Continuo nell'esame di alcuni dei punti
controversi del concilio. Per la riflessione comune e per capire le dinamiche
attuali, in attesa, di un futuro necessario riequilibrio. (Il testo che segue è
tratto dal libro: Maria Guarini, La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica
dopo il Vaticano II, Ed. DEUI Rieti 2012, richiedibile anche a
maria.guarini@gmail.com - Euro 21 comprese le spese di spedizione)
Unità o aggregazione? |
Primo: «la Chiesa cattolica possiede la pienezza del Cristo» e non deve perfezionarla ad opera delle altre confessioni.
Secondo: non si deve perseguire l’unione per via di una progressiva assimilazione delle varie confessioni di fede né mediante un’accomodazione del dogma cattolico ad altro.
Terzo: l’unica vera unione delle Chiese può farsi soltanto con il ritorno (per reditum) dei fratelli separati alla vera Chiesa di Dio.
Quarto: i separati che si ricongiungono alla Chiesa cattolica non perdono nulla di sostanziale di quanto appartiene alla loro particolare professione, ma anzi lo ritrovano identico in una dimensione completa e perfetta («completum atque absolutum»).
Nell’Unitatis
redintegratio l’Instructio del 1949 non è mai citata e non lo è
neppure il vocabolo ritorno (reditus). Dunque alla reversione è
subentrata la conversione.
Afferma in proposito Romano Amerio: « Le confessioni cristiane, compresa la cattolica, non devono volgersi l’una all’altra, ma tutte insieme gravitare verso il Cristo totale che trovasi fuori di esse (non più nella Chiesa cattolica, quindi) e in cui esse devono convergere ».[1]
Afferma in proposito Romano Amerio: « Le confessioni cristiane, compresa la cattolica, non devono volgersi l’una all’altra, ma tutte insieme gravitare verso il Cristo totale che trovasi fuori di esse (non più nella Chiesa cattolica, quindi) e in cui esse devono convergere ».[1]
Ne consegue il cambiamento dottrinale: la
Chiesa di Roma non è più il fondamento e il centro dell’unità cristiana e la
vita storica della Chiesa, che è la persona collettiva del Cristo, converge
intorno a più centri (le varie confessioni cristiane) il cui centro più profondo
sussiste al fuori di ciascuna di esse; il cambiamento implica che i separati non
devono muovere verso il centro immobile che è la Chiesa guidata da Pietro.
L'unità quindi non è più considerata già nella storia e cade la necessità di
rifarsi ad essa escludendo a priori qualunque pluralismo paritario. Viene meno
quindi la « riaffermazione della trascendenza del Cristianesimo il cui
principio, che è il Cristo, è un principio teandrico vicariato storicamente dal
ministero di Pietro ». [2]
L’argomentazione di Amerio spicca
per la sua adamantina chiarezza e semplicità: « Veramente nel discorso inaugurale del secondo periodo Paolo VI ripropose la dottrina tradizionale asserendo che i separati «mancano della perfetta unità che solo la Chiesa cattolica può loro dare». Il triplice vincolo di tale unità è costituito dall’identica credenza, dalla partecipazione agli identici sacramenti e dalla «apta cohaerentia unici ecclesiastici regiminis», anche se questa unica direzione rispetterà una larga varietà di espressioni linguistiche, di forme rituali, di tradizioni storiche, di prerogative locali, di correnti spirituali, di situazioni legittime. Ma nonostante le dichiarazioni papali il decreto Unitatis redintegratio respinge il reditus dei separati e professa la tesi della conversione di tutti i cristiani. L’unità non deve farsi per ritorno dei separati alla Chiesa cattolica, bensì per conversione di tutte le Chiese nel Cristo totale, il quale non sussiste in alcuna di esse ma va reintegrato mediante la convergenza di tutte in uno. Dove gli schemi preparatorii definivano che la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica, il Concilio concede soltanto che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, adottando la teoria che anche nelle altre Chiese cristiane sussiste la Chiesa di Cristo e che tutte devono prendere coscienza di tale comune sussistenza nel Cristo. Le Chiese separate, come scrive in OR, 14 ottobre, un cattedratico della Gregoriana, sono riconosciute dal Concilio come «strumenti di cui lo Spirito Santo si serve per operare la salvezza dei loro aderenti» [UR, nn. 21-23 - ndR]. Il cattolicismo, in questa veduta paritaria di tutte le Chiese, non ha più nessun carattere di preminenza e di esclusività ».
La variazione nella dottrina consiste dunque
nel fatto che l’unione di tutte le Chiese si faccia anziché nella Chiesa
cattolica, nella cosiddetta Chiesa di Cristo e per un moto di convergenza di
tutte le confessioni verso un centro che è fuori di ciascuna. Da una
variazione del genere del concetto di unione dei cristiani consegue
inevitabilmente anche la variazione nel concetto di missione: le
religioni non cristiane devono entrare nell’unità religiosa dell’umanità e,
esattamente come per i fratelli separati, ciò avviene non già per effetto della
loro conversione al Cristianesimo, ma è già presente nei loro intrinseci valori
che basta approfondire, ritrovando così quella più profonda verità che soggiace
a tutte le religioni.
I discorsi e i documenti di Giovanni Paolo II e
soprattutto la sua Enciclica Ut unum sint, disegnano l’impegno ecumenico
come una strategia del dialogo, piuttosto che come espressione di una profonda e
inalienabile esigenza dell’unità e unicità della Chiesa. E, così pure Benedetto
XVI ha più volte ribadito: “L’impegno ecumenico della Chiesa cattolica nella
ricerca dell’unità cristiana è irreversibile”. Ora, un conto è riconoscere e
affermare l’ecumenicità del Chiesa nel senso della sua costitutiva
proprietà insita nella cattolicità proiettata su tutta la terra e su tutta
l’umana famiglia (Καθ’όλον), un conto è fondare l’impegno ecumenico sulle
strategie umane, senza più avere come punto di partenza l’ontologia della Chiesa
e la sua implicita tensione all’unità, che non può discendere da comportamenti
contingenti, ma nella fedeltà alla sua missione universalistica.
Ciò significa che l’ecumenismo non è stato una
scoperta del Concilio, ma esso è da sempre nell’autocoscienza ecclesiale. «
Vi è, tuttavia, con una sua configurazione, diametralmente opposta a quella
attuale. Mentre questa si distacca dalla “politica del ritorno” e talvolta
irride ad essa, talaltra la demonizza. L’ecumenismo che accompagna l’incedere
spazio-temporale della Chiesa è al servizio della sua unità/unicità, alla quale
sollecita il ritorno dei lontani e dei separati »[3] Non a caso, nella Mortalium
animos Pio XI insegna che la tendenza pancristiana al falso ecumenismo
sfocia in una « falsa religione cristiana, assai diversa dall’unica Chiesa di
Cristo ». La Tradizione ci consegna il dato che alla Rivelazione Apostolica
corrisponde la Chiesa una unica ed immutabile. Chi e da qualunque pulpito la
rende diversa nella Dottrina, si autoesclude dall’unica vera Chiesa.
In tutte le discussioni, l'articolato dialogo e
gli sviluppi pastorali che se ne traggono, l'unico dato che dovrebbe essere
essenziale, ma non emerge, è che per un ecumenismo autentico non valgono tanto
le commissioni, gli incontri i proclami e le dichiarazioni congiunte, quanto la
preghiera la penitenza, l'impegno nel rinnovamento nella piena fedeltà alla
Tradizione e alla Parola. Infatti l'“Ut unum sint” per il quale il
Signore ha pregato ed ha donato se stesso, la vera unità - che non è né
pragmatica né organizzativa né di assenso della ragione, ma comunione in
Cristo nella Sua Chiesa - non sono le cosiddette buone volontà umane a
realizzarla, ma essa stessa si realizza come dono Soprannaturale che si invera
in chi “ritorna” e in chi “rimane” nella Chiesa così come il Signore l'ha voluta
e istituita: l'Una, Santa, Cattolica, Apostolica e anche Romana.
Sovviene l’Apostolo Paolo, che nella fedeltà a
Pietro, non fu cieco, di fronte a quella che era una condizione di mero “errore
materiale” a proposito di quel comportamento, per cui forse oggi lo si direbbe
“ecumenico”, « quando si conformava ai costumi dei circoncisi stando con i
giudeo-cristiani circoncisi e se ne discostava quando pregava coi cristiani
incirconcisi provenienti dal gentilismo (Gal. II, 11,14) ».[4] Come Paolo,
così oggi e sempre debbono fare tutti i cattolici resistenti
all’indifferentismo, alle ambiguità dottrinali, ai rischi di sincretismo: essere
vedenti e aprire gli occhi perché altri vedano. Certo nessun cattolico
resistente è un San Paolo, ma è sufficiente la condizione di « essere fedeli
discepoli dell’Apostolo delle Genti – fedele a Pietro ma a lui resistente anche
in faccia – nella comune resistenza. Se si è suoi discepoli si è suoi
figli: ebrei in lui, sapienti in lui […] così assumendo di lui tutte le potenze
e tutte le attualità, compreso il desiderio di vedere in Cristo i superiori
pasturare la verità ai fedeli con soprannaturale rettitudine ».[5]
Alcune notazioni, che diventano seri
interrogativi, infatti, non possono non sorgerci spontanee: che fine ha fatto il
valore incommensurabile della “Comunione”, unico elemento davvero trasformatore
della realtà, sostituita, in base ad una logica solo umana, da una prassi che
prende come fondamento i cosiddetti “valori” e non il Principio che ne è il
Fondamento? Davvero si può pensare che se, in luogo della comunione, si mette in
campo un' “alleanza strategica” pragmatica, le cose possano cambiare? E neppure
una parola sul vero unico Artefice di ogni Bene e di ogni Salvezza dell'uomo e
del mondo, in cui l'uomo respiri, agisca e viva secondo la Volontà del suo
Creatore, cioè sul Signore Gesù, al quale - se ci diciamo cristiani - dovremmo
professare la nostra appartenenza e dare ragione di essa?
È il trito e superficiale “guardiamo a ciò che
unisce” di questo falso ecumenismo, che coinvolge anche un movimento dalle
prassi e dagli insegnamenti anomali e “altri” come il Cammino neocatecumenale
che sta inquinando intere diocesi, senza tenere in alcun conto l'ortodossia che
sola può garantire una ortoprassi veramente salvifica e trasformante secondo le
finalità del Padre per ognuno e per tutti i suoi figli, nel Figlio. Ortodossia,
che non è un dato meramente giuridico, ma identitario, dove identità sta per
“autentica immagine del Padre, secondo somiglianza, da realizzare nel Figlio per
opera dello Spirito Santo”.
Dobbiamo pensare che la Chiesa è permeata
dell'“antropocentrismo” illuminista che caratterizza questo nostro momento
storico e che purtroppo è stato fatto proprio, laddove si è lasciata inquinare
dal ‘modernismo’? Davvero possiamo pensare e credere che i “valori morali” di
cui tanto si parla, se non sono il frutto delle azioni di cuori Redenti dal
Signore, non degenerino ben presto nella loro vuota inconsistenza rivestita di
buone intenzioni? Si può davvero pensare di combattere il degrado morale e le
divisioni senza difendere e diffondere in primis le verità di Fede, ormai
così oscurate?
Il cristianesimo non è un'etica, ma
ha un'etica, che discende dalla sequela del Signore Nato Morto Risorto
Asceso al Cielo datore del Suo Spirito per noi e per la nostra Salvezza. E non è
il dialogo o la prassi che salva, altrimenti siamo sempre alle “opere della
legge”, ma la retta Fede, diffusa e difesa, che ha già in sé il seme
dell'eternità e che genera la vera ortoprassi, e la vera comunione, che è
un dono Soprannaturale e non è opera di nessun uomo per quanto di buona volontà
egli possa essere.
Col concilio si è caduti nell'inganno che le
verità parziali possano essere la porta d'accesso alla verità totale e si è
perso il senso del reditus cioè del ritorno delle altre confessioni,
dimenticando che in esse gli errori all'interno dei quali sono costretti i
frammenti di verità, distorcono la verità e ne falsano la vera portata. Come
diceva p. Garrigou Lagrange « In una dottrina globalmente falsa la verità non
è l'anima della dottrina, ma la schiava dell'errore [6]
Questo vale anche per tutti gli esiziali
‘inclusivismi’ ai quali abbiamo assistito nell’ultimo periodo anche con le porte
sempre più spalancate al cammino neocatecumenale, per portare uno sconcertante
esempio di realtà ecclesiale accolta senza averne prima operate e necessarie
‘purificazioni’.[7]
Maria Guarini
[1] Romano Amerio, Iota unum, Lindau 2009, pag. 492
[2] Ibid, pag 491
[3] Brunero Gherardini, L’ecumene tradita, Fede e Cultura 2009, pag. 24
[4] Enrico Maria Radaelli, Il mistero della Sinagoga bendata, Effedieffe, Milano 2002
[5] Ibidem, pag. 98
[6] «In doctrina simpliciter falsa, veritas non est ut anima doctrinæ, sed serva erroris» (R. Garigou Lagrange, op, De Revelatione, Gabalda, Paris, 1921, II, p 436
[7] Il discorso è sviluppato e approfondito in questo Sito
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