienza degli Ebrei fu l'occasione della vostra conversione, siete voi ad aver ottenuto la misericordia di Dio. Ma la misericordia da voi conseguita è ora all'origine della ribellione ebraica. La relazione s'è invertita: la misericordia che Dio ha rivolto a voi è un dativo che i grandi esegeti considerano causale) è ordinata alla (ίνα, finale) conversione degli Ebrei. Dio, in effetti, tutti chiuse nella disobbedienza, per aprir a tutti, pagani ed Ebrei, la sua misericordia.

da  “FIDES CATHOLICA”  , anno 2008 - n.1,  pagg.  245-278


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