domenica 28 aprile 2013

L'ermeneutica della riforma: PROBLEMI E RISPOSTE

 
 
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L'ermeneutica della riforma e la libertà di religione di Martin Rhonheimer
Da "Nova et Vetera", 85, 4, ottobre-dicembre 2010, 341-363

Testo integrale rispetto a quello estratto da Sandro Magister nel suo articolo "Chi tradisce la tradizione. La grande disputa", del 28 aprile 2011 http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347670
così introdotto:

Si infiamma la discussione su come interpretare le novità del Concilio Vaticano II, soprattutto sulla libertà di religione. I tradizionalisti contro Benedetto XVI. Un saggio del filosofo Martin Rhonheimer a sostegno del papa 


[Appendice: Continuità e discontinuità. Che ne è dell'infallibilità del Magistero?]
 

Come è noto, il 22 dicembre 2005, papa Benedetto XVI si è espresso, nel suo discorso in occasione della presentazione degli auguri di Natale alla curia romana, contro un'interpretazione largamente diffusa del Vaticano II, secondo la quale la Chiesa postconciliare sarebbe una Chiesa diversa dalla Chiesa "preconciliare". Benedetto XVI qualifica questa interpretazione erronea del Concilio "ermeneutica della discontinuità e della rottura".
Questa espressione è stata ripresa con zelo dai cattolici fedeli sostenitori del papa. L'idea che il papa abbia opposto nel suo discorso l'ermeneutica della discontinuità e l'ermeneutica della continuità si è largamente diffusa. Sembra che Robert Spaemann abbia condiviso questo parere, quando in merito ai tentativi di armonizzazione in materia di libertà di religione, tema recentemente divenuto di grande attualità, egli apprezza la sottolineatura di una continuità senza rottura tra la dottrina conciliare e la dottrina preconciliare. (cf. "Die Tagespost" del 25.4.2009)
Si deve tuttavia contraddire questa affermazione. Nel discorso citato, papa Benedetto XVI non ha affatto opposto l'ermeneutica erronea della discontinuità a una "ermeneutica della continuità". Ha spiegato piuttosto che all'"ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma". E qual è "la natura della vera riforma"? Essa consiste, spiega il papa, "in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi".
La relazione con lo stato
Il Concilio Vaticano II deve essere compreso quindi alla luce della categoria ermeneutica di "riforma", e non semplicemente di "continuità". In effetti, la "riforma" contiene sia elementi di continuità che certi elementi di discontinuità. Tuttavia, come sottolinea Benedetto XVI, continuità e discontinuità si trovano a dei livelli differenti. Identificare e distinguere tra questi differenti livelli costituisce la vera posta.
A questo fine il Papa precisa innanzitutto: "il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna", e ciò sotto due rapporti: da una parte, in rapporto alle scienze naturali moderne; dall'altra, "era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione".
È chiaro, prosegue Benedetto XVI, che per quanto riguarda l'insegnamento del Concilio "in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità". Ciò malgrado, si poteva affermare che "risultava non abbandonata la continuità nei principi". Ora, "È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma".
Anticipando in forma profetica le discussioni attuali, Benedetto XVI esemplifica "l'ermeneutica della riforma" con la dottrina conciliare sulla libertà religiosa. Benedetto XVI esprime qui esattamente la differenza di livelli che gli insegnamenti preconciliari non avevano avuto la capacità di individuare a motivo di precisi condizionamenti teologici e storici. Così, Gregorio XVI e Pio IX, per non citare che questi due papi, avevano identificato il fondamentale diritto alla libertà di religione, di coscienza e di culto del cittadino moderno con una negazione della vera religione. E questo poiché essi non potevano immaginare che una verità religiosa e una vera Chiesa potessero esistere senza che quest'ultima non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla politica, e rispettata dal diritto civile. In effetti, un gran numero dei loro avversari liberali rivendicavano la libertà di religione presentando l'argomento esattamente contrario: una tale libertà è necessaria perché non c'è affatto una verità religiosa.
La Chiesa del XIX secolo considerava come un disconoscimento della religione cristiana, e come "indifferentismo" e "agnosticismo", la visione "liberale" secondo cui lo stato non avrebbe né la competenza né l'obbligo, da una parte, di farsi garante del valore sociale della vera religione e di rinunciare a riconoscere ad altre religioni il diritto di esistere, e, dall'altra parte, di limitare con pubbliche censure la libertà di espressione e di stampa al fine di proteggere la vera religione.
Nel magistero preconciliare, l'insegnamento della verità unica della religione cristiana andava di pari passo con l'insegnamento della funzione e del dovere dello stato, che aveva l'obbligo di far praticare la vera religione e di proteggere la società dalla diffusione dell'errore religioso. Ciò implicava l'ideale di uno "stato cattolico" nel quale, nel migliore dei casi, la religione cattolica è l'unica religione di stato, il cui ordine giuridico è sempre al servizio della protezione della vera religione.
È precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo che si trova il punto di discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso tempo una continuità più profonda ed essenziale, come spiega Benedetto XVI nel suo discorso: "Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa". Questo principio essenziale dello stato moderno e nello stesso tempo la riscoperta di questo patrimonio profondo della Chiesa costituiscono, secondo Benedetto XVI, il chiaro rigetto di una religione di stato: "I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede".
La "libertà di coscienza" è sempre stata compresa dal mondo moderno come libertà di culto, cioè come diritto dell'individuo e delle diverse comunità religiose ad esprimere liberamente la loro fede, in forma pubblica e comunitaria, nel quadro dell'ordine e della morale pubblica, senza che lo stato abbia il diritto di intervenire per impedirlo. Ora, questo corrisponde esattamente alle rivendicazioni dei primi cristiani nell'epoca delle persecuzioni. Essi non rivendicavano la promozione da parte dello stato della verità religiosa, ma piuttosto la libertà di poter confessare la loro fede senza essere vessati dallo stato. Si deve al Concilio Vaticano II d'aver insegnato questo diritto fondamentale della persona umana a confessare la sua fede senza ostacoli.
È proprio a questo che ha dovuto cedere il passo l'antica rivendicazione della protezione politico-giuridica dei cosiddetti "diritti alla verità" e della repressione ad opera dello stato dell'errore religioso. Checché se ne dica, non si può negare che è precisamente questa dottrina del Vaticano II che è stata condannata da Pio IX nell'enciclica "Quanta cura".
Benedetto XVI conclude la sua esemplificazione dell'"ermeneutica della riforma" tramite la dottrina sulla libertà religiosa con questa constatazione pregnante: "Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche". Queste correzioni non significano una discontinuità al livello della dottrina della fede cattolica e della dottrina morale, che è oggetto del magistero autentico della Chiesa, il quale – anche in quanto magistero ordinario – reclama l'infallibilità. In questo senso, Benedetto XVI parla di una semplice "discontinuità apparente", poiché nel liberarsi dell'antico fardello d'una dottrina dello stato superata, la Chiesa "ha mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi".
In breve, la dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa non implica alcun riorientamento del dogma, ma piuttosto un riorientamento della dottrina sociale della Chiesa e, più precisamente, una correzione del suo insegnamento sulla funzione e i doveri dello stato. Gli stessi principi immutabili sono dunque ripresi in maniera nuova nel nuovo contesto storico. Sullo stato non c'è nessuna dottrina di fede cattolica e dogmatica; e non può essercene, eccezion fatta per gli elementi già presenti nella Tradizione apostolica e nella Sacra Scrittura. Da questi scritti è totalmente assente l'idea di uno "stato cattolico" che sarebbe il braccio secolare della Chiesa. Essi testimoniano piuttosto una separazione tra la sfera religiosa e quella politico-statuale.
La parziale rimozione del vero dualismo cristiano tra potere temporale e spirituale, così come il loro amalgama, apparvero più tardi, come conseguenza di situazioni storiche contingenti, tra le quali, in primo luogo, l'imposizione del cristianesimo come religione di stato nell'impero romano e la lotta contro l'arianesimo (che di nuovo rivendicava una divinizzazione dello stato), in secondo luogo l'integrazione, nel corso del basso Medioevo, della Chiesa nelle strutture del governo imperiale e, in terzo luogo, in reazione a quest'ultima, la dottrina politico-canonica dell'alto Medioevo della "plenitudo potestatis", della pienezza di potere del papa, una dottrina dalla quale si è tratta l'idea moderna di uno stato sovrano confessionale cattolico, al quale Pio IX era ancora molto legato e al quale si è puntualmente opposto un suo corrispettivo protestante.
La dottrina del Vaticano II rappresenta qui una chiara svolta rispetto al passato. Una volta definitivamente liberata dal fardello storico, la dottrina del Concilio sulla libertà religiosa consiste essenzialmente in una dottrina sui doveri e i limiti dello stato, così come sul diritto civile fondamentale – un diritto della persona e non della verità – grazie al quale sono limitate la sovranità e le competenze dello stato in materia di religione. Essa è, inoltre, una dottrina sulla libertà della Chiesa a esercitare liberamente – al pari di ogni altra religione – la sua missione di salvezza anche nello stato secolare, una dottrina stabilita sulla base dei fondamentali diritti dei corpi sociali alla libertà religiosa. Infine, la dottrina conciliare afferma il dovere che ha lo stato di garantire, in maniera neutrale e imparziale e sempre nel rispetto dell'ordine e della morale, le condizioni necessarie affinché ciascun cittadino possa praticare la propria religione.
Tentativi di riconciliazione: un fallimento?
È precisamente questa nuova dottrina politico-giuridica che sostiene che lo stato non è più il braccio secolare della Chiesa guardiana della verità religiosa, ciò che i tradizionalisti oggi rifiutano. È effettivamente ciò che P. Matthias Gaudron, portavoce della Fraternità di San Pio X in Germania, ha evidenziato in una lettera (pubblicata in "Die Tagespost" del 6.6.2009). C’est effectivement ce que le P. Matthias Gaudron, porte-parole de la Fraternité sacerdotale Saint-Pie X en Allemagne, a mis en exergue dans une lettre de lecteur (parue dans "Die Tagespost" du 6.6.2009). Quando le posizioni più temperate, quali quella del Prof. H. Klueting (cf. "Die Tagespost" del 30.05.2009, p. 18), riducono la dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa ad un "immunità da ogni conversione forzata" suggerendo così a torto una continuità senza rottura, p. Gaudron mette l'accento sul punto decisivo: la divergenza non porta sulla questione del rifiuto della "conversione forzata" - su questo punto son tutti d'accordo - ma sulla questione di sapere fin dove si può giungere nella restrizione della pratica pubblica d'una fede erronea e nella sua diffusione. Egli constata così ed a ragione una rottura della continuità o, per dirla con Benedetto XVI, la discontinuità.
Il Memorandum "La bomba a scoppio ritardato del Vaticano II" indirizzata dal superiore provinciale tedesco della Fraternità sacerdotale San Pio X, P. Franz Schmidberger, a tutti i vescovi tedeschi è ancora più esplicita. Secondo lui, la dottrina del Vaticano II significa "la secolarizzazione dello Stato e della società", così come l'"agnosticismo di Stato". Essa rappresenta il  disconoscimento del diritto e del dovere dello Stato "d'impedire ai membri delle religioni erronee di propagare pubblicamente le proprie convinzioni religiose, osteggiando le loro manifestazioni pubbliche e attività missionarie e rifiutando loro il permesso di costruire luoghi di culto". In breve, attraverso la sua dottrina sulla neutralità religiosa dello Stato - di fatto, la sua laicità - il Concilio ha rinnegato la dottrina tradizionale sullo Stato cattolico e sulla Regalità sociale di Gesù Cristo. In realtà, prosegue P. Schmidberger, seguendo in ciò l'arcivescovo Lefebvre, "Gesù Cristo è il solo Dio e la croce la sola sorgente di salvezza". Conseguentemente, "spetta ai responsabili di Stato far valere nella società, in quanto possibile, questa rivendicazione di esclusività".
Qui non c'è punto comune o di continuità con la dottrina del Vaticano II. Io considero come inutili e concretamente erronei tutti questi tentativi di armonizzazione messi in atto da teologi come Basil Valuet, al quale fa riferimento Spaemann, o parte dei credenti tradizioanlisti, in vista della loro riconciliazione con l'ultimo concilio. In realtà questi tentativi seminano piuttosto confusione, perché arringhe del genere mascherano il vero problema e attraverso questo l'originalità della dottrina del Concilio Vaticano II. Gli argomenti utilizzati sono falsi perché i tentativi di armonizzazione non tengono conto del contesto politico-giuridico e della distinzione dei livelli messi in evidenza da Benedetto XVI.
Non si può dunque affermare, come fa Bertrand de Margerie, che sia da parte di Papa Gregorio XVI che dal Concilio Vaticano II la libertà di stampa non è illimitata, di modo che c'è continuazione tra la condanna della libertà di stampa da parte di papa Gregorio XVI e la dottrina del Vaticano II. In realtà, quando papa Gregorio patrocinava una censura della stampa da parte dello Stato sotto controllo ecclesiastico in vista di servire la vera religione, il Vaticano II - come già i liberali del XIX secolo - fa riferimento ai limiti della libertà di stampa e di coscienza presenti nei diritti accordati ai cittadini, diritti definiti dalla legge e con possibilità di ricorsi tenendo conto dell'ordine e della morale pubblici. Questi limiti corrispondono alla logica di neutralità e di laicità propria dello Stato costituzionale, liberale e democratico, di fronte alle rivendicazioni religiose di verità, e non hanno nulla a che vedere con una "protezione della vera religione" ed una protezione del cittadino dalla "peste dell'errore religioso" né con una censura di Stato esercitata al servizio della Chiesa (come la praticava il Sant-Uffizio - oggi Congregazione per la Dottrina della Fede - nello Stato ecclesiastico del XIX secolo retto dal diritto canonico).
Nello stesso modo, la tolleranza com'è ancora insegnata da Pio XII nel suo discorso Ci riesce del 6.12.1953, e che non può essere esercitata in materia di religione che "in certe circostanze" e secondo il giudizio di valutazione dell'"uomo di Stato cattolico", non apre non più la via alla libertà religiosa. E ciò in ragione del diritto civile fondamentale della persona umana, che limita la competenza del potere di Stato nelle questioni religiose. Su questa base, tali giudizi di valutazione dell'"uomo di Stato cattolico" relativi alla tolleranza ormai non sono più possibili, perché sarebbero contrari al diritto. Così non si può avere un sedicente "diritto alla tolleranza", quel che secondo Basil Valuet si ritroverebbe presso Pio XII e sarebbe conforme alla dottrina del Vaticano II.
In alcun caso non si tratta qui - come scrive Robert Spaemann - d'un "conflitto di principi senza conseguenze", ma piuttosto della questione fondamentale concernente la relazione della Chiesa con la modernità, in particolare con la Stato costituzionale libero e democratico e, ben oltre, della questione della comprensione che la Chiesa ha di se stessa così che del suo rapporto al problema della costrizione nel campo religioso.
In realtà, sebbene abbia sempre rifiutato l'idea della conversione forzata, la Chiesa non ha in generale respinto l'idea della costrizione in materia religiosa. L'enciclica "Quanta cura" di Pio IX del 1864 non prendeva di mira gli atei liberali, ma l'influente gruppo dei cattolici liberali riuniti attorno al politico francese Charles de Montalembert. Si trattava in particolare di cattolici osservanti che difendevano l'esistenza dello stato pontificio (Montalembert è all'origine del principio "libera Chiesa in un libero stato" che più tardi sarà ripreso, sia pure in forma differente, da Cavour) e che, al congresso di Malines dell'agosto 1863, avevano rivendicato il riconoscimento dal parte della Chiesa della libertà di associazione, di stampa e di culto.
Ma queste rivendicazioni entravano in collisione con la posizione "tradizionale" della Chiesa, ricevuta in eredità dall'alto Medioevo, secondo la quale la Chiesa possiede il diritto di usare la costrizione – con l'aiuto di misure giuridiche penali – per preservare i cristiani dall'apostasia. "Abbracciare la fede è un atto di libertà", scrive Tommaso d'Aquino, "ma conservarla quando la si è abbracciata è una necessità" (Summa theologiae II-II, 10, 8, ad 3). I teologi che hanno preparato la "Quanta cura" si rifanno a questo principio. Lo si è interpretato in tal modo che si è considerato un obbligo dello stato, concepito come braccio secolare della Chiesa, preservare i fedeli, tramite la censura e il diritto penale, dalle influenze dannose alla fede e dall'apostasia.
È per questa ragione che Pio VI aveva condannato la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" della Rivoluzione francese, nel suo breve "Quod aliquantum" del 1791. Essa rappresenta l'apostasia pubblica di un'intera nazione. Per i cattolici, rivendicare la libertà religiosa può valere in uno stato di infedeli o di ebrei. Ma poiché la Francia è una nazione cristiana e i cittadini francesi sono dei cristiani battezzati, non può esservi una libertà civile generale di confessare una religione diversa dalla vera religione cattolica. Pio VI lo precisa: i non battezzati "non possono essere costretti a obbedire alla fede cattolica; gli altri invece 'sunt cogendi', devono esserlo".
Nel suo discorso del 2005, Benedetto XVI prende le difese della prima fase, quella "liberale" della Rivoluzione francese, che egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e radical-democratica, che portò al Terrore della ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la "Dichiarazione dei diritto dell'uomo e del cittadino" del 1789, sorta dallo spirito del parlamentarismo rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano.
La prospettiva del Concilio
Il Vaticano II ha avuto il merito di superare la tipica equiparazione effettuata dalla dottrina preconciliare tra la libertà religiosa, l'"indifferentismo" e l'"agnosticismo". Si tratta, per quanto riguarda il magistero della Chiesa, di una tappa storica che non può essere compresa che alla luce dell'"ermeneutica della riforma" preconizzata da Benedetto XVI.
Vale la pena di prendere seriamente in considerazione questa esigenza e non stemperarla in falsi schemi di continuità, che finirebbero per alterare la continuità vera e di conseguenza l'essenza stessa della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica.
Che ne è allora della "dottrina cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo", che secondo le dichiarazioni del Concilio sulla libertà religiosa dovrebbe essere "intangibile"? Effettivamente, questa affermazione è spesso citata per suggerire la "continuità senza rottura" nella tradizione della Chiesa, concernente, tra l'altro, la libertà religiosa. Su questo punto il Concilio sembra in effetti essere rimasto ambivalente.
Ma questa affermazione non è così ambivalente come sembra, poiché questi doveri morali – come dice il testo sopra citato – hanno come presupposto "l'immunità da qualsiasi costrizione nella società civile". L'antica dottrina sui doveri dello stato come braccio secolare della Chiesa non sembra più reggere, di fronte ai discorsi sui doveri "dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo".
Quali siano questi doveri, è intanto un'altra interpretazione ugualmente corretta di questa frase contestata a suggerirlo. Si tratta del Catechismo della Chiesa cattolica – un documento del magistero della Chiesa – che al n. 2105 afferma, citando il passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell'individuo che della società "rendere a Dio un culto autentico". Che la Chiesa realizza "evangelizzando senza posa gli uomini", affinché essi possano penetrare di spirito cristiano "la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui vivono". A ogni cristiano si chiede di far conoscere "l'unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica".
Questo è il modo – conclude l'articolo del Catechismo della Chiesa cattolica – col quale la Chiesa manifesta "la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane". La prospettiva del Vaticano II è dunque l'annuncio del Vangelo da parte della Chiesa e dell'apostolato dei fedeli, mirante a penetrare di spirito cristiano le strutture della società. Non una parola, invece, sullo stato che in quanto braccio secolare della Chiesa sarebbe titolato a proteggere il "diritto alla verità" anche con la forza, e tramite questa stabilire la regalità di Cristo sulla comunità degli uomini. La discontinuità è evidente. E più evidente ancora è la continuità, là dove essa è veramente essenziale e dunque necessaria.


APPENDICE. CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ: CHE NE È DELL'INFALLIBILITÀ DEL MAGISTERO?
Le reazioni di alcuni teologi alle riflessioni sopra esposte hanno rilevato che la mia interpretazione metterebbe in dubbio l'infallibilità del magistero della Chiesa, e dunque che essa non è accettabile poiché le mie osservazioni suggerirebbero una reale rottura nella continuità del magistero ordinario universale. [...]
Al fine di mostrare perché io considero tale critica come erronea e i suoi relativi timori come infondati, procederò [...] in cinque tappe.
1. La questione dell'infallibilità
L'infallibilità del magistero – afferma il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica al n. 185 – "si attua quando il romano pontefice, in virtù della sua autorità di supremo pastore della Chiesa, o il collegio dei vescovi, soprattutto riunito in un concilio ecumenico, proclamano con atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale". Allo stesso modo, l'infallibilità del magistero universale del collegio dei vescovi si attua "quando il papa e i vescovi, nel loro ordinario magistero, concordano nel proporre una dottrina come definitiva". Questa infallibilità non riguarda solo il dogma in senso stretto, ma la totalità della dottrina della fede e della morale, ivi compresa l'interpretazione della legge morale naturale e ogni altra proclamazione che abbia un rapporto storico o logico intrinseco con la fede, senza la quale il dogma non potrebbe essere correttamente compreso o conservato.
Il primo caso – definizione "ex cathedra" o concilio ecumenico – manifestamente non si verifica con la questione della libertà di religione. In effetti, il primo e finora unico concilio che si sia espresso su questo soggetto è stato il Concilio Vaticano II. Spetta giustamente a questo concilio di aver riconosciuto la libertà di religione. Allo stesso modo, nemmeno il magistero ordinario universale sembra essere qui in atto, poiché mai in precedenza il papa e i vescovi avevano condannato la libertà religiosa e proclamato questa condanna come una dottrina definitiva della Chiesa. Questo è stato piuttosto il caso di qualche papa isolato, in un lasso di tempo di un centinaio d'anni, e mai di una rivendicazione esplicita di voler presentare una dottrina definitiva in materia di fede o di costumi (anche se è così che questo è stato implicitamente compreso dai papi del XIX secolo).
Di primo acchito, dunque, sembra per lo meno molto improbabile che la discontinuità rilevata sopra nella dottrina della Chiesa sulla libertà di religione possa mettere in qualche modo in questione l'infallibilità del magistero, ivi compreso il magistero ordinario universale. Questa prima constatazione dovrebbe essere confermata da ciò che segue.
2. La sostanza dottrinale della condanna della libertà religiosa da parte di Pio IX
Se la si considera sotto il profilo della sua condanna sia dell'indifferentismo sia del relativismo religioso, dell'opinione secondo cui non c'è una verità religiosa esclusiva così come dell'opinione che tutte le religioni sono per principio uguali e che la Chiesa di Cristo non è l'unica via di salvezza, è innegabile che la condanna della libertà religiosa emessa da Pio IX toccava effettivamente un aspetto centrale del dogma cattolico. Tale è parsa in ogni caso la vera posta, in quell'epoca. Se dico "tale è parsa" è perché – come il Vaticano II ha mostrato – la dottrina della verità esclusiva della religione cristiana e dell'unicità della Chiesa di Gesù Cristo come via di salvezza eterna non è in realtà minimamente intaccata dall'accettazione della libertà di religione e di culto.
Come insegna il Vaticano II, il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in alcun modo che tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle persone e non concerne la questione di sapere in quale misura ciò che le persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che i fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà di culto non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le religioni debbano essere "ugualmente vere".
Che fosse questo ciò che significava la libertà di religione o la libertà di culto, era appunto, come si è mostrato sopra, la convinzione dei papi del XIX secolo e della teologia dominante in quell'epoca. Per essi ciò voleva anche dire che abbandonare il principio secondo il quale lo stato di un paese cattolico ha per compito e per dovere di proteggere e favorire la verità cattolica, di negare il diritto di esistere a ogni confessione religiosa deviante o, al massimo, di tollerarla entro certi limiti e nella misura del ragionevole, finiva con l'ammettere "ipso facto" che non c'è una sola vera religione e Chiesa, ma che tutte le religioni si equivalgono. Ora, va da sé che all'epoca la Chiesa non poteva accettare una tale visione delle cose, e d'altra parte non lo può neppure oggi. Tuttavia, oggi la Chiesa ha modificato la sua concezione della funzione dello stato e dei suoi doveri verso la vera religione, una concezione che in realtà non è affatto di natura puramente teologica né ha a che fare con la natura della Chiesa e la sua fede, ma concerne la natura dello stato e la sua relazione con la Chiesa. Si tratta dunque, al più, di una questione concernente un aspetto della dottrina sociale della Chiesa.
Così, quando Benedetto XVI afferma che il Concilio Vaticano II "con il decreto sulla libertà religiosa ha riconosciuto e fatto suo un principio essenziale dello stato moderno", manifesta chiaramente una concezione della natura e dei doveri dello stato molto diversa e opposta alla concezione dello stato di Pio IX, come pure alla visione tradizionale della sottomissione del potere temporale al potere spirituale. Una tale discontinuità non significa rottura con la Tradizione dottrinale dogmatica della Chiesa, né una deviazione dal "depositum fidei" e da "quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est", da ciò che è creduto dovunque, sempre e da tutti, secondo il canone di Vincenzo di Lérins. Di conseguenza, non può esserci contraddizione, qui, neppure con l'infallibilità del magistero ordinario universale della Chiesa, dal momento che una tale contraddizione non è di per sé possibile.
È vero che la dottrina sul potere temporale elaborata a partire dalla Tradizione apostolica, e specialmente dalla Sacra Scrittura – che comprende le lettere di san Paolo – contiene degli elementi essenzialmente di diritto naturale che per questo sono anche oggetto del magistero infallibile della Chiesa. Si tratta in particolare della dottrina che insegna che ogni potere viene da Dio, che i governanti e le autorità civili fanno parte dell'ordine della creazione, e che in coscienza, e dunque per ragioni morali, ciascuno deve obbedienza all'autorità civile e deve riconoscere ad essa anche il diritto di adottare delle misure penali. Sarebbe tuttavia eccessivo affermare che questi principi contenessero anche delle indicazioni sulla relazione tra la Chiesa e lo stato, sui doveri dello stato verso la vera religione o sul diritto della Chiesa di far valere le sue pretese sul braccio secolare dello stato, come strumento sia di condanne puntuali che di loro conseguenze civili. Non fu che nel corso del tempo e sotto l'influsso di diverse situazioni e bisogni storici che tali posizioni o dottrine si sono costituite, principalmente in relazione alla battaglia della Chiesa per la "libertas ecclesiae", la libertà della Chiesa rispetto al controllo e alla tutela civile e politica. Questo fu un processo estremamente complesso, delle cui diverse tappe ho trattato in altre pubblicazioni.
A questo proposito bisogna anche sottolineare che la discontinuità rilevata da Benedetto XVI a livello dell'applicazione dei principi non implica alcuna rottura nella continuità dell'intelligenza del mistero della Chiesa. Al contrario, Benedetto XVI constata che "la Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi". Si coglie qui, mi sembra, la vera preoccupazione di Benedetto XVI per una "ermeneutica della discontinuità e della rottura" che vede nella Chiesa del Vaticano II un'altra Chiesa, una nuova Chiesa. Secondo il papa, i sostenitori di una "ermeneutica della discontinuità e della rottura" avrebbero considerato il Concilio "come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova". In realtà, spiega Benedetto XVI, i padri conciliari non avevano ricevuto un tale mandato. Parlando di continuità e di discontinuità a differenti livelli – da una parte quello del dogma, dell'intelligenza del mistero della Chiesa, della comprensione sempre più vera e profonda del "depositum fidei" da parte della Chiesa e, dall'altra parte, il livello dei modi sempre concreti e contingenti della sua applicazione – "l'ermeneutica della riforma" difesa da Benedetto XVI non constata alcuna rottura nella comprensione della Chiesa. La Chiesa vi è compresa piuttosto come "un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del popolo di Dio in cammino".
3. Diritto naturale o diritto civile? Il cuore della dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa
Come argomenta un'altra obiezione, [...] il Vaticano II proclama nella sua dichiarazione "Dignitatis humanae", al n. 2, che "il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione". Ora, ciò significa che per il Concilio Vaticano II anche la libertà religiosa è un diritto naturale. Facendo ciò, il magistero infallibile della Chiesa si estende fino all'interpretazione della legge morale naturale e del diritto naturale. Di conseguenza, conclude l'obiezione, non può esserci qui né discontinuità né contraddizione, e sarebbe dunque falso affermare che il Vaticano II ha esplicitamente insegnato ciò che Pio IX ha condannato, cioè il diritto alla libertà di religione e di culto.
In effetti, il Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2106, lo dice chiaramente: "Tale diritto [alla libertà religiosa] si fonda sulla natura stessa della persona umana". È dunque certamente giusto dire che il Concilio Vaticano II considera la libertà religiosa come facente parte del diritto naturale. Ma è ugualmente vero dire che "Dignitatis humanae" al n. 2 rivendica che "questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società". La prospettiva del Vaticano II non è dunque semplicemente e unicamente quella del diritto naturale, ma è sempre anche quella della libertà religiosa "come diritto civile", cioè, in fin dei conti, come diritto alla libertà di culto. Di fatto, tale era anche la prospettiva di Pio IX, poiché la libertà di religione che egli condannava non era altro che il diritto civile alla libertà di culto rivendicata, tra gli altri, dall'ala cattolico-liberale. È dunque corretto dire che la rivendicazione da parte del Vaticano II della libertà religiosa come esigenza propria del diritto naturale, vale a dire il diritto civile alla libertà di culto, non è altro che ciò che era stato condannato nell'enciclica "Quanta cura" di Pio IX e nel suo allegato, il "Syllabus" degli errori.
Il diritto naturale in quanto tale non è dunque toccato affatto dalla discontinuità che è qui in questione. La contraddizione non scatta che al livello della rivendicazione del diritto civile, e non è quindi che di ordine politico. La dottrina del Vaticano II e la "Quanta cura" con il suo "Syllabus errorum" non si contraddicono dunque al livello del diritto naturale, ma al livello della sua applicazione giuridico-politica nelle situazioni e di fronte a dei problemi concreti. D'altra parte, la novità introdotta dal Vaticano II non poggia soltanto sul suo insegnamento della libertà religiosa come diritto naturale, ma anche sulla necessità che essa sia riconosciuta come un diritto civile, come libertà di culto. In altri termini, dalla concezione ben attestata della libertà religiosa come diritto naturale, il Vaticano II ha saputo trarre una nuova conseguenza concernente l'ordine giuridico positivo dello stato. Ebbene, Pio IX non aveva tratto questa stessa conseguenza; egli la considerava al contrario come nociva e falsa poiché – a suo avviso – implicava necessariamente l'indifferentismo religioso e il relativismo, tanto dal punto di vista dottrinale quanto nelle sue conseguenze pratiche. Viceversa, se il Concilio Vaticano II ha potuto farlo, è perché partiva da una concezione differente dello stato e della sua relazione con la Chiesa, il che gli ha permesso di spostare l'accento dal "diritto alla verità" al diritto della persona, del cittadino considerato in quanto individuo e della sua coscienza religiosa.
Così, ancora una volta, non è qui in gioco l'infallibilità del magistero ordinario nella sua interpretazione del diritto naturale, perché dire "applicazione" non è lo stesso che dire "interpretazione". In effetti, quest'ultima punta essenzialmente su ciò che concerne la legge morale naturale e la norma morale corrispondente, ma non si pronuncia sulla maniera in cui la legge naturale o il diritto naturale devono essere applicati, né si preoccupa delle conseguenze che bisogna trarne a partire da una situazione storica data. Che il magistero si esprima talvolta su una tale applicazione è inevitabile e può essere anche utile. Ciò detto, non si può tuttavia affermare che si tratterebbe in questi casi di "interpretazioni" magisteriali del diritto naturale o della legge morale naturale suscettibile di essere oggetto di infallibilità. Si tratta di realizzazioni e applicazioni concrete che, nell'epoca in cui sono fatte, possono essere impegnative per i fedeli cattolici, ed esigere la loro obbedienza. Ma non si tratta in alcun modo di insegnamenti che non potrebbero essere ricusati da decisioni magisteriali posteriori.
4. Discontinuità nella dottrina o unicamente in rapporto all'orientamento pratico-politico, disciplinare?
Per sfuggire al supposto pericolo d'una contraddizione dottrinale, si potrebbe tuttavia rifugiarsi dietro l'argomento che le condanne di Pio IX non sono state delle condanne dottrinali, ma unicamente disciplinari. Nel qual caso non ci sarebbe dunque una discontinuità dottrinale.
Ora, in primo luogo, nel discorso del papa del 2005 non si tratta di una opposizione tra, da una parte, delle affermazioni dottrinali e, dall'altra parte, delle decisioni di carattere pratico e disciplinare. In realtà, Benedetto XVI distingue ben di più tra i "principi" e "la maniera di metterli in pratica". In secondo luogo, considero questa obiezione come errata anche dal punto di vista storico, poiché nel XIX secolo tale questione era chiaramente di natura dottrinale. In effetti, Pio IX comprendeva la sua condanna della libertà religiosa come una necessità di ordine dogmatico e non solamente come una misura disciplinare (come sarà il caso più tardi del "Non expedit", un documento col quale il papa proibiva ai cattolici italiani di impegnarsi politicamente nell'Italia laica). Come abbiamo già detto, la rivendicazione della libertà religiosa o l'affermazione che la Chiesa non ha il diritto di imporre ai fedeli, con l'aiuto del "braccio secolare", delle pene o delle misure coercitive temporali era percepita all'epoca come un'eresia, o almeno come una maniera di arrivarci. Mi sembra dunque tanto storicamente quanto oggettivamente errato interpretare la condanna della libertà religiosa da parte delle autorità dell'epoca come una semplice misura di ordine pratico-disciplinare.
In effetti, per Pio IX era in pericolo la salvaguardia stessa dell'essenza della Chiesa, della sua rivendicazione di essere l'unica verità e causa di salvezza. Così, riconoscere la libertà di religione significava per lui negare queste verità; significava ugualmente indifferentismo e relativismo religioso. È proprio in questo che risiede anche la grandezza di questo papa che, a partire dalle posizioni teologiche del suo tempo – delle quali tuttavia non ha saputo discernere il carattere storico – ha agito certamente in uno spirito di fedeltà eroica alla fede e ha resistito come una roccia nella tempesta di un relativismo scatenato. I tempi non erano evidentemente ancora maturi perché la Chiesa si ponesse in questa battaglia difensiva in modo nuovo e differenziato.
È nel rigetto dell'indifferentismo e del relativismo religioso che si trova il cuore sempre valido tuttora di questa condanna del XIX secolo. Tuttavia, che questa battaglia contro l'indifferentismo e il relativismo religioso sia divenuta una battaglia contro il diritto civile alla libertà di religione e di culto, è stato dovuto alla concezione secondo la quale lo stato è il garante della verità religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello stato come del suo braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorale. Ora, una tale concezione dello stato non riposava minimamente sui principi della dottrina della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni e le pratiche del diritto ecclesiastico di origine medievale così come sulle loro giustificazioni teologiche.
A ciò bisogna aggiungere che la discontinuità magisteriale in quanto tale non è qui in gioco. Per Benedetto XVI non si tratta in primo luogo della continuità del magistero, ma di quella della Chiesa e della comprensione della Chiesa. Egli si oppone all'idea di una rottura tra la Chiesa "preconciliare" e "postconciliare", quale è presentata dai sostenitori di una "ermeneutica della discontinuità e della rottura". Nelle dichiarazioni magisteriali – in particolare in quelle attinenti questioni politiche, economiche e sociali – si trovano molti elementi che dipendono da congiunture storiche. Il magistero della Chiesa nel campo dell'insegnamento sociale contiene anche, accanto a principi immutabili e fondati sulla dottrina della fede, una massa di concretizzazioni che sono spesso, retrospettivamente, piuttosto dubbie. Non si tratta qui di un tipo di "insegnamento" simile all'insegnamento cattolico in materia di fede e di costumi, dove la Chiesa interpreta la legge naturale anche in maniera obbligante, come nei casi delle questioni concernenti la contraccezione, l'aborto, l'eutanasia e altre norme morali nel campo bioetico. In questi ultimi casi, non si tratta di semplici applicazioni della legge naturale e situazioni concrete, ma della determinazione di ciò che appartiene precisamente alla legge naturale e della norma morale corrispondente. In questo campo, il magistero ordinario universale è anche infallibile.
Le concezioni dominanti nel XIX secolo riguardo al ruolo e ai doveri del potere temporale verso la vera religione – concezioni fondate su dei modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma che hanno acquistato la loro forma definitiva soltanto all'interno dello stato confessionale moderno – possono rivendicare solo con estrema difficoltà per esse stesse il privilegio di riposare sulla Tradizione apostolica o di essere un elemento costitutivo del "depositum fidei".
Allo stesso modo, queste concezioni quasi neppure appartengono alle verità che possiedono una relazione storica o logica necessaria con le verità della fede o del dogma, verità che all'occorrenza sarebbe necessario mantenere al fine di conservare e d'interpretare correttamente il "depositum fidei".
Anzi, sembrerebbe che all'origine il cristianesimo abbia persino adottato una posizione alquanto opposta. È nato e si è sviluppato in un ambiente pagano; si è concepito, a partire dal Vangelo e dall'esempio di Gesù Cristo, come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica, e non ha richiesto dall'impero romano che la libertà di potersi sviluppare senza ostacoli. Riconoscendo e facendo suo attraverso il suo decreto sulla libertà religiosa un "principio essenziale dello stato moderno", afferma Benedetto XVI nel suo discorso, il Concilio Vaticano II "ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr. Mt 22, 21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi".
Tuttavia, il richiamo al Vangelo e ai primi cristiani è un tema che non è menzionato unicamente da Benedetto XVI. Esso costituisce prima ancora il cuore dell'argomentazione di "Dignitatis humanae", che dedica due paragrafi, l'11 e il 12, a una riflessione sulle origini. Il Concilio spiega laconicamente: "La Chiesa pertanto, fedele alla verità evangelica, segue la via di Cristo e degli apostoli quando riconosce come rispondente alla dignità dell'uomo e alla rivelazione di Dio il principio della libertà religiosa e la favorisce". È proprio il richiamo al Vangelo, alla Tradizione apostolica e alla testimonianza dei primi cristiani i quali, come sottolinea Benedetto XVI, hanno "respinto chiaramente la religione di stato", ciò che caratterizza veramente la dottrina sulla libertà religiosa del Vaticano II. Così, la concezione dei compiti e dei doveri dello stato verso la vera religione, che faceva autorità per Pio IX, è stata tacitamente archiviata dall'atto di magistero solenne di un concilio ecumenico.
5. Fedeltà alla fede. Tradizione e modernità politica
Il Concilio Vaticano II ha liberato la Chiesa da una zavorra storica secolare, le cui origini non risalgono alla Tradizione apostolica e al "depositum fidei", ma piuttosto a delle decisioni concrete dell'epoca post-costantiniana del cristianesimo. Queste decisioni si sono alla fine cristallizzate in tradizioni canoniche e nelle loro interpretazioni teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha cercato di difendere la sua libertà, la "libertas ecclesiae", dagli attacchi incessanti delle potenze temporali: si pensi in particolare alla dottrina medievale delle due spade che, all'epoca, cercava di giustificare teologicamente e biblicamente la comprensione della "plenitudo potestatis" del papa. Tuttavia, nel corso dei secoli, queste tradizioni canoniche e le loro formulazioni teologiche hanno cambiato la funzione e il tono. In seguito e nella tradizione degli stati sovrani confessionali moderni, esse sono diventate una giustificazione dello stato cattolico ideale, nel quale "il trono e l'altare" esistevano in stretta simbiosi e l'uomo di stato cattolico con zelo sosteneva la causa dei "diritti della Chiesa" invece che dei diritti civili alla libertà religiosa. Questa simbiosi e questa visione unilaterale che portavano al clericalismo e a una società clericale non hanno mancato di oscurare il volto autentico della Chiesa.
Il Concilio Vaticano II ha osato qui un passo che ha fatto epoca. Tuttavia, ciò non ha cambiato la comprensione che la Chiesa ha di se stessa, né la dottrina della fede e della morale cattolica. Solo è stata ridefinita la maniera in cui la Chiesa concepisce la sua relazione al mondo e in particolare al potere temporale dello stato, una ridefinizione che in realtà si richiama alle origini, per così dire al carisma cristiano fondatore, e in particolare alle parole stesse di Gesù che invita a dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Né l'infallibilità del papa né quella del magistero ordinario universale del collegio episcopale sono stati colpite o sminuite da un tale passo. Al contrario, attraverso la dottrina del Vaticano II sulla libertà di religione si manifesta ancora più chiaramente l'identità della Chiesa di Gesù Cristo e quanto il magistero della Chiesa in materia di fede e di morale possiede una continuità, malgrado tutte le discontinuità storiche: cosa che costituisce d'altra parte il fondamento e l'argomento più convincente della possibilità della sua infallibilità. Per questo mi sembra che ogni interpretazione che cerchi di ripianare, per mezzo di espedienti argomentativi complicati, una qualsiasi discontinuità a questo quadro d'insieme, non è di alcun sostegno alla difesa dell'infallibilità del magistero della Chiesa. Pur essendo motivata da ragioni pastorali in sé comprensibili e valide, ma alla prova dei fatti errata, una tale interpretazione complica inutilmente le cose. Per l'evidenza della sue intenzioni concrete riguardanti la politica ecclesiastica, può persino avere un effetto controproducente e così portare danno alla credibilità del magistero.
Invece, a quelli che, come i tradizionalisti riuniti attorno alla Fraternità Sacerdotale San Pio X dell'arcivescovo Lefebvre, non sanno più vedere nella Chiesa del Vaticano II "la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica" della Tradizione e parlano di rottura disastrosa con il passato, si può controbattere che effettivamente c'è qui una disputa insanabile sulla concezione della Chiesa, così come dello stato e dei suoi doveri. È per questo che questi tradizionalisti, per i quali manifestamente "la tradizione in quanto tale" e "le tradizioni ecclesiali" sono più importanti della Tradizione apostolica, la sola che sia in fondo normativa, difficilmente accetteranno i tentativi di mediazione sopra menzionati, poiché questi passano a lato del cuore del problema, che non è altro che la discontinuità realmente esistente. [...]
Il Concilio Vaticano II ci pone effettivamente davanti a una scelta: la scelta tra, da una parte, una Chiesa che cerca di affermare e di imporre la sua verità e i suoi doveri pastorali per mezzo del potere civile e, dall'altra parte, una Chiesa che riconosce – ciò che sostiene "Dignitatis humanae" al n. 1 – che "la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore". Non si tratta qui di due Chiese distinte nel senso dogmatico o costitutivo, ma di due Chiese che comprendono in maniera diversa le loro relazioni con il mondo e con l'ordine temporale. Il Vaticano II non si pronuncia né per uno stato strettamente laico – nel senso della "laïcité" francese tradizionale – né per la messa al bando della religione nella sfera privata, ma per una Chiesa che non pretende più di voler imporre la regalità di Cristo per mezzo del potere temporale e che per questo fatto stesso riconosce allo stato moderno secolare – non militante – la sua laicità politica.
È precisamente questa la prospettiva del Vaticano II. Essa è stata confermata dalla nota dottrinale a proposito di alcune questioni sull'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica della congregazione per la dottrina della fede del 21 novembre 2002. [...] La missione della predicazione del Vangelo da parte della Chiesa e ad opera dell'apostolato dei fedeli laici che vi si fondano consiste nel penetrare dello spirito di Cristo le strutture della società, e per questa via favorire la manifestazione della regalità di Cristo. Il regno di Cristo non comincia con la confessione pubblica della vera religione, ma con l'annuncio della Chiesa nel cuore degli uomini, fino a farlo penetrare con l'azione apostolica dei comuni fedeli in tutta la società umana, così come in tutte le sue strutture e realtà di vita.

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L'ermeneutica della riforma:
discontinuità del concilio nella continuità?
di Paolo Pasqualucci
Per gentile concessione del direttore della rivista, Prof. Mons. Brunero Gherardini, pubblichiamo in versione integrale l’articolo di Paolo Pasqualucci, L’ermeneutica della Riforma: discontinuità del Concilio nella continuità?, apparso su ‘Divinitas’, Nova Series, LIV, 2011, n. 3, pp. 284-312.

Primo Capitolo
Recentemente è apparsa in rete la traduzione italiana di un articolo pubblicato nel 2010 su ‘Nova et Vetera’ da Martin Rhonheimer, professore di etica e filosofia politica all’Università Pontificia della S. Croce, dedicato all’ “ermeneutica della riforma”, in sé stessa ed esemplificata nella nozione di “libertà religiosa”. L’articolo fa ben comprendere che cosa intenda dire il Pontefice attualmente regnante con l’espressione “ermeneutica della riforma”, come tale non immediatamente accessibile(1). Tuttavia, esso sembra creare più problemi di quanti non ne risolva e ha già suscitato pertinenti repliche. Anche dal punto di vista non specialistico del semplice credente, penso si possa sollevare qualche interrogativo concernente: la definizione stessa di questa “ermeneutica”; la rappresentazione dei primi Martiri cristiani quali sostenitori della “libertà religiosa” in senso moderno; il modo in cui viene esposta la dottrina preconciliare, che condannava la “libertà religiosa” quale frutto dell’individualismo agnostico e miscredente del Secolo; la coerenza della nuova dottrina con la Tradizione della Chiesa.
1. L’ermeneutica della riforma. Essa è ricompresa tra i concetti espressi dal Papa nel famoso discorso natalizio alla Curia, del 22 dicembre 2005, nel quale, tra l’altro, prese posizione contro l’interpretazione largamente diffusa di una Chiesa “postconciliare” diversa da quella “preconciliare”. Su questa presa di posizione, rileva l’Autore, si è costruita un’immagine inesatta di ciò che intendeva dire il Pontefice. È vero che egli ha affermato l’erroneità dell’ “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che vede nel Concilio appunto una “rottura” con la Chiesa “preconciliare”. Tuttavia, non è proclamando sic et simpliciter la validità di un’ermeneutica della continuità che egli respinge l’ipotesi della discontinuità. Che si sia limitato a questo, l’hanno pensato diversi interpreti, come ad esempio il filosofo prof. Robert Spaemann, che, per trovare un caso analogo di mutamento che non ha contraddetto la dottrina perenne della Chiesa, si è rifatto all’esempio della variazione di dottrina sul prestito ad interesse e sulla relativa interdizione dello stesso(2).
Ma si tratta di ben altro. Benedetto XVI ha dichiarato, infatti, che “all’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma” non quella di un’ermeneutica della continuità tout court. “E qual è “la natura della vera riforma”? Essa consiste, spiega il Papa, “in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi"(3). La continuità dell’insegnamento del Vaticano II con quello precedente viene dunque affermata in modo complesso: non è tale da escludere la discontinuità, tuttavia questa discontinuità, a sua volta, non è tale da escludere la continuità. L’una e l’altra operano a “livelli diversi”, che è necessario individuare e spiegare. Ma perché nella Chiesa è apparsa, con il Vaticano II, la necessità di intendere il significato della dottrina in modo nuovo, come significato che contiene una “riforma” di quanto tramandato e consolidato lungo i secoli?
Tutto è nato, precisa il Pontefice, dalla necessità che si è imposta al Concilio, “di definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e l’epoca moderna”, sia per ciò che riguardava “le scienze naturali” nel loro attuale sviluppo, sia per ciò che riguardava “il rapporto tra la Chiesa e lo Stato moderno, il quale concede spazio ai cittadini di diverse religioni ed ideologie, tenendo un atteggiamento imparziale verso le religioni e prendendo su di sé solamente la responsabilità di assicurare una coesistenza ordinata e tollerante tra i cittadini, ivi compresa la loro libertà di culto"(4).
Ma la Chiesa, osservo, aveva effettivamente la necessità di “definire in modo nuovo” il suo rapporto con lo Stato e con la scienza, ossia con la cultura moderna? L’assunto viene presentato come se si trattasse di verità per sé evidente, che all’epoca del Concilio si sarebbe imposta a tutti. Ma ciò, a mio avviso, non è storicamente esatto. Quest’esigenza di “definire in modo nuovo” quel rapporto era sentita soprattutto dalla nouvelle théologie e dai settori ammodernanti della Gerarchia: da una minoranza, per quanto attiva, combattiva e ben organizzata. Gli schemi preparatori delle costituzioni conciliari, elaborati sotto la supervisione del S. Uffizio di Ottaviani e Tromp sj, poi fatti cadere in Concilio grazie ai noti colpi di mano dei progressisti, contenevano una critica ed una condanna ragionata e razionale del mondo contemporaneo, il quale già mostrava i primi sintomi di quella impressionante decadenza che oggi affligge noi tutti e la Chiesa nel modo che sappiamo(5).
Ma ritorniamo alle parole del Pontefice. Quale la conseguenza di questa “nuova definizione” del suddetto “rapporto”? Che, “nell’insegnamento del Concilio, in tutte queste materie che costituiscono comunque un unico problema [da affrontare per la Chiesa], poteva scaturire una certa forma di discontinuità: questa discontinuità, in un certo senso, c’è effettivamente stata"(6). Dunque, un Papa ammette (ed è la prima volta) che nell’insegnamento del Vaticano II “in un certo senso, c’è stata effettivamente una certa forma di discontinuità” con l’insegnamento precedente. Ma siffatta “discontinuità” non deve intendersi come rottura o antitesi inconciliabile. Per qual motivo? Per il semplice motivo, prosegue, “che la continuità dei princìpi non è stata abbandonata”. Non essendo stata abbandonata, si è avuta una “vera riforma, la cui natura consiste nel combinarsi di continuità e discontinuità a diversi livelli"(7). Dunque cos’è che tiene insieme (senza contraddizione) continuità e discontinuità nell’insegnamento del Vaticano II? Il fatto che “i princìpi non sono stati abbandonati”; che nella discontinuità si sono evidentemente mantenuti gli stessi princìpi presenti da secoli nella dottrina che per tutti i credenti rappresenta la continuità del deposito della fede. Il Vaticano II avrebbe dunque realizzato con successo – osservo – una vera e propria coincidenza degli opposti: delle esigenze della Chiesa con quelle dello Stato e della cultura moderni (l’uno e l’altra – ricordo – fondati sul principio di immanenza, sull’antropocentrismo più radicale) senza venir meno in alcun modo ai “princìpi” tradizionali della dottrina della Chiesa, che invece richiedono la subordinazione radicale dello Stato e della cultura al Sovrannaturale, come risulta dalla Sacra Scrittura e da tutto il plurisecolare Magistero.
2. La libertà religiosa del Vaticano II come esempio di ermeneutica della riforma: la discontinuità. C’è stata dunque “una discontinuità”. Con quale aspetto della dottrina tradizionale? Il Papa apporta l’esempio dell’insegnamento sulla libertà religiosa, proposta dal Concilio come libertà di professione di fede e di culto da riconoscersi a tutte le religioni perché da concepirsi come diritto inalienabile della persona. Recita, infatti, l’art. 9 della Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa: “Quanto questo Concilio Vaticano dichiara sul diritto degli esseri umani alla libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità della persona, le cui esigenze la ragione umana venne conoscendo sempre più chiaramente attraverso l’esperienza dei secoli"(8).
Storicamente, l’istanza della “libertà religiosa”, nella prassi “libertà di culto”, quale espressione della libertà di coscienza, che si attua mediante la libertà di parola, si era posta, come sappiamo, dopo la rottura dell’unità cattolica dell’Europa a causa dello scisma dei protestanti eretici e le conseguenti guerre di religione. Il mancato rientro dello scisma aveva dato vita a soluzioni di compromesso, con la coesistenza forzata di protestanti e cattolici in uno stesso Stato. La cultura, nelle sue componenti laiche, che si andavano affermando sempre più, proclamava a gran voce il principio della tolleranza, con il conseguente riconoscimento statale della libertà di coscienza ossia di professione religiosa e di culto per le varie fedi. Ma tale indirizzo (che annovera gli Spinoza, i Locke, i Voltaire tra i suoi maggiori esponenti) si ispirava in modo evidente ad una concezione deista e razionalista della divinità, che metteva ogni religione storicamente esistente sullo stesso piano, aprendo la strada all’indifferentismo e all’agnosticismo non solo nei confronti della religione rivelata ma anche del fenomeno religioso stesso. Il laico principio di tolleranza in nome della libertà individuale di coscienza stabiliva in tal modo (all’insegna dell’indifferentismo e dell’agnosticismo) il presupposto concettuale della “libertà religiosa” che sarebbe stata poi garantita dallo Stato laico, liberale, affermatosi in Europa dopo la Rivoluzione francese.
Questa concezione (filosoficamente figlia del razionalismo protestante e poi illuminista e del panteismo di un apostata dell’Ebraismo come Spinoza) si presentava come neutrale nei confronti della religione, in nome delle esigenze della libertà individuale e della pace sociale. In realtà, essa era profondamente ostile alle religioni basate su di una Rivelazione ed in particolare al Cattolicesimo, la cui dottrina manteneva intatta sia la natura soprannaturale della vera Rivelazione che l’etica su di essa fondata. Esso veniva calunniato come superstizione, al massimo buona a tenere a freno la canaglia con la paura dell’Inferno, e comunque respinto sul piano del concetto, dal momento che Dio doveva ritenersi, dal punto di vista di questi latitudinari liberi pensatori, semplicemente un ente di ragione i cui attributi venivano elaborati dalla ragione stessa. In tal modo, Dio diventava un prodotto della nostra mente e l’uomo finiva con il divinizzarsi, con il porre la sua ragione al centro dell’universo, al posto di Dio. Come se non bastasse, tale laica concezione portava alla dissoluzione dell’etica cristiana ed anzi di ogni etica, con il toglierle ogni fondamento oggettivo, dal momento che il principio morale delle nostre azioni lo si faceva sempre ed esclusivamente dipendere dalla nostra libera coscienza individuale, dal sentimento morale che c’è in noi o dalla nostra volontà, obbediente ai dettami di una “ragion pratica” fondata sempre sul nostro io. Ma l’etica cristiana non dipende dal sentimento del soggetto né dalla sua coscienza di sé né dalla sua volontà: è fondata sulla Verità Rivelata come mantenuta dall’insegnamento della Chiesa nei secoli. Essa si compone di precetti che il nostro libero arbitrio, con l’aiuto indispensabile della Grazia, deve riconoscere come obbliganti, sia per il retto agire in questo mondo che per la salvezza della nostra anima.
Era perfettamente logico che i Papi condannassero nel modo più energico la “libertà religiosa” propugnata, alla fine, dall’ideologia liberale dell’Ottocento, fondata com’era su quel deismo che conduceva inevitabilmente all’indifferentismo e all’agnosticismo in campo religioso e morale e in campo politico ad una inaccettabile separazione fra Chiesa e Stato (da non confondersi con la legittima distinzione delle rispettive sfere di competenza). Infatti, lo Stato moderno, dandosi giustificazione e fini solo terreni, non riconosceva più come propri i valori religiosi (cosa che comportava il venire meno della difesa della morale cristiana e della Chiesa cattolica) e pertanto non si considerava più come ordinato anch’esso da Dio (nella sfera di sua competenza, che è quella del Bene comune) alla realizzazione del fine sovrannaturale per il quale ciascuno di noi è stato creato, il conseguimento della vita eterna. In tale condanna si distinsero, come sappiamo, pontefici del XIX secolo quali Gregorio XVI e Pio IX, senza escludere Leone XII e XIII. Leone XIII, nell’Enciclica Libertas praestantissimus sulla “libertas humana”, del 20.6.1888, dopo aver ricordato che la libertà dell’uomo, inerente alla sua dignità di ente razionale creato da Dio, non si poteva intendere in modo assoluto ma doveva esercitarsi con il limite di obbedire alla ragione, di perseguire il “bene morale” e di non discostarsi mai dal “sommo fine” proprio dell’uomo (la vita eterna), ribadiva la condanna dell’opinione di chi voleva concepire come “diritti naturali” la libertà di pensiero, di espressione, di insegnamento e di “promiscua religione”. Infatti, “se fosse stata la natura a conferire questi diritti, sarebbe allora legittimo ricusare i comandi divini e nessuna legge potrebbe temperare la libertà dell’uomo”. Perciò, “questi tipi di libertà” si potevano solo “tollerare”, con la dovuta moderazione, unicamente “si iustae causae sint”, ad esempio per evitare mali peggiori, in certe situazioni(9).
3. La libertà religiosa del Vaticano II come esempio di ermeneutica della riforma: la continuità. “È precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo – scrive il prof. Rohnheimer – che si trova il punto di discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso tempo una continuità più profonda ed essenziale, come spiega Benedetto XIV nel suo discorso: “il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”. Questo principio essenziale dello stato moderno e nello stesso tempo la riscoperta di questo patrimonio profondo della Chiesa costituiscono, secondo Benedetto XVI, il chiaro rigetto di una religione di stato [che avrebbero sostenuto i Papi del passato]: “I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede""(10).
Ci viene qui fornita la chiave per comprendere come la discontinuità conciliare debba considerarsi invece continuità. Nell’ottica di Benedetto XVI, la continuità esiste con le intenzioni dei Martiri della Chiesa primitiva (dalle quali, evidentemente, i Papi si sarebbero poi per tanti secoli discostati, col propugnare una “religione di Stato”). I Martiri morivano perché non volevano abiurare la loro fede ma proprio per questo morivano anche per la libertà di coscienza (che richiede, come si sa, la libertà di parola per quanto attiene alla professione della propria fede). Attribuendo al martirio dei primi cristiani anche questo significato, il ragionamento papale giunge alla conclusione che il Vaticano II, con la sua dottrina sulla libertà religiosa, oltre a riconoscere un principio fondamentale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente “il patrimonio più profondo della Chiesa”. Poiché ha riconosciuto e applicato un principio dello Stato moderno, agnostico e liberale, ci sarebbe discontinuità; poiché, nel far ciò, ha tuttavia ripreso il patrimonio più profondo della Chiesa, ci sarebbe continuità. L’elemento che più colpisce nel ragionamento del Papa è dato, a mio avviso, proprio dalla riunione di questi due opposti, come se, nel riconoscere un principio fondamentale della concezione laica (e anticristiana) dello Stato, il Concilio avesse potuto nello stesso tempo ritrovare o riscoprire “il patrimonio più profondo della Chiesa”, quello costituitosi grazie alla testimonianza del sangue dei Martiri. Per sostenere una cosa del genere, il Papa deve evidentemente attribuire al martirio dei primi cristiani anche il significato di un sacrificio consapevole per la libertà di fede e di culto (ossia di coscienza e di espressione). Deve farne, in sostanza, dei precursori consapevoli della libertà di coscienza propugnata in modo uguale per tutte le religioni dallo Stato moderno (fondato, lo ricordo ancora, sul principio di immanenza, indifferente se non ostile al fenomeno religioso in quanto tale). E dico a ragion veduta sacrificio consapevole. Infatti, se noi diciamo che solo oggettivamente essi si sono sacrificati per la libertà religiosa, da attribuire ugualmente a tutte le fedi quale diritto inalienabile della persona, non applichiamo al loro sacrificio la nostra ottica di moderni, alterandone il significato?
NOTE 
1) L’”herméneutique de la réforme” et la liberté de religion, in ‘Nova et Vetera’, no 4, Oct.-déc. 2010, http://www.novaetvetera.ch/Art%20Rhonheimer.htm. , 14 pp. Traduzione italiana, sotto la rubrica: “Chi tradisce la tradizione. La grande disputa” di Sandro Magister, in: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347670, 14 pp. Poiché il testo italiano omette alcuni passaggi e le note, l’ ho a volte integrato con quello in francese, apparso inizialmente in tedesco, in forma più ridotta, nel 2009, su “Die Tagespost” del 26.9.2009. Citerò l’articolo con la sigla ER. I passi tra parentesi quadre sono miei. La S. Bibbia viene citata nella tr. it. curata dall’Abate Ricciotti.
2) ER, p. 13 n. 2 ed. fr.
3) ER, pp. 3-4, ed. it.
4) ER, pp. 1-2, ed. fr.
5) Sulle gravi illegalità avutesi nella fase iniziale del Concilio, vedi da ultimo: R. DE MATTEI, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino, 2010: il cap. III, dedicato alla prima sessione, pp. 197-283. Nel rileggere oggi quei giudizi, si resta colpiti dalla loro profetica acutezza.
6) ER, p. 2, ed. fr.
7) Ivi.
8) I Documenti del Concilio Vaticano II. Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni, Ed. Paoline, 1980, p. 588. Tutti i successivi riferimenti a testi del Concilio sono tratti da questa edizione, confrontata su Concilii Oecumenici Vaticani II. Constitutiones – Decreta – Declarationes (curante F. Romita), Desclée ac Socii – Romae, 1967.
9) DS, 3252.
10) ER, p. 4, ed. it.
  
II Capitolo    
4. I Martiri sono morti per render gloria a Dio e convertire i pagani, assai più che per la “libertà religiosa”. Bisogna quindi accertare se le testimonianze rimasteci dei primi Martiri mostrino in loro il desiderio di sacrificarsi per la libertà religiosa nel senso moderno del termine, per tutti e per tutte le religioni, come diritto universale della persona. Rileggendo gli Atti e le Passioni dei Martiri non si trova però traccia alcuna, a mio avviso, di riferimenti a siffatta “libertà”. Si ha anzi l’impressione che ai Martiri, che sembravano letteralmente posseduti dallo Spirito Santo, di questa famosa libertà importasse assai poco. Non voglio dire, con questo, che non sarebbero stati contenti di goderne. Non sono Donatista. Voglio solamente dire che nella loro testimonianza la sua rivendicazione resta generalmente implicita, come se costituisse un elemento secondario. Importava loro, soprattutto, non cadere nel grave peccato di apostasia. La morte era consapevolmente accettata e persino invocata per render gloria a Dio e come sacrificio per la conversione del mondo pagano. “Potessi io persuadere voi a farvi cristiani!” gridava alla folla persecutrice il martire Pionio mentre veniva condotto al supplizio, respingendo l’invito pressante ad abiurare per salvarsi la vita*1.
La religione cristiana, in quanto unica vera, perché l’unica sicuramente rivelata, era incomparabile (oltre che incompatibile) con le altre. Battersi per l’universale libertà di coscienza in religione avrebbe significato metterla sullo stesso piano delle altre, tutte false perché non rivelate da Nostro Signore. Esse non venivano da Dio ma dagli uomini, in particolare il paganesimo, impestato dal Demonio (Salmo 96, 5; 1 Cr 10,20). I Martiri volevano la libertà di martirio, di morire per la loro fede, e sembravano disinteressarsi completamente della libertà di professarla come una religione uguale alle altre, tra le altre. Quando S. Perpetua, condotta con gli altri a morire nell’Arena di Cartagine, vide che per dileggio e per farli in qualche modo apostatare volevano far indossare a tutti loro indumenti usati nelle iniziazioni ai misteri pagani, esclamò, ottenendo il contrordine: “Siamo giunti al martirio spontaneamente, proprio perché la nostra libertà non venisse incatenata (ne libertas nostra obduceretur); abbiamo rinunciato alla nostra vita proprio per non esser costretti a fare cose simili: questo era il patto che avevamo concordato [con le autorità]”*2. Quale libertà temevano venisse loro conculcata, quella “religiosa”, di “culto”, da riconoscersi per di più su di un piano di parità anche alle false religioni? No: era la libertà di poter correre subito con tutta l’anima e persino con gioia verso Cristo Risorto, grazie al “battesimo di sangue”!
Se poi guardiamo alla letteratura apologetica, non mi sembra che il quadro subisca mutamenti sostanziali. Gli Apologisti si preoccupavano soprattutto di dimostrare la vacuità e l’assurdità delle infami calunnie diffuse sui cristiani (“ateismo, cene tiestee e unioni edipodee” nelle parole di Atenagora), dimostrando la falsità del politeismo, le ipocrisie di chi li voleva giudicare, la dignità e l’onestà della loro religione; rivendicando la loro fedeltà all’impero, in quanto governo civile giusto ed efficiente, purché non pretendesse di usurpare gli attributi di Dio*3. Non mi sembra che gli Apologisti presentino i cristiani in generale quali vittime della mancata libertà di parola e di coscienza o i martiri quali caduti nella lotta per questo tipo di libertà. Di essa non troviamo traccia nella breve esortazione Ad Martyras di Tertulliano. La libertà di parola, per la mentalità romana, era da attribuirsi a chi possedesse auctoritas: non c’era il concetto moderno di un diritto universale della persona in quanto tale a siffatta libertà e pertanto a quella di manifestare comunque la propria fede religiosa, con l’obbligo da parte dello Stato di garantire tale manifestazione*4.
Che significato bisogna dare, allora, al riferimento alla “libertas religionis” negata ai cristiani, che ritroviamo in un noto passo di Tertulliano? A mio avviso, il riferimento del grande apologista più che a rivendicare un diritto mira a far vedere le contraddizioni della legislazione imperiale in materia. Ma come, esclama, voi ci perseguitate già solo per il nostro nome, mettendoci brutalmente di fronte all’alternativa: abiura o condanna (e spesso a morte); non ci lasciate esporre il vero contenuto del nostro credo, che è quello della fede nel vero ed unico Dio; voi vi preoccupate di “sopprimere la libertà religiosa” (adimere libertatem religionis) nei nostri riguardi mentre autorizzate tutte le religioni possibili ed immaginabili, tant’è che “è stato permesso agli Egiziani di praticare la loro fatua superstizione che è tutta nella celebrazione di uccelli e bestie, condannando a morte chiunque si renda reo di soppressione di uno qualsiasi di questi dèi. Non c’è provincia, non c’è città che non abbiano il loro dio: per la Siria Atargatis, per l’Arabia Dusares; per il Norico Beleno, per l’Africa Celeste, per la Mauritania i suoi reucci”. E nei municipi italiani, troviamo “Delventino a Cassino, Visidiano a Narni, Ancaria ad Ascoli, Norzia a Bolsena, Valenzia a Otricoli” e chi più ne ha più ne metta. “Solo a noi si contesta il diritto di una religione propria! (Sed nos soli arcemur a religionis proprietate!)”. Si arriva così all’assurdo che voi ammettete “il diritto di adorare chi si vuole fuorché il vero Dio, quasi questi non fosse piuttosto l’Iddio di tutti perché tutti siam suoi"*5.
Pur essendo qui evidente una rivendicazione implicita al riconoscimento della libertà di culto anche per i cristiani, che certo (ripeto) sarebbero stati lieti di vedersela attribuire, lo spirito che la informa non è sicuramente quello moderno della rivendicazione di un diritto universale della persona e quindi da riconoscersi a tutte le religioni. A Tertulliano preme soprattutto far vedere l’assurdità di una legislazione che permette libertà di culto a tutte le religioni, anche le più strane, e a tutti i culti del genius loci, mentre vieta l’unica dedicata al vero Dio e quindi intrinsecamente superiore a tutte le altre. Il suo rilievo sembra in realtà costituire un’ulteriore rivendicazione della superiorità assoluta del Cristianesimo, non una rivendicazione di una libertà religiosa uguale per tutti. È questa superiorità, che gli deriva dalla sua intrinseca, assoluta verità di unica religione rivelata da Dio, a rendere meritevole il Cristianesimo del riconoscimento di religio licita (che fu poi accordato tra il 311 e il 313).
Ma i “primi cristiani”, secondo il prof. Rhonheimer, si limitavano a richiedere “la libertà di poter confessare la loro fede senza esser vessati dallo stato”, senza “rivendicare la promozione da parte dello stato della verità religiosa”, facendo di fatto valere l’esigenza di una “libertà di coscienza” che “corrisponde esattamente” al modo nel quale la si intende oggi*6. E si limitavano a questo perché “a partire dal Vangelo e dall’esempio di Gesù Cristo”, il Cristianesimo “è stato concepito come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica”*7. Ma anche nei cristiani poco inclini al martirio dobbiamo sempre presumere la stessa convinzione di Tertulliano: che solo la loro religione fosse l’unica vera e che a questa, secondo il dettato evangelico, tutto l’orbe dovesse esser convertito, evidentemente a scapito delle altre, frutto di testarde apostasie o di perniciose superstizioni, onde la libertà di culto ad essa eventualmente concessa mai avrebbe potuto avere il significato che già aveva per le altre. E ciò a prescindere dalla “promozione” della verità religiosa da parte dello Stato. Ma si può dire che i primi cristiani si disinteressassero del rapporto tra Stato e religione, accontentandosi di ottenere il libero esercizio del loro culto da parte di uno Stato che si mantenesse neutrale ed imparziale in materia? Se rileggiamo un famoso passo di Tertulliano, non vi troviamo già inevitabilmente l’ipoteca cristiana sullo Stato?
5. I primi cristiani già miravano a convertire lo Stato. Respingendo l’accusa di “lesa maestà” per via del rifiuto a sacrificare per l’imperatore, Tertulliano replica che i cristiani pregano per l’imperatore invocando su di lui la protezione del vero Dio, che gli ha conferito la sovranità per il bene dei popoli. Gli imperatori “sanno molto bene chi ha loro conferito l’impero”. E ognuno di loro deve capire che “è sovrano in virtù di colui da cui dipende come uomo prima che come imperatore; la potestà gli viene là donde gli viene pure l’anima”*8. I cristiani dunque possono dire, con pieno diritto: “Cesare è più nostro che vostro, perché è il nostro Dio che l’ha costituito come tale”*9. Ma che significa ciò se non auspicare da parte degli imperatori la presa di coscienza della giusta origine divina del loro potere; presa di coscienza che poteva aver luogo solo mediante la loro conversione a Cristo? La missione di convertire tutti i popoli e le nazioni, e non solo Israele, ordinata da Cristo risorto (Mt, 28, 18-20), non poteva certo limitarsi alla coscienza individuale dei privati: essa doveva necessariamente investire anche i governanti, in quanto individui preposti al bene dei popoli, e quindi mirare a render cristiano il governo dello Stato. E uno Stato cristiano avrebbe potuto limitarsi ad una posizione neutra ed equidistante nei confronti della vera religione, senza promuoverne gli insegnamenti nella società, a cominciare da quelli morali, e senza difenderla dall’attacco delle eresie, corruttrici delle anime e dei costumi, e in generale da ogni tipo di ostilità e pericoli? Mi sembra pertanto assai poco credibile fare dei primi cristiani una sorta di liberali ante litteram, preoccupati soltanto della libera manifestazione del loro particulare confessionale, nel rispetto della “libertà religiosa” altrui, garantita dallo Stato.
6. Il significato dottrinale delle condanne preconciliari. E vengo ora al modo nel quale l’Autore, proseguendo nel suo commento al pensiero del Pontefice, espone le ragioni delle condanne preconciliari della “libertà religiosa”. Infatti, perché Gregorio XVI e Pio IX, “per non citare che questi due papi, avevano identificato il fondamentale diritto alla libertà di religione, di coscienza e di culto del cittadino moderno con una negazione della vera religione”? Perché “essi non potevano immaginare che una verità religiosa e una vera Chiesa potessero esistere senza che quest’ultima non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla politica, e rispettata dal diritto civile. In effetti, un gran numero dei loro avversari liberali rivendicavano la libertà di religione presentando l’argomento esattamente contrario: una tale libertà è necessaria perché non c’è affatto una verità religiosa”*10.
L’accenno dell’Autore al nucleo filosofico e teologico della dottrina preconciliare, merita ulteriori approfondimenti. Per i Papi, infatti, non si trattava di difendere “una verità religiosa” ma “la verità religiosa”, l’unica autentica verità perché rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo, consustanziale al Padre, seconda Persona della Santissima Trinità. I liberali, più ancora che negare l’esistenza “di una verità religiosa”, negavano la possibilità stessa dell’esistenza di una verità assoluta, sulla fede e sui costumi, come quella costituita appunto dalla Verità Rivelata. Ciò era conforme alla loro nozione soggettivistica della verità, cui non conferivano un sicuro fondamento oggettivo fuori di noi, dipendendo essa sempre (dicevano) dai nostri sensi e dal concetto elaborato dalla nostra mente e pertanto dalla nostra opinione, dal nostro modo di sentire. Per i liberali, la S. Bibbia era (ed è) nient’altro che mitologia, allo stesso modo, per dire, del Rig Veda. Tra Cattolicesimo e Liberalismo c’era (e c’è) un contrasto insanabile nel modo di intendere la verità e per conseguenza la libertà. Il soggettivismo e relativismo del punto di vista liberale privilegiava la “libertà” intellettuale, morale e pratica del soggetto, dandole un valore assoluto, prevalente sulle esigenze della verità, che non potevano mai esser tali da impedire quella libertà (veritas ancilla libertatis, potremmo dire: della libertà incondizionata del nostro io, condizionata solo da esigenze esterne quali la correttezza contrattuale, l’ordine pubblico e la pace sociale). Il punto fu colto egregiamente da Leone XII nella Mirari vos (1832). Egli sottolineò come l’indifferentismo, che metteva sullo stesso piano tutte le religioni, fosse figlio della “libertas opinionum” proclamata dalla coscienza moderna, noncurante dell’ammonimento di S. Agostino: “At quae peior mors animae, quam libertas erroris?”*11. Il fatto è che, per la coscienza moderna, “l’errore” non esiste, negando essa assurdamente l’esistenza di una verità oggettiva, tanto più se assoluta, perché di origine sovrannaturale. Le condanne preconciliari della “libertà religiosa” riposavano dunque su di un solido nucleo dottrinale, ad un tempo metafisico e teologico. Non erano semplici “provvedimenti disciplinari”, come ha sostenuto qualcuno*12. “Per Pio IX era in pericolo la salvaguardia stessa dell’essenza della Chiesa, della sua rivendicazione di essere l’unica verità e causa di salvezza”, essendo negata tale rivendicazione dall’indifferentismo e relativismo religiosi*13. Mantenendo nel deposito della fede la verità assoluta che è la Verità Rivelata, la Chiesa ­­ è necessariamente l’unica “causa” della Salvezza e fuori di essa non si dà salvezza (tranne – ricordo – nei casi individuali di Battesimo di desiderio, implicito o esplicito, perché gli uomini giusti e pii che senza colpa non conoscono la vera religione, non vanno in perdizione)*14.
NOTE 
(1) Atti e passioni dei Martiri, nell’ edizione critica apparsa nella collana della Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 1995³, p. 167. Dichiararsi cristiano significava rischiare la condanna a morte, se non si abiurava sacrificando agli dèi del culto ufficiale o per o all’imperatore. Ma compiere questo sacrificio significava appunto apostatare, violare il Primo Comandamento.
(2) Ivi, p. 141.
(3) ATENAGORA, Supplica per i cristiani, tr. it. introd. e note a cura di P. Gramaglia, Ed. Paoline, 1965, p. 36, per le calunnie. Sembra che queste mostruose falsità trovino ancora largo credito tra le plebi musulmane. Ma le calunnie più incredibili investono di nuovo il Cattolicesimo in Occidente grazie alle campagne mediatiche organizzate sulla scorta di romanzi d’accatto, che sembrano scritti con il preciso scopo di attaccare la nostra religione, quali il tristemente noto: The Da Vinci Code, dell’americano Dan Brown.
(4) Sul nesso libertà di espressione-autorità, cfr. : A. MOMIGLIANO, La libertà di parola nel mondo antico (1971), ora in ID., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Ed. di Storia e letteratura, Roma, 1980, pp. 403-36; p. 432. Sottolinea inoltre l’illustre Autore: “Per quel che ne so, nessuno presentò la disputa pro o contro il cristianesimo come una questione che coinvolgesse il principio della libertà di parola” (ivi, p. 433). La libertà di parola è sempre stata considerata aspetto essenziale della libertà di coscienza e religiosa nel senso moderno del termine.
(5) Apologeticum, 24, tr. it. con testo a fronte di E. Buonaiuti, introd. revis. e commento di E. Paratore, Laterza, 1972, pp. 150-3.
(6) ER, ed. it., p. 4.
(7) Ivi, p. 11.
(8) Apol., 30, ed. cit. pp. 175-7.
(9) Ivi, 33, pp. 181-3.
(10) ER, ed. it., p. 4.
(11) DS, 2731.
(12) ER, p. 10, ed. it.
(13) Ivi.
(14) Rm 2, 9-16; Civ. Dei, I, XXXV; Denz.-Stahl, 1504 (Alloc. di Pio IX Singulari quadam del 9.12.1854); Denz.-Schönmetzer, 3866-3873 (Epist. del S. U. dell’8.8.1949 che condanna il rigorismo).
    
III capitolo      
7. Infondatezza della critica a Pio IX e all’intera dottrina della Chiesa sul rapporto con lo Stato. Riconosciuta la grandezza di Pio IX per aver difeso la fede contro “l’individualismo e il relativismo religiosi”, il Nostro inizia però a criticarlo perché quel Papa avrebbe trasformato “la giusta battaglia contro l’indifferentismo e il relativismo” in una “battaglia contro il diritto civile alla libertà religiosa e di culto”. Questa trasformazione, secondo l’Autore, è dovuta al prevalere all’epoca di considerazioni storicamente datate, secondo le quali “lo stato è il garante della verità religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello stato come del suo braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorali. Ora, una tale concezione dello Stato non riposava minimamente sui principi della dottrina della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni e le pratiche del diritto religioso di origine medievale così come sulle loro giustificazioni teologiche”. Riposava, allora, unicamente “su dei modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma che hanno acquistato la loro forma definitiva soltanto all’interno dello stato confessionale moderno”*1.
Queste affermazioni mi sembrano estremamente pesanti: l’Autore sostiene in pratica che tutta la dottrina della Chiesa sulla necessità per lo Stato di essere cristiano e di operare pertanto anche come braccio secolare in difesa della vera religione e della Chiesa, “non riposa minimamente sulla fede e la morale cattoliche” e pertanto nemmeno sul dogma! La Gerarchia avrebbe sbagliato per così tanti secoli, dunque! E non solo, osservo, dalla tarda antichità ma da sùbito. Il tetrarca Agrippa non interruppe forse l’incalzante argomentare di S. Paolo, dicendogli: “ Poco manca che tu non mi fai diventar cristiano!”, ricevendo questa risposta: “Manchi poco o molto, desidero da Dio che non solo tu, ma quanti oggi mi ascoltano, diventiate tali quale son io, salvo queste catene [della prigionia]” (Atti 26, 28-9; ma vedi anche 2 Tm 4, 1 ss.). S. Paolo stava forse perorando per la “libertà religiosa”, perché la vera fede si vedesse elargita l’elemosina del riconoscimento di religio licita? I Martiri e gli Apologisti (come si è visto) non sentivano e non parlavano diversamente da S. Paolo. Proselitismo, dunque, anche trovandosi in catene, e fino all’ultimo respiro, affinché il più gran numero possibile si convertisse e si salvasse! E nel pieno delle persecuzioni di Marco Aurelio, Melitone, vescovo di Sardi, non ebbe il coraggio di affermare che “la fede cristiana doveva diventare la filosofia [la concezione della vita] dell’impero romano”?*2 Rischiavano la morte per il solo fatto di esser tali eppure già pensavano di poter conquistare l’impero romano, di fare della Fede la sua “filosofia”. Che anche lo Stato debba essere cristiano, che debba perciò proteggere la vera religione e la Chiesa e farne applicare la morale, è dottrina (e prassi) costante, da S. Ambrogio a S. Agostino a S. Tommaso, allo “Stato confessionale moderno”; dottrina inalterata, possiamo dire, sino a Pio XII, fondata sulla Scrittura oltre che sulla Tradizione. Ma davvero dobbiamo credere che tutti avrebbero sbagliato, che solo il Vaticano II, dopo un’oscurità di circa venti secoli, avrebbe fatto chiarezza?
E per qual motivo questa dottrina non riposerebbe “né sulla fede né sulla morale cattoliche”? Come giustifica il prof. Rhonheimer un’affermazione del genere? Con l’intendere il “rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Lc 20,25) come se Nostro Signore avesse comandato una separazione radicale tra “religione” e “politica” e quindi fra lo Stato e la Chiesa. Già l’epoca “post-costantiniana del cristianesimo” avrebbe rappresentato una deviazione, mediante “decisioni concrete [quali?]” poi “cristallizzatesi in tradizioni canoniche e nelle loro interpretazioni teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha cercato di difendere la sua libertà, la “libertas ecclesiae”, dagli attacchi incessanti delle potenze temporali: si pensi in particolare alla dottrina medievale delle due spade che, all’epoca, cercava di giustificare teologicamente e biblicamente la comprensione della “plenitudo potestatis” del papa”. Dalla teoria delle due spade, che sembra non godere la simpatia dell’Autore, si è giunti, nei secoli più vicini, a “una giustificazione dello stato cattolico ideale”, quello della simbiosi tra “il trono” e “l’altare”, nel quale lo statista cattolico zelante “sosteneva la causa dei “diritti della Chiesa” invece che dei diritti civili alla libertà religiosa; si è giunti al trionfo del “clericalismo” e ad una “società clericale”, cose che “hanno oscurato il volto della Chiesa”*3.
Insomma, il Papa teorico delle “due spade” sarebbe stato tra i responsabili del “clericalismo” che (sino al Vaticano II escluso) avrebbe “oscurato il volto della Chiesa”. Ma il significato della celebre frase del Signore sul rapporto tra Cesare e Dio, tra Stato e Chiesa, mi chiedo, chi lo deve stabilire? Non è compito che spetta alla Chiesa stessa, come ribadiscono i dogmatici Tridentino e Vaticano primo? E se la Chiesa stessa l’ha interpretato in un medesimo senso per così tanti secoli, per qual motivo il prof. Rhonheimer ne dà un’interpretazione diversa e persino opposta, proponendo l’idea della separazione là ove si tratta invece di distinzione? Infatti, nel famoso passo dell’epistola dell’AD 494 indirizzata ad Anastasio imperatore d’Oriente, Gelasio I affermò che “le due spade”, i due poteri i quali, per volontà divina, reggevano il mondo (la “auctoritas sacrata pontificum” e la “regalis potestas”) erano due “dignitates distinctae”, poiché presiedevano la prima “all’eterna vita”, la seconda “al corso delle cose temporali”, e tuttavia coordinate nella subordinazione a Cristo, unico vero Capo*4.
Distinzione e non separazione poiché lo Stato, pur essendo distinto ed autonomo nella sua sfera (così come la Chiesa nella sua), deve tuttavia considerarsi sempre subordinato allo Spirituale, dal quale dipendono le norme morali che lo Stato ha il dovere di attuare sia per realizzare il suo fine specifico (il Bene comune, con la sua giustizia) sia per concorrere anch’esso (per ciò che gli spetta e quindi sempre nella sua sfera) alla realizzazione del Bene Sommo da parte di ciascun cittadino, costituito dalla salvezza della sua anima. La separazione è inaccettabile perché implica divergenza quanto ai rispettivi fini specifici. Invece, anche lo Stato deve ritenersi ordinato nella sua sfera alla realizzazione del Bene Sommo, che è sovrannaturale: rappresentato dalla Visione Beatifica, della quale godranno un giorno gli Eletti da Dio, in eterno. Che questa plurimillenaria dottrina della Chiesa, fondata da sempre su Rm 13, 1-6, e su di un’interpretazione costante della celebre frase di Nostro Signore sopra ricordata, non sia in accordo con la fede e la morale cristiane, e quindi con il dogma, è affermazione che mi sembra alquanto temeraria. La Chiesa non poteva accettare l’unione di politica e religione che si realizzava nella persona pagana dell’imperatore romano. Ma essa ha ovviamente sempre respinto l’idea di una separazione tra Stato e Chiesa poiché quest’ultima comporta appunto la concezione laica dello Stato, indifferente ad ogni credo religioso e alla vita eterna, inteso solo alle finalità di questo mondo. E comporta quel pluralismo religioso che sicuramente non è mai stato insegnato da Nostro Signore, il quale ha detto e ripetuto che solo Lui è la verità, la via, la vita, la Porta attraverso la quale il buon pastore può far uscire le pecore, le anime dei fedeli da questo mondo per condurle al pascolo della vita eterna (Gv 10, 7 ss.). Dal punto di vista veramente cristiano, ossia cattolico, non può esistere uno Stato che sia neutrale ed imparziale rispetto alla religione e quindi indifferente a Cristo. Il Signore stesso ci ha ammonito: “Chi non è con me è contro di Me e chi non raccoglie con Me disperde”. La profonda verità racchiusa in queste parole colpisce vieppiù oggi, costretti come siamo a constatare il carattere sempre più anticristiano della nostra società, governata da uno Stato che vuol essere laico, cioè senza religione, senza Dio, senza morale, preoccupato soprattutto dei bisogni materiali dei cittadini.
8. L’Autore riesce a dimostrare l’effettiva continuità della nuova dottrina? Alla dottrina preconciliare (risalente ai primi tempi della Chiesa), l’Autore oppone dunque quella conciliare: “La dottrina del Vaticano II rappresenta qui una chiara svolta rispetto al passato”; essa libera la Chiesa da “un fardello storico”; bisogna dire che essa ha “tacitamente archiviato” la dottrina preconciliare “con l’atto di magistero solenne di un concilio ecumenico”*5. A proposito di quest’ultima affermazione mi chiedo, da semplice credente: questa “archiviazione tacita” effettuata da un Concilio ecumenico solo pastorale – perché non ha voluto dare definizioni dogmatiche – ha un significato dal punto di vista teologico e canonistico? O dobbiamo equipararla alla “archiviazione tacita” della S. Messa di rito romano antico effettuata da Paolo VI? E quanto alla coerenza di questa nuova dottrina, che cosa dire?
8.1 La libertà religiosa come diritto naturale. Se la nuova dottrina crede ancora che la religione cristiana ossia cattolica (perché bisogna evidentemente escludere gli eretici e gli scismatici) sia l’unica vera perché l’unica autenticamente rivelata da Dio, allora non può porre la sua rivendicazione della connessa “libertà religiosa” sullo stesso piano di quella delle altre religioni, nessuna delle quali può considerarsi rivelata. Se lo fa, tale equiparazione deve prescindere totalmente dal contenuto della religione ossia dalla sua verità. Adoratori delle cipolle sacre, della dea Kalì, adepti del Vûdû, totemisti, cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, sono posti tutti sullo stesso piano in quanto titolari di un supposto “diritto naturale” della persona alla “libertà religiosa”, diritto fondato sulla “dignità della persona” stessa (Dignitatis Humanae, 2). Infatti, in quanto “diritto naturale”, tale diritto spetta ontologicamente ad ogni individuo, perché ogni individuo è persona, sia esso un uomo civilizzato o un cacciatore di teste*6. In quanto diritto naturale, si tratta di un diritto assoluto, che lo Stato deve riconoscere e che implica di per sé l’equiparazione assoluta di tutte le religioni. Ma in tal modo, la nuova dottrina non viene a contraddire implicitamente il dogma della fede, secondo il quale la religione predicata da Cristo, essendo l’unica vera a causa della sua indiscussa origine divina, non può esser mai considerata uguale alle altre, con le relative conseguenze che ciò comporterebbe? Insomma, che ne è dell’unicità della nostra religione, del Cattolicesimo in quanto Verità divinamente rivelata, unico strumento della salvezza? Se la religione cattolica è l’unica vera, la rivendicazione di cui sopra non può esser paritaria; se la si vuole paritaria, ciò equivale a negare che la religione cattolica sia l’unica vera.
Come esce il Concilio da questo dilemma, provocato, lo ripeto, dall’aver concepito la “libertà religiosa” non come una semplice facoltà, riconosciuta dallo Stato, esercitabile con prudenza a seconda delle circostanze storiche (vedi Enciclica di Leone XIII, supra, § 2), ma addirittura come un diritto naturale di ogni individuo in quanto persona, diritto che non solo lo Stato ma anche la Chiesa ed anzi tutte le religioni devono riconoscere, se non vogliono violare la “dignità” della suddetta persona? Dopo aver concepito questo “diritto” in modo così rigido, il Concilio riesce ad accordarlo con il principio, assoluto dato il suo fondamento sovrannaturale, dell’unicità della religione cattolica, in quanto unico strumento di salvezza?
8.2 Il Concilio ha mantenuto “l’unicità” del Cattolicesimo? Scrive il prof. Rhonheimer: “Come insegna il Vaticano II, il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in alcun modo che tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle persone e non concerne la questione di sapere in quale misura ciò che le persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che i fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà di culto, non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le religioni debbano essere “ugualmente vere””*7. Dove insegna il Concilio che non c’è equivalenza tra tutte le religioni? Verosimilmente in DH, 1, là ove si dice: “E poiché la libertà religiosa […] riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo”*8. Nel capoverso precedente dello stesso articolo, la DH ribadiva questa dottrina tradizionale, affermando che “il sacro Concilio professa che Dio stesso ha fatto conoscere al genere umano la via attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e pervenire alla beatitudine. Quest’unica vera religione crediamo che sussista [solamente] nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato la missione di comunicarla a tutti gli uomini [segue citazione di Mt 28, 19-20] E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle fedeli”*9.
Riportando questo passo, mi sono permesso di inserire tra parentesi quadre un avverbio (solamente, solum) che, io credo, se inserito dai Padri conciliari, avrebbe permesso di affermare senz’ombra di dubbio che il testo ripete in modo del tutto fedele il dogma della fede, sulla assoluta unicità ed esclusività della Chiesa cattolica in quanto strumento di salvezza istituito da Nostro Signore. Così com’è, infatti, il testo non sfugge, com’è noto, all‘impressione di una sostanziale ambiguità, dovuta anche all’uso del “subsistit in” del famoso art. 8 di Lumen Gentium, ove si definisce la natura della Chiesa cattolica come se fosse parte dell’unica “Chiesa di Cristo”: parte poiché quest’ultima, oltre alla Chiesa cattolica, ricomprenderebbe anche “parecchi elementi di santificazione e verità” posti “al di fuori” della Chiesa cattolica. Perciò “l’unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica” sarebbe allora quella di una “Chiesa di Cristo” che possiede “elementi” al di fuori della Chiesa cattolica. E chi vuole non può forse intendere che “l’unica vera religione” sussiste allora anche negli “elementi” non-cattolici della “Chiesa di Cristo”?
Ma torniamo al punto: perché, secondo il Concilio, non v’è contraddizione tra la dottrina nuova e la vecchia? Perché la dottrina nuova, ci viene spiegato da DH 1, “lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (“Chiesa di Cristo”, si noti). Ma qual’è la dottrina tradizionale “sul dovere verso la vera religione etc.”? Si dovrà ammettere che tale dottrina non è qui facilmente identificabile, essendo il suo oggetto indicato con l’oscura espressione “dovere verso la vera religione etc.”. Che significa “dovere verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo”? Dovere di fare che cosa? Il significato di queste affermazioni, ci ricorda il prof. Rhonheimer, è chiarito dal CCC, al n. 2105, che afferma, “citando il passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell’individuo che della società “rendere a Dio un culto autentico”. Culto che la Chiesa realizza “evangelizzando senza posa gli uomini”, affinché essi possano penetrare di spirito cristiano “la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui vivono”. A ogni cristiano si chiede di far conoscere “l’unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica”. Questo è il modo – conclude l’articolo del CCC – nel quale la Chiesa manifesta “la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane””*10.
La dottrina nuova esprimerebbe dunque gli stessi concetti della “dottrina tradizionale”, quando stabilisce i doveri dell’uomo verso Dio. E questi “doveri” si sintetizzano nel “dovere” di rendere a Dio “un culto autentico”. Questo dovere – osservo – vale come sappiamo per ogni uomo, non solo per i cristiani. Ma poiché i culti sono non solo diversi ma persino opposti tra loro, quale sarà allora “il culto autentico”? È possibile ricavare un concetto universale di “culto autentico”?*11 Sarà forse quello di una religione naturale, che viene dal cuore, come per i Pietisti, o dalla sensibilità, come per il rousseauiano “Vicario Savoiardo”? Che vuol dire poi “autentico”? L’animista che adora il suo feticcio o il quacchero che recita parole incomprensibili torcendosi sotto l’émpito dello “Spirito” offrono un culto meno “autentico” o più “autentico” di chi prega devotamente in una chiesa cattolica o invoca Allâh inginocchiato nel deserto? Comunque sia, questo “culto autentico” da cosa è costituito, per la Chiesa, anzi per “i cristiani”? Dall’”evangelizzazione”. Per “convertire” gli uomini, praticando il proselitismo della dottrina tradizionale? No. Per far sì che “la mentalità, i costumi, la società etc.” siano “penetrati” dello “spirito cristiano”. Questo il dovere dei singoli cristiani, per “affermare la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane”. Bisogna che il mondo sia “penetrato” ed anzi “impregnato dello spirito di Cristo” (LG, 36), che i cristiani “animino e perfezionino con lo spirito cristiano l’ordine delle realtà temporali” (decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici, 4).
La dottrina tradizionale sosteneva che la missione della Chiesa era quella stessa degli Apostoli: convertire (“render discepoli di Cristo”) i popoli e gli individui, perché solo diventando cristiani potevano esser graditi a Dio ed ottenere la vita eterna. La nuova dottrina, invece, afferma che l’evangelizzazione deve limitarsi a “impregnare” gli uomini di spirito cristiano, facendo loro conoscere “l’unica vera religione”, che è quella “che sussiste [anche o solamente?] nella Chiesa cattolica ed apostolica”. “Penetrare”, “impregnare”, “animare”: tanti termini oscuri al posto di uno semplice e chiaro quale “convertire”.
Ma ammettiamo pure che il Concilio mantenga senza ambiguità la dottrina tradizionale sulla necessità imprescindibile della conversione delle Genti per la loro salvezza. Si concilierebbe tale professione con il riconoscimento della libertà di religione quale diritto naturale e quindi assoluto della persona? Si concilierebbe con l’accettazione di fatto del conseguente pluralismo religioso?
NOTE 
1) ER, p. 11, ed. it. Corsivi miei.
2) E. GILSON, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo (1952), tr. it. di M. Assunta del Torre, present. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze, 1995, p. 31.
3) ER, p. 12 ed. it. Corsivi miei.
4) F. CALASSO, Medio Evo del diritto. I - Le fonti, Giuffré, Milano, 1954, p. 140.
5) ER, passim, ed. it. L’ultima citazione è alla p. 12.
6) ER, ed. it., p. 9: “È dunque certamente giusto dire che il Concilio Vaticano II considera la libertà religiosa come facente parte del diritto naturale”.
7) ER, ed. it., p. 8. Corsivi miei.
8) I documenti del Concilio etc., cit., p. 580.
9) Ivi.
10) ER, ed. it., p. 7. Si evita sempre di dire: “che sussiste solamente nella Chiesa Cattolica”.
11) La Mediator Dei (1947), in modo netto e preciso, parlava invece del dovere per tutti gli uomini di offrire: “debitum cultum atque obsequium per religionis virtutem Deo uni et vero”(PIO XII, Enciclica ‘Mediator Dei’ sulla liturgia, tr. it. con testo a fronte, Vita e Pensiero, Milano, 1956, p. 14).
   
IV capitolo       
8.3 Quale diritto naturale ci propone DH 2? Il Concilio, a proposito della libertà religiosa, propugna, dunque, “un diritto della persona e non della verità"(1). Esso separa (alla maniera dei Moderni) la libertà della persona, con le sue esigenze di libera manifestazione del pensiero, dalla verità religiosa, che ha le sue proprie esigenze. Quest’ultima, afferma di averla salvata dall’indifferentismo perché avrebbe mantenuto (nel modo che si è appena visto) l’idea dell’unicità del Cattolicesimo per la salvezza, onde graverebbe sempre sulla persona l’obbligo morale di ricercare la verità, sì da giungere alla conoscenza della vera religione. Ma quest’unica e superiore verità, costituita dalla Verità Rivelata, non resta come in una sorta di limbo, se non se ne proclama il diritto ad esser predicata nei confronti delle altre religioni (tutte non rivelate tranne l’Ebraismo, caduto però nell’apostasia a causa del suo rifiuto cosciente e persistente di Cristo) affinché i loro seguaci le abbandonino per convertirsi al Cattolicesimo, cioè a Cristo? Se la religione cattolica ha effettivamente preservato, grazie al Magistero della Chiesa, la Parola del Dio che si è fatto uomo, non c’è (supposto) “diritto naturale” alla libertà religiosa che possa esserle opposto, per impedirle di convertire i popoli e gli individui, sostituendosi alle altre religioni, facendole sparire (sostituendovisi di fatto, grazie alla conversione dovuta alla predicazione e all’esempio di vite veramente cristiane, illuminate dalla Grazia, non ad un intervento dello Stato, la cui azione come “braccio secolare” ha del resto sempre avuto un significato secondario, di intervento a difesa).
Invece il Concilio afferma che lo Stato non deve “promuovere” la religione cristiana e deve invece garantire l’opportuna libertà di culto a tutte le religioni (DH, 2, 4, 6). Il rispetto del diritto naturale alla libertà religiosa da parte dello Stato deve essere assoluto: lo Stato ha il dovere di garantirla a tutti come “diritto civile” (DH, 2, 4, 7, 13). Ma questo rispetto assoluto ha una conseguenza anche per la Chiesa: quella di renderne praticamente impossibile l’opera di conversione degli infedeli. Anche la conversione, inattuabile senza proselitismo, sarebbe, infatti, una coartazione del diritto naturale alla libertà religiosa dei non-cattolici, perché essa (come si vede dai Vangeli) consiste nell’investirli frontalmente con la proclamazione della Parola di Dio, che incita al pentimento, a mutar vita, ad abbandonare le loro vane credenze anteriori. Tutto ciò, oltre a provocare la reazione (spesso violenta) delle altre religioni, nell’ottica adottata dalla DH non appare comunque un far violenza all’altro? Violenza in senso psicologico, si intende, menzionata espressamente dal Concilio, quando afferma che gli uomini sono sì tenuti a ricercare la verità nella religione e ad ordinare ad essa tutta la loro vita, una volta conosciutala, ma alla condizione di godere sempre della “libertà psicologica” oltre che dell’assenza di “coercizione esterna” (DH, 2). Si comprende allora il perché degli impegni formali con Grecoscismatici ed Ebrei a non far opera di proselitismo nei loro confronti o perché una Madre Teresa di Calcutta non abbia mai cercato di convertire nessuno alla vera fede(2). Cercare di convertire eretici, scismatici ed infedeli, per la salvezza della loro anima, vorrebbe dire coartarli nella loro “libertà psicologica”!
Di fronte ad una concezione così radicale della “libertà religiosa”, dobbiamo chiederci: quale concetto di “diritto naturale” è posto a suo fondamento? Non si tratta certo di quello elaborato dalla Scolastica e sempre impiegato dal Magistero preconciliare. Il “diritto [naturale] della persona” alla libertà religiosa, di cui a DH 2, riposa esclusivamente sulla persona stessa, sulla sua “dignità” intrinseca. È un diritto naturale dell’uomo in quanto uomo. Nella plurisecolare concezione cristiana tradizionale, invece, il diritto naturale è visto sempre come l’espressione di un’idea di giustizia il cui fondamento è nella volontà stessa di Dio: esso non riposa mai sull’essere umano in quanto tale(3). Ma il Concilio non dice forse, sempre in DH 2, che “il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione”? Dobbiamo allora pensare che nel Nuovo Testamento, ai fini della conversione delle anime, venga posta l’enfasi sulla “dignità della persona umana”, con il suo supposto diritto alla libertà di coscienza in religione? In realtà, la “Parola di Dio rivelata” riportata con florilegio di citazioni nel lungo articolo 11 della DH dedicato al “modo di agire di Cristo e degli Apostoli”, non fa altro che rammentarci quello che già si sapeva ossia che il Signore e gli Apostoli non hanno mai cercato di convertire con la coercizione e l’astuzia (seguiti anche in questo dalla Chiesa, tant’è vero che i pochi casi storici di conversioni forzate furono dovuti alla scriteriata iniziativa personale di qualche imperatore).
Ma valga il vero. Che il “diritto naturale” posto dal Concilio a fondamento della libertà religiosa sia in realtà parente dei diritti dell’uomo dell’89, dichiarati in 17 articoli dall’Assemblea Nazionale rivoluzionaria “en présence et sous les auspices de l’Être suprême”, come se quell’Assemblea fosse stata una Loggia, lo conferma indirettamente anche lo stesso prof. Rhonheimer quando ricorda che Benedetto XVI, sempre nel famoso discorso alla Curia del 2005, di contro alla doverosa condanna di Pio VI di quella famosa dichiarazione, “prende le difese della prima fase, quella “liberale” della Rivoluzione francese, che egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e radical-democratica, che portò al Terrore e alla ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, sorta dallo spirito del parlamentarismo rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano(4).
Stupisce quindi che il prof. Rhonheimer affermi poi che Pio IX non avrebbe condannato il “diritto naturale” che fonda la “libertà religiosa”, ma unicamente il suo esercizio come “diritto civile” riconosciuto dallo Stato. Il suo ragionamento è il seguente. La “prospettiva” del Vaticano II nei confronti della libertà religiosa “non è semplicemente e unicamente quella del diritto naturale, ma è sempre anche quella della libertà religiosa “come diritto civile”, cioè, in fin dei conti, come diritto alla libertà di culto. Di fatto, tale era anche la prospettiva di Pio IX, poiché la libertà di religione che egli condannava non era altro che il diritto civile alla libertà di culto rivendicata, tra gli altri, dall’ala cattolico-liberale"(5).
Inizialmente (vedi supra, § 2, 6), l’Autore afferma giustamente che Pio IX condannava la libertà religiosa perché, implicando essa l’indifferentismo, era inconciliabile con il concetto stesso della Verità Rivelata. Ora apprendiamo, invece, che la libertà religiosa oggetto di quella condanna altro non era che “il diritto civile alla libertà di culto”. Pertanto, se il Sillabo ha condannato solo la “libertà di culto”, in quanto “diritto civile” riconosciuto dallo Stato, allora “il diritto naturale in quanto tale non è dunque toccato affatto dalla discontinuità che è qui in questione. La contraddizione non scatta che al livello della rivendicazione del diritto civile, e non è quindi che di ordine politico”; essa concerne l’applicazione “giuridico-politica” del diritto naturale “nelle situazioni e di fronte a dei problemi concreti"(6). Che significa ciò? Che le condanne preconciliari cessano di avere significato dogmatico per scadere a contrapposizioni “nell’applicazione giuridico-politica” del “diritto naturale” alla libertà di coscienza, in quanto libertà di culto? La dottrina preconciliare avrebbe allora riconosciuto o in qualche modo accettato il fondamento giusnaturalistico della libertà di culto? Da dove risulta ciò?
Ho già ricordato che Leone XIII escludeva a chiare lettere la possibilità di concepire come “diritti naturali” i vari “diritti” riconducibili alla libertà di coscienza. L’esclusione si imponeva innanzitutto sul piano logico, poiché essi apparivano in perfetta antitesi con il concetto stesso della Verità Rivelata, sulla quale, oltre alla religione, si fonda anche la morale cristiana (vedi supra, § 2). Forse Pio IX professava una dottrina diversa? Ma valga anche qui il vero: “E poiché iniquamente [i nemici di Cristo e della Chiesa] osano derivare dalla virtù naturale della umana ragione tutte le verità religiose, così a ciascun uomo attribuiscono un tale quasi primario diritto, per il quale egli sia libero di pensare e di parlare a suo senno di religione, e rendere a Dio quell’onore e quel culto, che secondo suo piacimento giudica migliore"(7). Non potendo ovviamente riconoscere un diritto naturale alla libertà religiosa, i Papi non potevano del pari riconoscerne la logica conseguenza, ossia il “diritto civile” ad esercitarla come libertà di culto.
8.4 Quale concetto di verità ci propone il Concilio? Al posto dell’invito al proselitismo e alla conversione in senso tradizionale, il Concilio propugna perciò il dialogo con il mondo, rispettoso al massimo dell’altrui diritto alla “libertà di religione”, da condursi quindi mediante la semplice esposizione fraterna della verità. In questo modo gli uomini giungerebbero ad abbracciare “la vera religione”, rispondendo positivamente all’obbligo che pur incombe su di loro di ricercarla. Il dialogo, lasciando parlare la verità, concilierebbe l’esigenza di rispettare il diritto alla libertà religiosa con l’obbligo morale di ricercare la vera religione. Il successo di quest’opera dipenderebbe allora soprattutto dalla forza di convinzione intrinseca alla verità, in quanto tale. Infatti, “la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore” (DH 1). Niente coazione psichica, dunque, ma dialogo fraterno, su basi assolutamente paritarie, cercando persino di imparare dall’altro (Gaudium et Spes, 43, 44).
Il principio qui espresso coglie indubbiamente un aspetto del concetto della verità: ciò che è vero possiede un’intrinseca capacità di imporsi. La verità esercita il suo fascino. Ma da questo, a riuscire ad imporsi effettivamente, ce ne corre. Sia Nostro Signore che gli Apostoli hanno convertito solo una piccola parte di coloro ai quali si sono rivolti. La maggioranza o si è convertita per lo spazio d’un giorno o è rimasta indifferente (come all’Areopago) o si è accodata alla minoranza che rifiutava violentemente la verità predicata e, oltre ad offendere il predicatore, tentava addirittura di ammazzarlo. Non per nulla il Signore, oltre alla testimonianza di come fosse stato male accolto in patria, ci ha lasciato la parabola del seminatore (Mt 13, 1-23; 53-58). Se è vero che la verità possiede intrinsecamente la forza di imporsi, tuttavia essa provoca frequentemente ripulse, anche violente, proprio perché è la verità: la verità, come si suol dire, “fa male”. E soprattutto quella predicata dal Signore, che richiede di lottare contro noi stessi, di mortificare il nostro orgoglio, di “portare la Croce” in questo mondo in cambio di una ricompensa eterna sì, ma che avrà luogo solo dopo la nostra morte, seguita dal Giudizio, individuale ed universale. In realtà l’uomo tende a respingere la verità e a lasciarsi sedurre dalla menzogna perché è afflitto dalle conseguenze del peccato originale e soggiace spesso all’azione del Maligno, che mira sempre a deviarne i buoni propositi, favorendo le passioni ed i peggiori istinti. Perciò la Chiesa ha sempre insegnato, sulla base del Nuovo Testamento, che nessuno può accedere alle verità di fede né perseverare nella fede e nelle opere, senza l’aiuto della Grazia. L’opera della conversione è difficile, procede sempre lentamente e solo se la nostra buona volontà è sorretta dallo Spirito Santo, che agisce in noi soprattutto mediante i Sacramenti e quindi con la mediazione della Chiesa.
Ora, è stato notato che “l’essere umano” delineato nei testi del Concilio, assomiglia più all’uomo “buono per natura”, degli Illuministi e di Rousseau, all’individuo astratto (e senza Dio) canonizzato (appunto) dagli Immortali Princìpi dell’89, che all’uomo quale l’ha sempre realisticamente concepito la Chiesa, ispirata dai dogmi del peccato originale e della presenza effettiva di Satana nella realtà di questo mondo. Bisognerebbe infine chiedersi: se la verità di fatto proposta nell’odierno dialogo ecumenico con i non-cattolici è la verità di una nuova dottrina costretta sempre più a giustificare la propria discontinuità, perché meravigliarsi, allora, se le nostre società sembrano sempre meno animate dallo “spirito cristiano” e sempre più impregnate di quello dell’Avversario?
NOTE
1) ER, ed. it., p. 5.
2) A proposito dei moribondi di Calcutta, era solita dire: “Noi diamo loro ciò che desiderano, secondo la loro fede” (H. GRESLAUD, Madre Teresa, una beatificazione equivoca, in ‘La Tradizione Cattolica’, XVI (2005) 2 (59), pp. 25-39; 36-37).
3) Summa Theol., I-II, q. 57, a. 2.
4) ER, ed. it., p. 6. Il primo di questi famosi articoli proclama che: “Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits” (F. BATTAGLIA (a cura di), Le carte dei diritti, Sansoni, Firenze, 1934, p. 122). Poiché non si menziona qui un Dio creatore, si deve ritenere che siffatta uguaglianza sia intrinseca all’uomo in quanto uomo, sia antropocentricamente concepita. L’idea laica di un’uguaglianza di tutti gli uomini per il solo fatto di esser tali (non perché creati da Dio, Padre comune) è nell’epoca moderna uno dei fondamenti della “dignità dell’uomo” e dei diritti naturali (od “umani”) che su di essa si vogliano costruire.
5) ER, ed. it., p. 9.
6) Ivi.
7) PIO IX, Alloc. Maxima quidem, del 9. 6. 1862, in Appendice a PIO IX, Il Sillabo, nuova ed. it. con testo a fronte e appendice doc. a cura di G. Vannoni, Cantagalli, Siena, 1985², pp. 189-98; p. 192. Corsivi miei.
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