lunedì 8 aprile 2013

docti pontifici che condannano i principi dell'IRENISMO ECUMENICO contenuti in UNITATIS REDINTEGRATIO



Pio IX (1846-1878)
Quanta cura - Syllabus
Con quanta cura e pastorale vigilanza i Romani Pontefici Predecessori Nostri, eseguendo l’ufficio loro affidato dallo stesso Cristo Signore nella persona del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, e l’incarico di pascere gli agnelli e le pecore, non abbiano mai tralasciato di nutrire diligentemente tutto il gregge del Signore con le parole della fede, di educarlo con la salutare dottrina e di rimuoverlo dai pascoli velenosi, a tutti ed a Voi in particolare, Venerabili Fratelli, è chiaro e manifesto. Invero i predetti Nostri Predecessori dell’augusta Religione cattolica – difensori e garanti della verità e della giustizia, sommamente solleciti della salute delle anime – non ebbero a cuore niente di più che individuare e condannare, con le loro sapientissime Lettere e Costituzioni, tutte le eresie e gli errori i quali, avversando la divina nostra fede, la dottrina della Chiesa cattolica, l’onestà dei costumi e l’eterna salute degli uomini, spesso suscitarono gravi tempeste e funestarono in modo devastante la cristiana e la civile repubblica. Pertanto i suddetti Nostri Predecessori con apostolica forza continuamente resistettero alle nefande macchinazioni di uomini iniqui che, schizzando come i flutti di procelloso mare la spuma delle loro fallacie e promettendo libertà mentre sono schiavi della corruzione, con le loro opinioni ingannevoli e con i loro scritti perniciosissimi si sono sforzati di demolire le fondamenta della Religione cattolica e della società civile, di levare di mezzo ogni virtù e giustizia, di depravare gli animi e le menti di tutti, di sviare dalla retta disciplina dei costumi gl’incauti, e principalmente la gioventù impreparata, e di corromperla miseramente, di imprigionarla nei lacci degli errori e infine di strapparla dal seno della Chiesa cattolica. Intanto, come a Voi, Venerabili Fratelli, è ben noto, poiché per un’arcana decisione della divina provvidenza, non certo per qualche Nostro merito, fummo innalzati a questa Cattedra di Pietro, vedendo Noi con estremo dolore del Nostro animo l’orribile procella sollevata da tante prave opinioni e i gravissimi, e non mai abbastanza lacrimabili danni che da tanti errori ridondano sul popolo cristiano, per dovere del Nostro Apostolico Ministero, seguendo le vestigia illustri dei Nostri Predecessori, alzammo la Nostra voce e con parecchie Lettere Encicliche divulgate per mezzo della stampa, con le Allocuzioni tenute nel Concistoro e con altre Lettere Apostoliche condannammo i principali errori della tristissima età nostra, e stimolammo la Vostra esimia vigilanza episcopale, ammonimmo con ogni Nostro potere ed esortammo tutti i figli della Chiesa cattolica a Noi carissimi che avessero in sommo abominio l’infezione di una peste così crudele e la fuggissero. Specialmente poi con la Nostra prima Lettera Enciclica del 9 novembre 1846 e con due Allocuzioni (delle quali una fu tenuta da Noi nel Concistoro del 9 dicembre 1854, e l’altra in quello del 9 giugno 1862) condannammo le mostruose enormità delle opinioni che segnatamente dominano in questa nostra età, con grandissimo danno delle anime e con detrimento della stessa civile società, le quali non solo avversano la Chiesa cattolica, la sua salutare dottrina e i suoi venerandi diritti, ma altresì la sempiterna legge naturale scolpita da Dio nei cuori di tutti e la retta ragione; da tali opinioni traggono origine quasi tutti gli altri errori.
Ma quantunque non abbiamo omesso di bandire spesso e di riprovare i più capitali errori di tal fatta, nondimeno la causa della Chiesa cattolica, la salute delle anime a Noi divinamente affidate e il bene della stessa società umana richiedono assolutamente che di nuovo eccitiamo la Vostra pastorale sollecitudine a sconfiggere altre prave opinioni, che scaturiscono dai predetti errori come da fonte. Tali false e perverse opinioni tanto più sono da detestare, in quanto mirano in special modo a far sì che sia impedita e rimossa quella salutare forza che la Chiesa cattolica, per istituzione e mandato del suo divino Autore, deve liberamente esercitare fino alla consumazione dei tempi, sia verso i singoli uomini, sia verso le nazioni, i popoli e i supremi loro Principi: esse operano affinché sia tolta di mezzo quella mutua società e concordia fra il Sacerdozio e l’Impero, che sempre riuscirono fauste e salutari alle cose sia sacre, sia civili . Infatti Voi sapete molto bene, Venerabili Fratelli, che in questo tempo si trovano non pochi i quali, applicando al civile consorzio l’empio ed assurdo principio del naturalismo (come lo chiamano) osano insegnare che "l’ottima regione della pubblica società e il civile progresso richiedono che la società umana si costituisca e si governi senza avere alcun riguardo per la religione, come se questa non esistesse o almeno senza fare alcuna differenza tra la vera e le false religioni". Contro la dottrina delle sacre Lettere della Chiesa e dei Santi Padri, non dubitano di affermare "essere ottima la condizione della società nella quale non si riconosce nell’Impero il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della Religione cattolica, se non in quanto lo chieda la pubblica pace". Con tale idea di governo sociale, assolutamente falsa, non temono di caldeggiare l’opinione sommamente dannosa per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime, dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio , cioè "la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti, quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra maniera". E mentre affermano ciò temerariamente, non pensano e non considerano che essi predicano "la libertà della perdizione" , e che "se in nome delle umane convinzioni sia sempre libero il diritto di disputare, non potranno mai mancare coloro che osano resistere alla verità e confidano nella loquacità della sapienza umana, mentre la fede e la sapienza cristiane debbono evitare questa nociva vanità, in linea con la stessa istituzione del Signor Nostro Gesù Cristo" .
E poiché nei luoghi nei quali la religione è stata rimossa dalla società civile o nei quali la dottrina e l’autorità della rivelazione divina sono state ripudiate, anche lo stesso autentico concetto della giustizia e del diritto umano si copre di tenebre e si perde, ed in luogo della giustizia vera e del diritto legittimo si sostituisce la forza materiale, quindi si fa chiaro il perché alcuni, spregiando completamente e nulla valutando i principi certissimi della sana ragione, ardiscono proclamare che "la volontà del popolo manifestata attraverso l’opinione pubblica (come essi dicono) o in altro modo costituisce una sovrana legge, sciolta da qualunque diritto divino ed umano, e nell’ordine Politico i fatti consumati, per ciò stesso che sono consumati, hanno forza di diritto". Ma chi non vede e non sente pienamente che una società di uomini sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia non può avere altro proposito fuorché lo scopo di acquisire e di accumulare ricchezze, e non può seguire nelle sue operazioni altra legge fuorché un’indomita cupidigia di servire alle proprie voluttà e comodità? Conseguentemente questi uomini, con odio veramente acerbo, perseguitano le Famiglie Religiose, quantunque sommamente benemerite della cosa cristiana, civile e letteraria, e vanno dicendo che esse non hanno alcuna ragione di esistere, e con ciò applaudono le idee degli eretici. Infatti, come sapientissimamente insegnava Pio VI, Nostro Predecessore di venerata memoria, "l’abolizione dei regolari lede lo stato di pubblica professione dei consigli evangelici, lede una maniera di vita raccomandata nella Chiesa come consentanea alla dottrina Apostolica, lede gli stessi insigni fondatori che veneriamo sopra gli altari, i quali non ispirati che da Dio istituirono queste società" . Ed affermano altresì empiamente doversi togliere ai cittadini e alla Chiesa la facoltà "di potere pubblicamente erogare elemosine per motivo di cristiana carità", e doversi abolire la legge "che per ragione del culto divino proibisce le opere servili in certi determinati giorni" con il fallace pretesto che quella facoltà e quella legge contrastano con i principi della migliore economia pubblica. Né contenti di allontanare la religione dalla pubblica società, vogliono rimuoverla anche dalle famiglie private. Infatti, insegnando e professando il funestissimo errore del Comunismo e del Socialismo dicono che "la società domestica, cioè la famiglia, riceve dal solo diritto civile ogni ragione della propria esistenza, e che pertanto dalla sola legge civile procedono e dipendono tutti i diritti dei genitori sui figli, principalmente quello di curare la loro istruzione e la loro educazione". Con tali empie opinioni e macchinazioni codesti fallacissimi uomini intendono soprattutto eliminare dalla istruzione e dalla educazione la dottrina salutare e la forza della Chiesa cattolica, affinché i teneri e sensibili animi dei giovani vengano miseramente infettati e depravati da ogni sorta di errori perniciosi e di vizi. Infatti, tutti coloro che si sono sforzati di turbare le cose sacre e le civili, e sovvertire il retto ordine della società e cancellare tutti i diritti divini ed umani, rivolsero sempre i loro disegni, studi e tentativi ad ingannare specialmente e a corrompere l’improvvida gioventù, come sopra accennammo, e nella corruzione della medesima riposero ogni loro speranza. Pertanto non cessano mai con modi totalmente nefandi di vessare l’uno e l’altro Clero da cui, come viene splendidamente attestato dai certissimi monumenti della storia, tanti grandi vantaggi derivarono alla cristiana, civile e letteraria repubblica; e vanno dicendo che "il Clero, come nemico del vero ed utile progresso della scienza e della civiltà, deve essere rimosso da ogni ingerenza ed ufficio nella istruzione e nella educazione dei giovani".
Altri poi, rinnovando le prave e tante volte condannate affermazioni dei novatori, ardiscono con rilevante impudenza sottomettere all’arbitrio dell’autorità civile la suprema autorità della Chiesa e di questa Sede Apostolica, ad essa affidata da Cristo Signore, e di negare alla Chiesa e alla Sede Apostolica tutti i diritti che a loro appartengono intorno alle cose che si riferiscono all’ordine esterno. Infatti costoro non si vergognano di affermare che "le leggi della Chiesa non obbligano in coscienza se non quando vengono promulgate dal potere civile; che gli atti e i decreti dei Romani Pontefici relativi alla Religione e alla Chiesa hanno bisogno della sanzione e dell’approvazione, o almeno dell’assenso, del Potere civile; che le Costituzioni Apostoliche con le quali sono condannate le associazioni clandestine, sia che in esse si esiga, sia che non si esiga il giuramento di mantenere il segreto, e con le quali sono fulminati di anatema i loro seguaci e fautori, non hanno vigore in quelle contrade dove siffatte associazioni sono tollerate dal governo civile; che la scomunica inflitta dal Concilio di Trento e dai Romani Pontefici a coloro i quali invadono ed usurpano i diritti e i beni della Chiesa si appoggia alla confusione dell’ordine spirituale col civile e politico, per promuovere il solo bene mondano; che la Chiesa non deve decretare nulla che possa costringere le coscienze dei fedeli in ordine all’uso delle cose temporali; che alla Chiesa non compete il diritto di reprimere con pene temporali i violatori delle sue leggi; che sia conforme alla sacra teologia ed ai principi del diritto pubblico attribuire e rivendicare al governo civile la proprietà dei beni posseduti dalle Chiese, dalle Famiglie Religiose e dagli altri luoghi pii".
Né arrossiscono di professare apertamente e pubblicamente le parole e i principi degli eretici, da cui nascono tante perverse sentenze ed errori. Essi ripetono che "la potestà ecclesiastica non è per diritto divino distinta ed indipendente dalla potestà civile, e che questa distinzione e questa indipendenza non possono essere mantenute senza che da parte della Chiesa non si usurpino i diritti essenziali della potestà civile". Né possiamo passare sotto silenzio l’audacia di coloro che, intolleranti della sana dottrina, pretendono "che si possa, senza peccato e pregiudizio della professione cattolica, negare l’assenso e l’obbedienza a quei decreti e a quelle disposizioni della Sede Apostolica che hanno per oggetto il bene generale della Chiesa, i suoi diritti e la sua disciplina, purché essi non tocchino i dogmi della fede e dei costumi". Quanto ciò grandemente contrasti con il dogma cattolico della piena potestà del Romano Pontefice, divinamente conferitagli dallo stesso Cristo Signore in ordine a pascere, reggere e governare la Chiesa universale, non è chi apertamente e chiaramente non vegga ed intenda. Noi dunque, in tanta perversità di depravate opinioni, ben memori del Nostro apostolico ufficio e massimamente solleciti della santissima nostra religione, della sana dottrina e della salute delle anime affidateci da Dio, e del bene della stessa società umana, abbiamo ritenuto di dovere nuovamente elevare la Nostra apostolica voce. Pertanto, tutte e singole le prave opinioni e dottrine espresse nominatamente in questa Lettera, con la Nostra autorità apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo; e vogliamo e comandiamo che esse siano da tutti i figli della Chiesa cattolica tenute per riprovate, proscritte e condannate.
Ma, oltre a queste, Voi ben sapete, Venerabili Fratelli, che nel presente tempo altre empie dottrine d’ogni genere vengono disseminate dai nemici di ogni verità e giustizia con pestiferi libri, libelli e giornali sparsi per tutto il mondo, con i quali essi illudono i popoli e maliziosamente mentiscono. Né ignorate come anche in questa nostra età si trovino alcuni che, mossi ed incitati dallo spirito di Satana, pervennero a tanta empietà da non paventare di negare con scellerata impudenza lo stesso Dominatore e Signore Nostro Gesù Cristo ed impugnare la sua Divinità. E qui non possiamo astenerci dall’elogiare con massime e meritate lodi Voi, Venerabili Fratelli, che in nessun modo tralasciaste di elevare con tutto zelo la Vostra voce episcopale contro tanta nequizia.
Pertanto, con questa Nostra Lettera riprendiamo con tanto affetto il discorso con Voi che, chiamati a partecipare della Nostra sollecitudine, Ci siete di sommo conforto, letizia e consolazione in mezzo alle gravissime Nostre angosce, per l’egregia religione e pietà per cui Vi siete segnalati, e per quel meraviglioso amore, per la fedeltà e per l’osservanza con cui, stretti a Noi ed a quest’Apostolica Sede con cuori concordi, Vi sforzate di adempiere strenuamente e diligentemente al Vostro gravissimo ministero episcopale. In verità, dall’esimio Vostro zelo pastorale Ci aspettiamo che, impugnando la spada dello spirito, che è la parola di Dio, e confortati nella grazia del Signore Nostro Gesù Cristo, vogliate con rinforzate cure ogni giorno più provvedere a che i fedeli affidati alla Vostra sollecitudine "si astengano dalle erbe nocive che Gesù Cristo non coltiva perché non sono piantagione del Padre" . Né mancate d’inculcare sempre agli stessi fedeli che ogni vera felicità ridonda negli uomini dall’augusta nostra religione, dalla sua dottrina e dalla sua pratica: è beato quel popolo il cui Signore è il suo Dio (Sal 144,15). Insegnate "che sul fondamento della fede cattolica restano saldi i regni , e nulla è così mortifero, così vicino al precipizio, così esposto a tutti i pericoli, come il credere che ci possa bastare di aver ricevuto, quando nascemmo, il libero arbitrio, e non occorra domandare più altro al Signore: questo è dimenticare il nostro creatore e rinnegare, per mostrarci liberi, la sua potenza" . Né trascurate parimenti d’insegnare "che la reale potestà non fu data solamente per il governo del mondo, bensì soprattutto per il presidio della Chiesa , e nulla vi è che ai Principi e ai Re possa recare maggior profitto e gloria quanto, come un altro sapientissimo e fortissimo Nostro Predecessore, San Felice, inculcava a Zenone imperatore: lasciare che la Chiesa cattolica... si serva delle sue leggi, e non permettere che alcuno si opponga alla sua libertà... Giacché è certo che sarà loro utile che, quando si tratta della causa di Dio, si studino, secondo la Sua legge, non di anteporre ma di sottoporre la regia volontà ai Sacerdoti di Cristo" .
Ma se fu sempre necessario, Venerabili Fratelli, ora specialmente, in mezzo a così grandi calamità della Chiesa e della società civile, in tanta cospirazione di avversari contro il cattolicesimo e questa Sede Apostolica, e fra così gran cumulo di errori, è assolutamente indispensabile che ricorriamo con fiducia al trono della grazia per ottenere misericordia e trovare benevolenza nell’aiuto opportuno. Perciò abbiamo ritenuto giusto eccitare la devozione di tutti i fedeli affinché, insieme con Noi e con Voi, con fervidissime ed umilissime preci preghino e supplichino incessantemente il clementissimo Padre della luce e delle misericordie; nella pienezza della fede ricorrano sempre al Signore Nostro Gesù Cristo, che ci redense a Dio nel Sangue Suo; e caldamente e continuamente implorino il Suo dolcissimo Cuore, vittima della Sua ardentissima carità verso di noi, perché coi vincoli del Suo amore attiri tutto a se stesso, e tutti gli uomini, infiammati del Suo santissimo amore, camminino rettamente secondo il Cuore Suo, in tutto piacendo a Dio e fruttificando in ogni opera buona. Ed essendo, senza dubbio, più gradite a Dio le preghiere degli uomini se questi ricorrono a Lui con l’animo mondo da ogni macchia, perciò abbiamo creduto giusto aprire con apostolica liberalità i celesti tesori della Chiesa affidati alla Nostra dispensazione, perché gli stessi fedeli più intensamente accesi alla vera pietà e lavati dalle macchie dei peccati nel Sacramento della Penitenza, con maggiore fiducia volgano a Dio le loro preghiere e conseguano la Sua grazia e la Sua misericordia.
Dunque con questa Lettera, con la Nostra autorità Apostolica, a tutti e ai singoli fedeli del mondo cattolico di ambo i sessi concediamo l’Indulgenza Plenaria in forma di Giubileo per il periodo solamente di un mese, fino a tutto il prossimo anno 1865, e non oltre, da stabilirsi da Voi, Venerabili Fratelli, e dagli altri legittimi Ordinari, nello stesso modo e forma in cui all’inizio del sommo Nostro Pontificato lo concedemmo con l’apostolica Nostra Lettera in forma di Breve del 20 novembre 1846 e mandata a tutto il vostro Ordine episcopale, la quale comincia "Arcanae Divinae Providentiae consilio", e con tutte le stesse facoltà che con detta Lettera furono da Noi concesse. Vogliamo però che si osservino tutte quelle cose che sono prescritte in detta Lettera, e si eccettuino quelle che dichiarammo eccettuate. Ciò concediamo, nonostante le cose contrarie, qualunque siano, ancorché degne di speciale ed individua menzione e deroga. E perché siano eliminati ogni dubbio e difficoltà, abbiamo disposto che Vi si mandi copia di tale Lettera.
"Preghiamo, Venerabili Fratelli, dall’intimo del cuore e con tutta l’anima, la misericordia di Dio, perché Egli stesso disse: "Non disperderò la mia misericordia da loro". Domandiamo e riceveremo, e se vi saranno indugio e ritardo nel ricevere, poiché peccammo gravemente, bussiamo, perché a chi bussa verrà aperto, purché alla porta si bussi con le preghiere, con i gemiti e con le lacrime nostre, con le quali bisogna insistere e durare; e se sia unanime la nostra orazione... ciascuno preghi Dio non solamente per sé, ma per tutti i fratelli, così come il Signore ci insegnò a pregare" . E perché il Signore più facilmente si pieghi alle preghiere Nostre, Vostre e di tutti i fedeli, con ogni fiducia adoperiamo presso di Lui come interceditrice l’Immacolata e Santissima Vergine Maria, Madre di Dio, la quale uccise tutte le eresie nell’universo mondo, e madre amantissima di tutti noi "è tutta soave... e piena di misericordia... a tutti si offre indulgente, a tutti clementissima; e con un sicuro amplissimo affetto ha compassione delle necessità di tutti" ; come Regina che sta alla destra dell’Unigenito Figlio suo, il Signore Nostro Gessù Cristo, in manto d’oro e riccamente vestita, nulla esiste che da Lui non possa impetrare. Domandiamo anche l’aiuto del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, e del suo Coapostolo Paolo e di tutti i Santi che, divenuti già amici di Dio, pervennero al regno celeste e, coronati, posseggono la palma; sicuri della loro immortalità, sono solleciti della nostra salvezza.
Infine, invocando da Dio, con tutto l’animo, su di Voi l’abbondanza di tutti i doni celesti, come pegno della singolare Nostra benevolenza verso di Voi, con tanto amore impartiamo l’Apostolica Benedizione che viene dall’intimo del Nostro cuore a Voi stessi, Venerabili Fratelli, ed a tutti i Chierici e Laici fedeli affidati alle Vostre cure.
Dato a Roma, presso San Pietro, 1’8 dicembre dell’anno 1864, decimo dopo la dogmatica Definizione dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria Madre di Dio, anno decimonono del Nostro Pontificato.
SILLABO
DEI PRINCIPALI ERRORI DELL’ETÀ NOSTRA, CHE SON NOTATI NELLE ALLOCUZIONI CONCISTORIALI, NELLE ENCICLICHE E IN ALTRE LETTERE APOSTOLICHE DEL SS. SIGNOR NOSTRO PAPA PIO IX
I - Panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto
I. Non esiste niun Essere divino, supremo, sapientissimo, provvidentissimo, che sia distinto da quest’universo, e Iddio non è altro che la natura delle cose, e perciò va soggetto a mutazioni, e Iddio realmente vien fatto nell’uomo e nel mondo, e tutte le cose sono Dio ed hanno la sostanza stessissima di Dio; e Dio è una sola e stessa cosa con il mondo, e quindi si identificano parimenti tra loro, spirito e materia, necessità e libertà, vero e falso, bene e male, giusto ed ingiusto.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
II. È da negare qualsiasi azione di Dio sopra gli uomini e il mondo.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
III. La ragione umana è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male indipendentemente affatto da Dio; essa è legge a se stessa, e colle sue forze naturali basta a procurare il bene degli uomini e dei popoli.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
IV. Tutte le verità religiose scaturiscono dalla forza nativa della ragione umana; laonde la ragione è la prima norma, per mezzo di cui l’uomo può e deve conseguire la cognizione di tutte quante le verità, a qualsivoglia genere esse appartengano.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
V. La rivelazione divina è imperfetta, e perciò soggetta a processo continuo e indefinito, corrispondente al progresso della ragione umana.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
VI. La fede di Cristo si oppone alla umana ragione; e la rivelazione divina non solo non giova a nulla, ma nuoce anzi alla perfezione dell’uomo.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
VII. Le profezie e i miracoli esposti e narrati nella sacra Scrittura sono invenzioni di poeti, e i misteri della fede cristiana sono il risultato di indagini filosofiche; e i libri dell’Antico e Nuovo Testamento contengono dei miti; e Gesù stesso è un mito.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
II - Razionalismo moderato
VIII. Siccome la ragione umana si equipara colla stessa religione, perciò le discipline teologiche si devono trattare al modo delle filosofiche.
Alloc. Singulari quadam perfusi, 9 dicembre 1854.
IX. Tutti indistintamente i dommi della religione cristiana sono oggetto della naturale scienza ossia filosofia, e l’umana ragione, storicamente solo coltivata, può colle sue naturali forze e principi pervenire alla vera scienza di tutti i dommi, anche i più reconditi, purché questi dommi siano stati alla stessa ragione proposti.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.
Lett. al medesimo Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
X. Altro essendo il filosofo ed altro la filosofia, quegli ha diritto e ufficio di sottomettersi alle autorità che egli ha provato essere vere: ma la filosofia né può, né deve sottomettersi ad alcuna autorità.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.
Lett. al medesimo Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XI. La Chiesa non solo non deve mai correggere la filosofia, ma anzi deve tollerarne gli errori e lasciare che essa corregga se stessa.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.
XII. I decreti della Sede apostolica e delle romane Congregazioni impediscono il libero progresso della scienza.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XIII. Il metodo e i principi, coi quali gli antichi Dottori scolastici coltivarono la teologia, non si confanno alle necessità dei nostri tempi e al progresso delle scienze.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XIV. La filosofia si deve trattare senza aver riguardo alcuno alla soprannaturale rivelazione.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
N. B. – Col sistema del razionalismo sono in massima parte uniti gli errori di Antonio Günther, che vengono condannati nella Lett. al Card. Arciv. di Colonia, Eximiam tuam, 15 giugno 1847, e nella Lett. al Vesc. di Breslavia, Dolore haud mediocri, 30 aprile 1860.
III - Indifferentismo, latitudinarismo
XV. È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XVI. Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Ubi primum, 17 dicembre 1847.
Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856.
XVII. Almeno si deve bene sperare della eterna salvezza di tutti coloro che non sono nella vera Chiesa di Cristo.
Alloc. Singulari quadam, 9 dicembre 1854.
Encicl. Quanto conficiamur, 17 agosto 1863.
XVIII. Il protestantesimo non è altro che una forma diversa della medesima vera religione cristiana, nella quale egualmente che nella Chiesa cattolica si può piacere a Dio.
Encicl. Noscitis et Nobiscum, 8 dicembre 1849.
IV - Socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali
Tali pestilenze, spesso, e con gravissime espressioni, sono riprovate nella Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846; nella Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849: nella Epist. Encicl. Nostis et Nobiscum, 8 dicembre 1849; nella Alloc. Singulari quadam, 9 dicembre 1854; nell’Epist. Quanto conficiamur, 10 agosto 1863.
V - Errori sulla Chiesa e suoi diritti
XIX. La Chiesa non è una vera e perfetta società pienamente libera, né è fornita di suoi propri e costanti diritti, conferitile dal suo divino Fondatore, ma tocca alla potestà civile definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti entro i quali possa esercitare detti diritti.
Alloc. Singulari quadam, 9 dicembre 1854.
Alloc. Multis gravibusque, 18 dicembre 1860.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XX. La potestà ecclesiastica non deve esercitare la sua autorità senza licenza e consenso del governo civile.
Alloc. Meminit unusquisque, 30 settembre 1861.
XXI. La Chiesa non ha potestà di definire dommaticamente che la religione della Chiesa cattolica sia l’unica vera religione.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
XXII. L’obbligazione che vincola i maestri e gli scrittori cattolici, si riduce a quelle cose solamente, che dall’infallibile giudizio della Chiesa sono proposte a credersi da tutti come dommi di fede.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XXIII. I Romani Pontefici ed i Concilii ecumenici si scostarono dai limiti della loro potestà, usurparono i diritti dei Principi, ed anche nel definire cose di fede e di costumi errarono.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
XXIV. La Chiesa non ha potestà di usare la forza, né alcuna temporale potestà diretta o indiretta.
Lett. Apost. Ad Apostolicae, 22 agosto 1851.
XXV. Oltre alla potestà inerente all’episcopato, ve n’è un’altra temporale che è stata ad esso concessa o espressamente o tacitamente dal civile impero il quale per conseguenza la può revocare, quando vuole.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XXVI. La Chiesa non ha connaturale e legittimo diritto di acquistare e di possedere.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
Lett. Encicl. Incredibili, 17 settembre 1863.
XXVII. I sacri ministri della Chiesa ed il Romano Pontefice debbono essere assolutamente esclusi da ogni cura e da ogni dominio di cose temporali.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XXVIII. Ai Vescovi, senza il permesso del Governo, non è lecito neanche promulgare le Lettere apostoliche.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
XXIX. Le grazie concesse dal Romano Pontefice si debbono stimare irrite, quando non sono state implorate per mezzo del Governo.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
XXX. L’immunità della Chiesa e delle persone ecclesiastiche ebbe origine dal diritto civile.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
XXXI. Il foro ecclesiastico per le cause temporali dei chierici, siano esse civili o criminali, dev’essere assolutamente abolito, anche senza consultare la Sede apostolica, e nonostante che essa reclami.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
XXXII. Senza violazione alcuna del naturale diritto e delle equità, si può abrogare l’immunità personale, in forza della quale i chierici sono esenti dalla leva e dall’esercizio della milizia; e tale abrogazione è voluta dal civile progresso, specialmente in quelle società le cui costituzioni sono secondo la forma del più libero governo.
Epist. al Vescovo di Monreale Singularis Nobisque, 29 sett. 1864.
XXXIII. Non appartiene unicamente alla ecclesiastica potestà di giurisdizione, qual diritto proprio e connaturale, il dirigere l’insegnamento della teologia.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XXXIV. La dottrina di coloro che paragonano il Romano Pontefice ad un Principe libero che esercita la sua azione in tutta la Chiesa, è una dottrina la quale prevalse nel medio evo.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XXXV. Niente vieta che per sentenza di qualche Concilio generale, o per opera di tutti i popoli, il sommo Pontificato si trasferisca dal Vescovo Romano e da Roma ad un altro Vescovo e ad un’altra città.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XXXVI. La definizione di un Concilio nazionale non si può sottoporre a verun esame, e la civile amministrazione può considerare tali definizioni come norma irretrattabile di operare.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XXXVII. Si possono istituire Chiese nazionali non soggette all’autorità del Romano Pontefice, e del tutto separate.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.
Alloc. Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.
XXXVIII. Gli arbìtri eccessivi dei Romani Pontefici contribuirono alla divisione della Chiesa in quella di Oriente e in quella di Occidente.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
VI - Errori che riguardano la società civile, considerata in sé come nelle sue relazioni con la Chiesa
XXXIX. Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XL. La dottrina della Chiesa cattolica è contraria al bene ed agl’interessi della umana società.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.
XLI. Al potere civile, anche esercitato dal signore infedele, compete la potestà indiretta negativa sopra le cose sacre; perciò gli appartiene non solo il diritto del cosidetto exequatur, ma anche il diritto del cosidetto appello per abuso.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XLII. Nella collisione delle leggi dell’una e dell’altra potestà, deve prevalere il diritto civile.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XLIII. Il potere laicale ha la potestà di rescindere, di dichiarare e far nulli i solenni trattati (che diconsi Concordati) pattuiti con la Sede apostolica intorno all’uso dei diritti appartenenti alla immunità ecclesiastica; e ciò senza il consenso della stessa Sede apostolica, ed anzi, malgrado i suoi reclami.
Alloc. In Concistoriali, 1° novembre 1850.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.
XLIV. L’autorità civile può interessarsi delle cose che riguardano la religione, i costumi ed il governo spirituale. Quindi può giudicare delle istruzioni che i pastori della Chiesa sogliono dare per dirigere, conforme al loro ufficio, le coscienze, ed anzi può fare regolamenti intorno all’amministrazione dei Sacramenti ed alle disposizioni necessarie per riceverli.
Alloc. In Concistoriali, 1° novembre 1850.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XLV. L’intero regolamento delle pubbliche scuole, nelle quali è istruita la gioventù dello Stato, eccettuati solamente sotto qualche riguardo i Seminari vescovili, può e dev’essere attribuito all’autorità civile; e talmente attribuito, che non si riconosca in nessun’altra autorità il diritto di intromettersi nella disciplina delle scuole, nella direzione degli studi, nella collazione dei gradi, nella scelta e nell’approvazione dei maestri.
Alloc. In Concistoriali, 1° novembre 1850.
Alloc. Quibus luctuosissimis, 5 settembre 1851.
XLVI. Anzi, negli stessi Seminari dei Chierici, il metodo da adoperare negli studi è soggetto alla civile autorità.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.
XLVII. L’ottima forma della civile società esige che le scuole popolari, quelle cioè che sono aperte a tutti i fanciulli di qualsiasi classe del popolo, e generalmente gl’istituti pubblici, che sono destinati all’insegnamento delle lettere e delle più gravi discipline, nonché alla educazione della gioventù, si esimano da ogni autorità, forza moderatrice ed ingerenza della Chiesa, e si sottomettano al pieno arbitrio dell’autorità civile e politica secondo il placito degli imperanti e la norma delle comuni opinioni del secolo.
Epist. all’Arciv. di Frisinga Quum non sine, 14 luglio 1864.
XLVIII. Può approvarsi dai cattolici quella maniera di educare la gioventù, la quale sia disgiunta dalla fede cattolica, e dall’autorità della Chiesa e miri solamente alla scienza delle cose naturali, e soltanto o per lo meno primieramente ai fini della vita sociale.
Epist. all’Arciv. di Frisinga Quum non sine, 14 luglio 1864.
IL. La civile autorità può impedire ai Vescovi ed ai popoli fedeli di comunicare liberamente e mutuamente col Romano Pontefice.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
L. L’autorità laicale ha di per sé il diritto di presentare i Vescovi e può esigere da loro che incomincino ad amministrare le diocesi prima che essi ricevano dalla S. Sede la istituzione canonica e le Lettere apostoliche.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
LI. Anzi il Governo laicale ha diritto di deporre i Vescovi dall’esercizio del ministero pastorale, né è tenuto ad obbedire al Romano Pontefice nelle cose che spettano alla istituzione dei Vescovati e dei Vescovi.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
LII. Il Governo può di suo diritto mutare l’età prescritta dalla Chiesa in ordine alla professione religiosa tanto delle donne quanto degli uomini, ed ingiungere alle famiglie religiose di non ammettere alcuno ai voti solenni senza suo permesso.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
LIII. Sono da abrogarsi le leggi che appartengono alla difesa dello stato delle famiglie religiose, e dei loro diritti e doveri; anzi il Governo civile può dare aiuto a tutti quelli i quali vogliono disertare la maniera di vita religiosa intrapresa, e rompere i voti solenni; e parimenti, può spegnere del tutto le stesse famiglie religiose, come anche le Chiese collegiate ed i benefici semplici ancorché di giuspatronato e sottomettere ed appropriare i loro beni e le rendite all’amministrazione ed all’arbitrio della civile potestà.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
Alloc. Probe memineritis, 22 gennaio 1855.
Alloc. Cum saepe, 27 luglio 1855.
LIV. I Re e i Principi non solamente sono esenti dalla giurisdizione della Chiesa, ma anzi nello sciogliere le questioni di giurisdizione sono superiori alla Chiesa.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
LV. È da separarsi la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
VII - Errori circa la morale naturale e cristiana
LVI. Le leggi dei costumi non abbisognano della sanzione divina, né è necessario che le leggi umane siano conformi al diritto di natura, o ricevano da Dio la forza di obbligare.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
LVII. La scienza delle cose filosofiche e dei costumi, ed anche le leggi civili possono e debbono prescindere dall’autorità divina ed ecclesiastica.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
LVIII. Non sono da riconoscere altre forze se non quelle che sono poste nella materia, ed ogni disciplina ed onestà di costumi si deve riporre nell’accumulare ed accrescere in qualsivoglia maniera la ricchezza e nel soddisfare le passioni.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
Epistola encicl. Quanto conficiamur, 10 agosto 1863.
LIX. Il diritto consiste nel fatto materiale; tutti i doveri degli uomini sono un nome vano, e tutti i fatti umani hanno forza di diritto.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
LX. L’autorità non è altro che la somma del numero e delle forze materiali.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
LXI. La fortunata ingiustizia del fatto non apporta alcun detrimento alla santità del diritto.
Alloc. Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.
LXII. È da proclamarsi e da osservarsi il principio del cosidetto non-intervento.
Alloc. Novos et ante, 28 settembre 1860.
LXIII. Il negare obbedienza, anzi il ribellarsi ai Principi legittimi, è cosa logica.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Quisque vestrum, 4 ottobre 1847.
Epist. Encicl. Nostis et Nobiscum, 8 dicembre 1849.
Lett. Apost. Cum catholica, 26 marzo 1860.
LXIV. La violazione di qualunque santissimo giuramento e qualsivoglia azione scellerata e malvagia ripugnante alla legge eterna, non solo non sono da riprovare, ma anzi da tenersi del tutto lecite e da lodarsi sommamente, quando si commettano per amore della patria.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.
VIII - Errori circa il matrimonio cristiano
LXV. Non si può in alcun modo tollerare che Cristo abbia elevato il matrimonio alla dignità di Sacramento.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXVI. Il Sacramento del matrimonio non è che una cosa accessoria al contratto, e da questo separabile, e lo stesso Sacramento è riposto nella sola benedizione nuziale.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXVII. Il vincolo del matrimonio non è indissolubile per diritto di natura, ed in vari casi può sancirsi per la civile autorità il divorzio propriamente detto.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
LXVIII. La Chiesa non ha la potestà d’introdurre impedimenti dirimenti il matrimonio, ma tale potestà compete alla autorità civile, dalla quale debbono togliersi gl’impedimenti esistenti.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
LXIX. La Chiesa incominciò ad introdurre gl’impedimenti dirimenti, nei secoli passati non per diritto proprio, ma usando di quello che ricevette dalla civile potestà.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
LXX. I canoni tridentini, nei quali s’infligge scomunica a coloro che osano negare alla Chiesa la facoltà di stabilire gl’impedimenti dirimenti, o non sono dommatici, ovvero si debbono intendere dell’anzidetta potestà ricevuta.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXXI. La forma del Concilio Tridentino non obbliga sotto pena di nullità in quei luoghi, ove la legge civile prescriva un’altra forma, e ordina che il matrimonio celebrato con questa nuova forma sia valido.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXXII. Bonifazio VIII per primo asserì che il voto di castità emesso nella ordinazione fa nullo il matrimonio.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXXIII. In virtù del contratto meramente civile può aver luogo tra cristiani il vero matrimonio; ed è falso che, o il contratto di matrimonio tra cristiani è sempre sacramento, ovvero che il contratto è nullo se si esclude il sacramento.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
Lett. di S. S. Pio IX al Re di Sardegna, 9 settembre 1852.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.
LXXIV. Le cause matrimoniali e gli sponsali di loro natura appartengono al foro civile.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
N. B. – Si possono qui ridurre due altri errori, dell’abolizione del celibato de; chierici, e della preferenza dello stato di matrimonio allo stato di verginità. Sono condannati, il primo nell’Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846, il secondo nella Lettera Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
IX - Errori intorno al civile principato del Romano Pontefice
LXXV. Intorno alla compatibilità del regno temporale col regno spirituale disputano tra loro i figli della Chiesa cristiana e cattolica.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXXVI. L’abolizione del civile impero posseduto dalla Sede apostolica gioverebbe moltissimo alla libertà ed alla prosperità della Chiesa.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.
N. B. – Oltre a questi errori censurati esplicitamente, molti altri implicitamente vengono riprovati in virtù della dottrina già proposta e decisa intorno al principato civile del Romano Pontefice: la quale dottrina tutti i cattolici sono obbligati a rispettare fermissimamente. Essa apertamente s’insegna nell’Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849; nell’Alloc. Si semper antea, 20 maggio 1850; nella Lett. Apost. Cum catholica Ecclesia, 26 marzo 1860; nell’Alloc. Novos, 28 settembre 1860; nell’Alloc. Iamdudum, 18 marzo 1861, e nell’Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
X - Errori che si riferiscono all’odierno liberalismo
LXXVII. In questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato, esclusi tutti gli altri culti, quali che si vogliano.
Alloc. Nemo vestrum, 26 luglio 1855.
LXXVIII. Però lodevolmente in alcuni paesi cattolici si è stabilito per legge che a coloro i quali vi si recano, sia lecito avere pubblico esercizio del culto proprio di ciascuno.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
LXXIX. È assolutamente falso che la libertà civile di qualsivoglia culto, e similmente l’ampia facoltà a tutti concessa di manifestare qualunque opinione e qualsiasi pensiero palesemente ed in pubblico, conduca a corrompere più facilmente i costumi e gli animi dei popoli, e a diffondere la peste dell’indifferentismo.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.
LXXX. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà.
Alloc. Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.



Leone XIII
Satis cognitum
Lettera Enciclica

L’unità della chiesa
29 giugno 1896
Vi è ben noto come non piccola parte dei nostri pensieri e delle nostre cure è rivolta ad ottenere con ogni studio il ritorno dei traviati all’ovile del sommo pastore delle anime, Gesù Cristo. Tenendo presente questo, credemmo opportuno con salutare consiglio e proposito che gioverebbe non poco disegnare l’immagine e i lineamenti della chiesa, tra i quali degnissima di speciale considerazione è l’unità, che il divino Autore in perpetuo le impresse come carattere di verità e di forza. La nativa bellezza della chiesa deve impressionare molto gli animi di chi la contempla: ne è inverosimile che basti la sua contemplazione a togliere di mezzo l’ignoranza e a sanare le false e preconcette opinioni, specialmente di coloro che senza loro colpa sono in errore: che anzi può destarsi negli uomini un amore verso la chiesa simile alla carità, con la quale Gesù Cristo, redimendola col suo sangue divino, la fece sua sposa: "Cristo ha amato la chiesa, e per essa ha dato se stesso" (Ef 5,25). A quanti faranno ritorno all’amantissima madre, finora non bene conosciuta, o malamente abbandonata, se questo ritorno non costerà loro il sangue, che pure fu il prezzo con il quale Cristo la conquistò, ma qualche fatica o molestia, molto più lieve a sopportarsi, questo almeno sia loro chiaro e palese, che non è un tale peso ad essi imposto dalla volontà dell’uomo, ma da un volere e comando divino; e di conseguenza, mediante la grazia celeste, facilmente conosceranno per esperienza quanto sia vera la sua affermazione: "Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero" (Mt 11,30). Per questo, avendo riposta grandissima speranza nel "Padre dei lumi", da cui discende "ogni bel dono e ogni regalo perfetto" (Gc 1,17), di tutto cuore lo supplichiamo, affinchè egli, "che solo fa crescere" (1Cor 3,6), voglia benignamente concederci la forza di persuadere.
Benché Dio possa per sé operare con la sua virtù quanto operano le nature create, tuttavia egli volle con benigno consiglio della sua provvidenza servirsi degli uomini per aiutare gli uomini; e come nell’ordine naturale si serve dell’opera e del contributo dell’uomo per comunicare alle cose la perfezione conveniente così pure si comporta per dare all’uomo la santità e la salute. Ora è chiaro che tra gli uomini non vi può essere comunicazione di sorta se non attraverso le cose esterne e sensibili. Per la qual cosa il Figlio di Dio assunse l’umana natura e "sussistendo nella natura di Dio ... spogliò se stesso, prendendo la natura di servo, divenendo simile agli uomini" (Fil 2,6-7), e così, dimorando in terra, personalmente insegnò la sua dottrina e i precetti della sua legge.
E poiché conveniva che la sua divina missione fosse perenne, perciò egli riunì intorno a sé dei discepoli della sua dottrina, e li fece partecipi del suo potere; e avendo su di essi chiamato dal cielo lo Spirito di verità, comandò loro di percorrere tutta la terra, predicando fedelmente quanto egli aveva insegnato e comandato, affinchè tutto il genere umano potesse conseguire la santità in terra e la felicità eterna nel cielo.
Per questa ragione e in virtù di questo principio fu generata la chiesa, la quale, se si considera l’ultimo fine a cui mira, e le cause prossime della santità, è certamente spirituale; ma se si considerano i membri che la compongono e i mezzi che conducono al conseguimento dei doni spirituali, è esterna e necessariamente visibile. Gli apostoli ricevettero la missione d’insegnare attraverso segni, che si percepiscono dalla vista e dall’udito, e non altrimenti essi l’eseguirono se non con detti e con fatti, che fanno impressione sui sensi. E così la loro voce, percuotendo esternamente gli orecchi, produsse la fede negli animi: "La fede viene dalla predicazione, e la predicazione si fa per mandato di Cristo" (Rm 10,17). E sebbene la stessa fede, o l’assenso alla prima e suprema verità, per sé sia contenuta nella mente, tuttavia occorre che si manifesti con un’esplicita professione: "Col cuore si crede per avere la giustizia, e con la bocca si professa la fede per ottenere la salvezza" (Rm 10,10). Così pure non vi è nulla per l’uomo di più interno della grazia celeste, che produce la santità, ma gli ordinari e principali strumenti per la partecipazione della medesima sono esterni: li chiamiamo sacramenti, che vengono amministrati con certi riti da persone, scelte appositamente a tale scopo. Comandò Gesù Cristo agli apostoli e ai loro successori in perpetuo che istruissero e dirigessero le genti, e comandò a queste che ne ricevessero la dottrina e fossero sottomesse e obbedienti al loro potere. Ma questi mutui diritti e doveri nel cristianesimo non avrebbero potuto non solo mantenersi, ma neppure iniziarsi, se non attraverso i sensi, interpreti e indicatori delle cose.
Ed è per questo che spesso le sacre Scritture chiamano la chiesa ora "corpo", ora "corpo di Cristo". "Ora voi siete il corpo di Cristo" (1Cor 12,27). Come corpo essa è visibile, e in quanto è di Cristo, è un corpo vivo, operoso e vitale, poiché Gesù Cristo la custodisce e la sostenta con l’immensa sua virtù, come la vite alimenta e rende fruttiferi i suoi tralci. Come negli animali il principio di vita è interno e del tutto nascosto, e tuttavia si rivela e si manifesta per il moto e l’atteggiamento delle membra, così pure nella chiesa il principio di vita soprannaturale si manifesta con evidenza per le sue stesse operazioni.
E da ciò deriva che sono in un grande e fatale errore coloro, i quali si foggiano in mente a proprio capriccio una chiesa quasi latente e per nulla visibile; come anche coloro che l’hanno in conto di umana istituzione con un certo ordinamento di disciplina e di riti esterni, ma senza la perenne comunicazione dei doni della grazia divina, e senza quelle cose che con aperta e quotidiana manifestazione attestino che la sua vita è derivata da Dio. Ora tanto ripugna che l’una o l’altra cosa sia la chiesa di Gesù Cristo, quanto che l’uomo sia solo corpo o solo spirito. L’insieme e l’unione di queste due parti è del tutto necessaria alla chiesa, come alla natura umana l’intima unione dell’anima e del corpo. Non è la chiesa come un corpo morto, ma è il corpo di Cristo informato di vita soprannaturale. E come Cristo, nostro Capo ed esemplare, non è tutto lui, se in lui si considera o la sola natura umana visibile, come fanno i fotiniani e i nestoriani, o solamente la divina natura invisibile, come sogliono fare i monofisiti, ma è uno solo per l’una e l’altra natura visibile e invisibile e nelle quali sussiste; così il suo corpo mistico non è vera chiesa se non per questo, che le sue parti visibili derivano forza e vita dai doni soprannaturali e dagli altri elementi da cui sgorga la loro ragione di essere e la loro natura propria. E poiché la chiesa è quello che è per volontà e istituzione divina, ha da rimanere tale in perpetuo; e se tale non rimanesse, non sarebbe certamente fondata in perpetuo, e il fine stesso, a cui essa tende, verrebbe circoscritto da determinati confini di tempo e di luogo: ma l’una e l’altra cosa ripugna alla verità. Questa unione dunque di cose visibili e invisibili, appunto perché naturale e congenita per divino volere nella chiesa, deve necessariamente perdurare, finché durerà la chiesa. Perciò il Crisostomo diceva: "Non allontanarti dalla chiesa, poiché nulla vi è più forte della chiesa. La tua speranza è la chiesa, la tua salute è la chiesa, il tuo rifugio è la chiesa. Essa è più alta del cielo, più vasta della terra. Non invecchia mai, ma è sempre giovane. Infatti per dimostrare la sua fermezza e stabilità la Scrittura la chiama monte". E Agostino: "Credono (i gentili) che la religione cristiana deve vivere in questo mondo fino a un certo tempo, e poi, non più. Fino a tanto che nasce e tramonta il sole, essa durerà come il sole, cioè, fino a tanto che durerà il volgere dei secoli, non verrà meno la chiesa di Dio, o il corpo di Cristo, sulla terra". La stessa cosa dice altrove: "Vacillerà la chiesa, se vacillerà il fondamento: ma come mai vacillerà Cristo? ... Non vacillando Cristo, neppure essa declinerà in eterno. Dove sono coloro che dicono che è perita nel mondo la chiesa, mentre essa neppure può inclinarsi?".
Di questi fondamenti deve servirsi chiunque cerca la verità. La chiesa fu istituita e formata da Cristo Signore: e perciò quando si cerca quale sia la sua natura, occorre anzitutto conoscere quello che Cristo ha voluto e ha fatto. Secondo questa norma si deve specialmente esaminare l’unità della chiesa, di cui ci parve bene dare in questa lettera un cenno a comune vantaggio.
Che la vera chiesa di Gesù Cristo sia una, è cosa a tutti così nota, per le chiare e molteplici testimonianze della sacra Scrittura, che nessun cristiano osa contraddirla. Però nel giudicare e stabilire la natura dell’unità, vari errori sviano molti dal retto sentiero. Non solo l’origine, ma tutta la costituzione della chiesa appartiene a quel genere di cose che liberamente si effettuano dagli uomini, e quindi tutto l’esame deve basarsi sui fatti, e si deve cercare non in che modo la chiesa possa essere una sola, ma come una sola l’ha voluta chi l’ha fondata.
Ora se si osserva ciò che fece, Gesù Cristo non formò la sua chiesa in modo che abbracciasse più comunità dello stesso genere, ma distinte e non collegate insieme con quei vincoli che formano una sola e individua chiesa, a quel modo che nel recitare il simbolo della fede noi diciamo "Credo la chiesa una...". "La chiesa ebbe in sorte una sola natura, ed essendo una, gli eretici vogliono scinderla in molte. Affermiamo dunque che è unica l’antica e cattolica chiesa nel suo essere e nella comune credenza, nel suo principio e per la sua eccellenza...".
Del resto anche l’eminenza della chiesa, come principio di costruzione, risulta dalla sua unità, superando ogni altra cosa, e nulla avendo di simile a sé o di uguale". E infatti Gesù Cristo, parlando di questo mistico edificio, non parla che di una chiesa, che egli chiama sua: "Edificherò la mia chiesa". Se ne pensi qualunque altra fuori di questa, non essendo fondata da Gesù Cristo, non può essere la vera chiesa di Cristo. E questo diventa ancor più evidente, se si considera l’intento del divino autore. Che cosa infatti egli ebbe di mira, che cosa volle nel fondare la chiesa? Trasmetterle l’ufficio e la missione che egli ebbe dal Padre, perché la continuasse. Questo egli aveva stabilito di fare, e questo fece: "Come il Padre ha mandato me, cosi io mando voi" (Gv 20,21). "Come tu hai mandato me nel mondo, così pure li ho mandati nel mondo" (Gv 17,18). Ora ufficio di Cristo è di salvare ciò che era perito, cioè non alcune genti e città, ma tutto il genere umano senza distinzione di tempi e di luoghi: "Venne il Figlio dell’uomo ... affinchè il mondo sia salvato per opera di lui" (Gv 3,17). "Infatti non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, per il quale noi possiamo essere salvi" (At 4,12). È pertanto dovere della chiesa diffondere largamente in tutti gli uomini e propagare in tutte le età la salute e insieme tutti i benefici che ne provengono. Per questo è necessario che sia unica, secondo il volere del suo Autore, in tutto il mondo e in tutti i tempi. Perché potesse essere più d’una, converrebbe che si estendesse fuori del mondo, e che s’immaginasse un nuovo e non mai udito genere umano.
Che la chiesa dovesse essere una, che in ogni tempo dovesse abbracciare quanti sono nel mondo, vide e vaticinò Isaia, quando in una visione del futuro egli la vide sotto l’apparenza di un monte di smisurata altezza, che esprimeva l’immagine, della casa del Signore, cioè della chiesa. "E avverrà negli ultimi giorni che il monte della casa del Signore si ergerà sulla sommità dei monti" (Is 2,2). Ora uno è il monte sovrastante gli altri monti, una la casa del Signore, a cui concorreranno tutte le genti per avere la norma del vivere. "E tutte le genti affluiranno ad esso ... e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri" (Is 2,2-3). Accennando a questo testo Ottato di Milevi dice: "Sta scritto nel profeta Isaia: Da Sion uscirà la legge, e la parola di Dio da Gerusalemme. Non nel monte Sion dunque Isaia vede la valle, ma nel monte santo, che è la chiesa, il qual monte per tutto l’orbe romano sotto ogni ciclo innalza il capo. È pertanto la chiesa quella Sion spirituale, nella quale Cristo è costituito Re dal Padre, che in tutto il mondo esiste, e in cui la chiesa cattolica è una". E Agostino dice: "Che vi è di più visibile di un monte? Eppure vi sono monti in qualche parte della terra a noi sconosciuti. ... Ma non così quel monte che ha di sé riempita tutta la superficie della terra, e di cui si dice che è fondato sulle vette dei monti". Inoltre il Figlio di Dio volle che la chiesa fosse il suo mistico corpo, a cui egli come capo si unisce a somiglianza del corpo umano che assunse. E come egli prese un unico corpo mortale, che offrì ai tormenti e alla morte per pagare il prezzo dell’umano riscatto, così pure egli ha un solo corpo mistico, nel quale e per il quale rende gli uomini capaci della santità e della salute eterna. "Lui (Cristo) costituì (Dio) capo sopra tutta la chiesa, che è il corpo di lui" (Ef 1.22-23).
Membra separate e disperse non possono aderire al capo per formare insieme un corpo. Ora Paolo dice: "Come tutte le membra del corpo, benché molte, formano tuttavia un solo corpo; così anche Cristo" (1Cor 12,12). E perciò dice di questo corpo mistico che è "connesso e collegato". "Il capo è Cristo, da cui tutto il corpo è ben connesso e solidamente collegato, per tutte le congiunture del rifornimento secondo l’attività proporzionata a ciascun membro" (Ef 4,15-16). Quindi, se qualche membro si divide e vaga disperso dagli altri, non può rimanere congiunto con lo stesso e unico capo. "Uno è Dio, dice san Cipriano, Cristo è uno, una la chiesa, una la sua fede, uno il suo popolo, congiunto col glutine della concordia in una solida unità di corpo. Non si può scindere l’unità, né sciogliere la compagine di un corpo per sé uno".

E per meglio rappresentare la chiesa una, la paragona al corpo animato, le cui membra non possono vivere altrimenti che congiunte col capo, da cui derivano la loro virtù vitale; separate che siano, necessariamente muoiono. "Non si possono (alla chiesa) lacerare e strappare le viscere, e non può essere fatta a pezzi. Tutto ciò che viene strappato dalla matrice non può avere per sé spirito e vita". Ora che somiglianza ha mai un corpo morto con uno vivo? E san Paolo dice: "Nessuno odia il suo corpo, ma lo nutre e lo custodisce, come Cristo fa con la chiesa, perché siamo membri del suo corpo, carne della sua carne, ossa delle sue ossa" (Ef 5,29-30). Se dunque si vuol formare un’altra chiesa, un altro corpo, gli si dia un altro capo, un altro Cristo. "Guardate bene, dice sant’Agostino, quello che dovete evitare, guardate quello che dovete osservare, guardate quello che dovete temere. Accade che nel corpo umano, anzi dal corpo umano, si tagli via qualche membro, una mano, un dito, un piede; forse che l’anima segue il membro reciso? Quand’esso era unito al corpo, viveva; tagliato, perde la vita. Non altrimenti l’uomo cristiano è cattolico in quanto vive nel corpo (della chiesa), tagliatene fuori, diviene eretico; ora lo spirito non segue un membro amputato". È dunque la chiesa di Cristo unica e perpetua. Chiunque se ne separa, devia dalla volontà e dal precetto di Cristo nostro Signore, e, abbandonata la via della salute, corre alla rovina. "Chiunque, dice san Cipriano, segregato dalla (vera) chiesa, si unisce alla adulterina, si allontana dalle promesse (fatte) alla chiesa, ne giungerà al premio di Cristo chi abbandona la chiesa di Cristo. Chi non mantiene questa unità, non osserva la legge di Dio, non ha la fede del Padre e del Figlio, non raggiunge la vita e la salvezza".
Ora colui che la fece unica, la fece una, cioè, tale che quanti fossero in essa, si mantenessero associati con strettissimi vincoli insieme in modo da formare un popolo, un regno, un corpo: "Un solo corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una sola speranza, grazie alla vostra vocazione" (Ef 4,4). Gesù Cristo confermò e consacrò in modo solenne questa sua volontà poco prima di morire, così pregando il Padre suo: "Io non prego solamente per essi, ma anche per quelli che mediante la loro parola crederanno in me, affinchè anch’essi siano una sola cosa in noi ... affinchè giungano a perfetta unità" (Gv 17,20-21.23). Che anzi volle che l’unità fosse tra i suoi seguaci così intima e perfetta che in qualche modo imitasse la sua unione col Padre: "Prego ... affinchè tutti siano una cosa sola, come tu, o Padre, sei in me, e io in te" (Gv 17,21). Necessario fondamento di tanta e così assoluta concordia tra gli uomini è il consenso e l’unione delle menti, da cui nasce naturalmente l’armonia delle volontà e la somiglianza delle azioni. E perciò volle, nel suo divino consiglio, che ci fosse nella chiesa l’unità della fede: virtù che tiene il primo luogo tra i vincoli che ci legano a Dio, e da cui riceviamo il nome di fedeli. "Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo" (Ef 4,5), che è quanto dire, che, come uno solo è il Signore, uno il battesimo, così anche una sola deve essere la fede di tutti i cristiani in tutto il mondo. Pertanto l’apostolo Paolo non solo prega, ma domanda e scongiura che tutti abbiano lo stesso sentimento, e fuggano la discordia delle opinioni: "O fratelli, in nome del Signore nostro Gesù Cristo, io vi scongiuro, che tutti teniate uno stesso linguaggio, e non siano tra voi divisioni, ma siate perfettamente uniti in uno stesso sentimento e in uno stesso pensiero" (1 Cor 1,10). E questi testi non hanno certamente bisogno d’interpretazione, poiché parlano chiaramente. Del resto che una debba essere la fede, quanti si professano cristiani comunemente ne convengono. Quello piuttosto che è di massimo rilievo, anzi assolutamente necessario e in cui molti s’ingannano, è di conoscere quale sia questa specie e forma di unità. La qual cosa, come abbiamo fatto più innanzi in simile assunto, si deve discutere non già con argomenti di probabilità e con congetture, ma con la certa scienza dei fatti, ossia si deve giudicare e stabilire quale sia quell’unità di fede, che Gesù Cristo ci ha comandato.
La celeste dottrina di Gesù Cristo, benché in gran parte fissata nella sacra Scrittura, non poteva tuttavia, se fosse stata lasciata all’arbitrio dell’uomo, vincolare le menti. Infatti poteva accadere che desse luogo a varie e differenti interpretazioni: e ciò non solo per sé stessa e per i misteri della sua dottrina, ma anche per la varietà delle menti umane e il turbamento delle passioni, aberranti in contrarie parti. Dalla differenza dell’interpretare nascono necessariamente le divergenze nel sentire: e quindi le controversie, i dissidi, le contese, quali ne vide la stessa età prossima all’origine della chiesa. Degli eretici scrive s. Ireneo: "Essi confessano, è vero, le Scritture, ma ne pervertono il senso". E s. Agostino: "Non sono nate le eresie e certi dogmi perversi, che irretiscono le anime e le precipitano nel profondo, se non quando le sacre Scritture non furono bene intese". Per armonizzare dunque le menti allo scopo di produrre e mantenere l’accordo delle sentenze, oltre le sacre Scritture, era sempre necessario un altro "principio".
Lo esige la divina sapienza: poiché Dio non poteva volere che vi fosse una sola fede, se non avesse provveduto un qualche mezzo adatto per conservare questa unità: ciò che le sacre Scritture, come diremo fra poco, apertamente dichiarano. È certo che l’infinita potenza di Dio non è legata e vincolata ad alcuna cosa, e usa tutte le cose come strumenti docili e obbedienti. Si deve dunque esaminare quale sia questo principio esterno che Cristo ha prescelto per trarre quanti sono in suo potere. Quindi occorre richiamare gli inizi della religione cristiana.

Rammentiamo cose a noi attestate dalle divine Scritture e a tutti note. Gesù Cristo con la sua virtù taumaturgica prova la sua divinità e la sua missione divina; ammaestra con la parola le moltitudini, e comanda a tutti con promessa di premi e minaccia di pene eterne, perché a lui che insegna prestino fede. "Se io non faccio le opere del Padre mio, non credetemi" (Gv 10.37). "Se non avessi operato in loro cose che nessun altro fece, non avrebbero colpa" (Gv 15,24). "Se poi faccio tali cose, e non mi volete credere, credete almeno alle mie opere" (Gv 10,38). Tutto ciò che egli comanda, lo comanda con la stessa autorità, e nell’esigere l’assenso dell’intelletto niente eccettua, niente distingue. Quelli dunque che avevano udito Gesù, se si volevano salvare, erano obbligati a ricevere non solo la sua dottrina in genere, ma ad assentire pienamente a tutte le cose da lui insegnate: poiché ripugna che anche in una cosa sola non si creda a Dio.
Giunto il tempo di ritornare al cielo, egli manda con quello stesso potere, con cui era stato inviato dal Padre, i suoi apostoli, ordinando loro di spandere e diffondere la sua dottrina: "A me fu dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque, e ammaestrate tutte le genti... insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato" (Mt 28,18-20). Saranno salvi quanti obbediranno agli apostoli, e riprovati quanti negheranno loro obbedienza. "Chi crede e si fa battezzare si salverà; chi non crede sarà condannato" (Mc 16,16). Ora, essendo cosa sommamente conveniente alla provvidenza di Dio di non prescegliere alcuno a un grande ed eccellente ufficio senza dargli ad un tempo quanto gli occorre per ben adempierlo, per questo Gesù Cristo promise che avrebbe mandato ai suoi apostoli lo Spirito di verità, e che quello Spirito sarebbe rimasto in essi perpetuamente. "Se vado, vi manderò (il Confortatore) ... quando però verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà per tutta intera la verità" (Gv 16,7-13). "E io pregherò il Padre, e vi darà un altro Confortatore, affinchè rimanga sempre con voi, lo Spirito di verità" (Gv 14,16-17). "Egli renderà a me testimonianza; e voi pure mi renderete testimonianza" (Gv 15,26-27). Quindi comanda che la dottrina degli apostoli sia ricevuta con religioso ossequio e santamente osservata come la sua propria. "Chi ascolta voi, ascolta me; e chi rigetta voi, rigetta me" (Lc 10,16). Per questo gli apostoli sono ambasciatori di Gesù Cristo, come egli lo è del Padre: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv 20,21). Di conseguenza, come dovevano gli apostoli e i discepoli essere ossequienti ai detti di Gesù Cristo, così lo debbono essere a quelli degli apostoli quanti vengono istruiti da loro per divino mandato. Quindi non è lecito ripudiare uno solo degli ammaestramenti degli apostoli, come non si può rigettare alcuna cosa della dottrina di Cristo.
E veramente la voce degli apostoli, investiti dello Spirito Santo, largamente risuonò dappertutto. Ovunque essi si fermassero, ivi sempre si presentavano come ambasciatori di Cristo: "Per lui (Gesù Cristo) ricevemmo la grazia e l’apostolato per sottomettere alla fede nel nome di lui tutte le genti" (Rm 1,5). E la loro divina legazione veniva autenticata da Dio con miracoli. "Essi poi se ne andarono a predicare da per tutto, con la cooperazione del Signore che confermava il loro insegnamento con i miracoli, che l’accompagnavano" (Me 16,20). E quale insegnamento? Quello senza dubbio che in sé conteneva quanto essi avevano imparato dal Maestro: infatti apertamente davanti a tutti essi protestano che non potevano tacere le cose che avevano vedute o udite.
Ma, come abbiamo detto altrove, questa missione apostolica non era tale che potesse terminare con la persona degli apostoli o venisse meno con l’andar del tempo, essendo essa una missione universale e istituita per la salvezza del genere umano. Agli apostoli infatti Gesù Cristo comandò che predicassero "l’evangelo ad ogni creatura", che portassero "il suo nome innanzi alle genti e ai re", e che fossero "suoi testimoni sino all’estremità della terra". E promise loro per l’adempimento di sì grande missione la sua assistenza, non già per alcuni anni o epoche determinate, ma per tutto il tempo sino "alla fine del mondo". A questo proposito san Girolamo dice: "Colui che promette di essere coi suoi discepoli sino alla fine del mondo, fa chiaramente intendere che essi sempre vivranno, e che egli non si allontanerà mai dai credenti". Le quali cose come mai si sarebbero potute verificare nei soli apostoli, soggetti anch’essi per l’umana condizione alla morte? Era dunque nei disegni della provvidenza divina che il magistero, istituito da Gesù Cristo, non finisse con la vita degli apostoli, ma fosse perpetuo. Infatti noi lo vediamo propagarsi e passare per tradizione, diremo così, di mano in mano. Gli apostoli perciò consacrarono dei vescovi, e nominatamente designarono coloro che dovevano succedere loro fra non molto nel "ministero della parola".
Nè si tennero paghi di tanto; ma imposero anche ai loro successori che scegliessero persone idonee, le quali, investite della medesima autorità, avessero lo stesso incarico e ufficio d’insegnare. "Tu, o figlio mio, prendi forza nella grazia, che è in Cristo Gesù, e gli insegnamenti da me avuti in presenza di molti testimoni, trasmettili a uomini fidati, capaci di ammaestrare anche gli altri" (2Tm 2,1-2). E perciò come Cristo fu mandato da Dio, e gli apostoli da Cristo, così i vescovi e quanti successero agli apostoli, sono mandati dagli apostoli. "Gli apostoli furono costituiti per noi predicatori dell’evangelo dal Signore nostro Gesù Cristo, e Gesù Cristo fu mandato da Dio. Cristo perciò fu mandato da Dio, e gli apostoli da Cristo, e l’una e l’altra cosa con ordine fu compiuta per volontà di Dio... Predicando poi la parola nelle regioni e nelle città, costituirono vescovi e diaconi dei credenti coloro che erano stati le primizie dei convertiti, dopo averne provata la capacità... Costituirono i suddetti e quindi ordinarono, che, alla loro morte, altri uomini capaci prendessero il loro posto nel ministero". È dunque indispensabile da un lato che sia costante e immutabile l’ufficio d’insegnare quanto Cristo insegnò, e dall’altro che sia pure costante e immutabile il dovere di ricevere e professare tutta la dottrina degli apostoli. Il che splendidamente s. Cipriano illustra con queste parole: "Quando nostro Signore Gesù Cristo nel suo evangelo affermò che erano suoi nemici quelli che non erano con lui, non additò alcuna specie di eresia, ma mostrò come suoi avversari tutti coloro che, non essendo ne raccogliendo con lui, disperdevano il suo gregge, dicendo: Chi non è con me, è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde".
Ammaestrata da tali precetti, la chiesa, memore del suo ufficio, con ogni zelo e sforzo non si è mai tanto preoccupata che di tutelare in ogni sua parte l’integrità della fede e di ritenere ribelli e espellere da sé quanti non la pensassero come lei in un articolo qualunque della sua dottrina. Gli ariani, i montanisti, i novaziani, i quartadecumani, gli eutichiani, non avevano certamente abbandonata in tutto la dottrina cattolica, ma solo in qualche parte: e tuttavia chi ignora che essi sono stati dichiarati eretici ed espulsi dal seno della chiesa? Allo stesso modo vennero in seguito condannati quanti furono in vari tempi promotori di perverse dottrine. "Niente vi può essere di più pericoloso di questi eretici, i quali, mentre percorrono il tutto (della dottrina) senza errori, con una sola parola, come con una stilla di veleno, infettano la pura e schietta fede della divina e poi apostolica tradizione". Tale appunto fu sempre il modo di comportarsi della chiesa, e ciò anche per l’unanime giudizio dei santi padri, i quali ebbero sempre in conto di scomunicati ed eretici tutti coloro, che anche per poco si allontanarono dalla dottrina proposta dal legittimo magistero. Epifanie, Agostino, Teodoreto ci diedero un lungo catalogo delle eresie dei loro tempi. Agostino poi osserva che errori d’ogni specie possono pullulare; e se qualcuno aderisce ad uno solo di essi, per questo si separa dall’unità cattolica: "Chi crede a queste cose (cioè le eresie indicate), per ciò stesso non deve credersi o dirsi di essere cristiano cattolico. Vi possono essere e formarsi anche altre eresie, che non sono ricordate in questa nostra opera; se uno aderisse a qualcuna di esse, non sarebbe cristiano cattolico".
E il beato Paolo nella Lettera agli Efesini insiste sul modo di tutelare l’unità, di cui parliamo, come fu stabilito per divino volere. Egli dapprima ci esorta a conservare con grande cura la concordia degli animi: "Studiatevi di conservare l’unità dello spirito mediante il vincolo della pace" (Ef 4,3ss); e, poiché gli animi non possono essere per la carità in tutto concordi, quando gli intelletti non consentano nella fede, vuole che in tutti vi sia una sola fede: "Un solo Signore, una sola fede"; e così perfettamente una, che rimuova ogni pericolo di errare: "Allora non saremo più fanciulli sbalzati e portati qua e là da ogni vento di dottrina, tra i raggiri degli uomini e la scaltrezza a inoculare l’errore". E questo, egli dice, si deve osservare non per qualche tempo, ma "finché tutti insieme non giungiamo all’unità della fede ... alla misura della piena statura di Cristo".
Ma di questa unità, dove Gesù Cristo pose il principio per stabilirla e il presidio per conservarla? In questo che "è lui che alcuni costituì apostoli ... altri pastori e dottori, per rendere i santi capaci di compiere il loro ministero, affinchè sia edificato il corpo di Cristo" (Ef 4,11-12). Per la qual cosa fin dalla più remota antichità i dottori e padri della chiesa solevano seguire questa regola e ad una voce difenderla. Così dice Origene: "Ogni volta che (gli eretici) mostrano le scritture canoniche, che ogni cristiano ammette e crede, sembrano dire: Ecco la parola di verità. Ma noi non dobbiamo credere loro, nè allontanarci dalla prima tradizione ecclesiastica, nè credere diversamente, se non come per successione le chiese di Dio ci hanno tramandato". E Ireneo afferma: "La vera dottrina è quella degli apostoli ... secondo le successioni dei vescovi ... trattazione ripiena delle Scritture, custodita con diligenza e senza inganno, che giunse fino a noi". Tertulliano dice: "E certo che ogni dottrina, che sia conforme a quelle tenute dalle primitive chiese apostoliche, è veritiera e senza dubbio afferma ciò che le chiese ricevettero dagli apostoli, gli apostoli da Cristo e Cristo ricevette da Dio... Abbiamo comunione con le chiese apostoliche; in nessuna di esse vi è una dottrina diversa: questa è la testimonianza verace". Ilario poi afferma: "(Cristo, insegnando dalla barca) vuole indicare che quelli che sono fuori della chiesa, non possono capire la parola divina. La barca infatti è la figura della chiesa; quelli che sono fuori di essa, e quelli che stanno sterili e inutili sulla riva, non possono comprendere la parola di vita posta e predicata in essa". Rufino loda Gregorio Nazianzeno e Basilio, perché "si dedicavano solamente allo studio dei libri della s. Scrittura, e li interpretavano non seguendo la propria intelligenza, ma secondo l’autorità e gli scritti degli autori precedenti, che a loro volta avevano ricevuto le regole dell’interpretazione dalla successione apostolica".
Da quanto si è detto appare dunque che Gesù Cristo istituì nella chiesa "un vivo, autentico e perenne magistero", che egli stesso rafforzò col suo potere, lo informò dello Spirito di verità e l’autenticò coi miracoli; e volle e comandò che i precetti della sua dottrina fossero ricevuti come suoi. Quante volte dunque questo magistero dichiara che questo o quel dogma è contenuto nel corpo della dottrina divinamente rivelata, ciascuno lo deve tenere per vero, poiché, se potesse essere falso, ne seguirebbe che Dio stesso sarebbe autore dell’errore dell’uomo, il che ripugna: "O Signore, se vi è errore, siamo stati da tè ingannati". Quindi, rimossa ogni ragione di dubitare, a chi mai sarà lecito ripudiare una sola di queste verità, senza che egli venga per questo stesso a cadere in eresia e senza che, essendo separato dalla chiesa, rigetti in blocco tutta la dottrina cristiana?
Tale è infatti la natura della fede, che nulla tanto le ripugna come ammetterne un dogma e ripudiarne un altro. Infatti la chiesa professa che la fede è una "virtù soprannaturale, con la quale, ispirati e aiutati dalla grazia di Dio, crediamo che sono vere le cose da lui rivelate, non già per l’intrinseca verità delle medesime conosciuta con il lume naturale della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio rivelante, che non può ingannare ne essere ingannato". Se dunque si conosce che una verità è stata rivelata da Dio, e tuttavia non si crede, ne segue che nulla affatto si crede per fede divina. Infatti quello stesso che l’apostolo Giacomo sentenzia del delitto in materia di costumi, deve affermarsi di un’opinione erronea in materia di fede: "Chiunque avrà mancato in un punto solo, si è reso colpevole di tutti" (Gc 2,10). Anzi a più forte ragione deve dirsi di questa che di quello. Infatti meno propriamente si dice violata tutta la legge da colui che la trasgredì in una cosa sola, non potendosi vedere in lui, se non interpretandone la volontà, un disprezzo della maestà di Dio legislatore. Invece colui che, anche in un punto solo, non assente alle verità rivelate, ha perduto del tutto la fede, in quanto ricusa di venerare Dio come somma verità e "proprio motivo di fede": perciò sant’Agostino dice: "In molte cose concordano con me, in alcune poche con me non concordano; ma per quelle poche cose in cui non convengono con me, a nulla approdano loro le molte in cui con me convengono".

E con ragione; perché coloro che della dottrina cristiana prendono quello che a loro piace, si basano non sulla fede, ma sul proprio giudizio: e non "rendendo soggetto ogni intelletto all’obbedienza a Cristo" (2Cor 10,5) obbediscono più propriamente a loro stessi che a Dio. "Voi - diceva Agostino – che nell’evangelo credete quello che volete, e non credete quello che non volete, credete a voi stessi piuttosto che all’evangelo".
Per questo i padri del concilio Vaticano nulla hanno decretato di nuovo, ma solo ebbero in vista l’istituzione divina, l’antica e costante dottrina della chiesa e la stessa natura della fede, quando decretarono: "Per fede divina e cattolica si deve credere tutto ciò che si contiene nella parola di Dio scritta o tramandata, e viene proposto dalla chiesa o con solenne definizione o con ordinario e universale magistero come verità da Dio rivelata". Pertanto essendo chiaro che Dio vuole assolutamente nella sua chiesa l’unità della fede, e sapendosi quale essa sia e con quale principio deve essere tutelata per divino comando, ci sia permesso d’indirizzare a quanti non persistono nel voler chiudere gli orecchi alla verità, le seguenti parole di Agostino: "Vedendo noi tanta abbondanza di aiuti da parte di Dio, tanto profitto e frutto, dubiteremo di chiuderci nel seno di quella chiesa, la quale, anche per confessione del genere umano, dalla sede apostolica per la successione dei vescovi, nonostante che intorno a lei latrino vanamente gli eretici, già condannati sia dall’opinione popolare, sia dal grave giudizio dei concili, sia dalla grandezza dei miracoli, è giunta all’apice dell’autorità? Il negarle il primato, è proprio o di una somma empietà, o di una precipitosa arroganza. ... E se ogni arte, per quanto vile e facile, perché si possa apprendere, richiede un insegnante o un maestro: che v’è di più superbamente temerario che non voler conoscere i libri contenenti i divini misteri dai loro interpreti, o, non conoscendoli, volerli condannare?".
È dunque senza dubbio compito della chiesa custodire la dottrina di Cristo e propagarla inalterata e incorrotta. E neppure questo è tutto, anzi nemmeno in ciò si racchiude il fine, per cui la chiesa fu stabilita. Infatti, come Gesù Cristo si è sacrificato per la salvezza del genere umano, e a questo scopo ha diretto quanto ha insegnato e operato, così volle che la chiesa cercasse nella verità della dottrina quanto fosse necessario alla santificazione e alla salute eterna degli uomini.
Ora la sola fede non basta a raggiungere così grande ed eccelsa meta, ma si richiede sia la pietà e la religione, che specialmente consiste nel divin sacrificio e nella partecipazione dei sacramenti, sia la santità delle leggi e della disciplina.
Tutte queste cose deve contenere in sé la chiesa, come quella che perpetua l’ufficio del Salvatore. Essa sola dà ai mortali quella religione perfetta, che egli volle in lei incarnare, e soltanto essa amministra quelle cose, le quali, secondo l’ordine della Provvidenza, sono gli strumenti della salvezza.
E a quel modo che la celeste dottrina non fu lasciata in balia dell’ingegno e della volontà dell’uomo, ma, insegnala al principio da Cristo, venne poi affidata, come già si disse, al magistero della chiesa, così non ai singoli individui del popolo cristiano, ma a persone scelte fu comunicato da Dio il potere di operare e amministrare i divini misteri, insieme al potere di reggere e governare. Infatti non ad altri che agli apostoli e ai loro legittimi successori si riferiscono quelle parole di Gesù Cristo: "Andate per tutto il mondo e predicate l’evangelo ... battezzandoli. ... Fate questo in memoria di me. ... A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi". Allo stesso modo solo agli apostoli e ai loro successori comandò che pascessero il suo gregge, cioè, che governassero tutta la cristianità, e per conseguenza comandò ai semplici fedeli che dovessero essere a loro soggetti e obbedienti. I quali uffici apostolici vengono tutti da san Paolo compendiati in questa sentenza: "Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio" (1Cor 4,1).
Per questo Gesù Cristo invitò tutti i mortali, presenti e futuri, a seguirlo come Salvatore e Capo, e non solo come singoli individui, ma anche come associati e uniti insieme realmente e di cuore, tanto da formare di una moltitudine un popolo giuridicamente costituito in società, e uno per l’unità di fede, di fine, di mezzi e di gerarchia. Così egli pose nella chiesa tutti quei naturali principi che danno origine all’umana società, in cui gli individui raggiungono la perfezione propria della loro natura; egli pose infatti nella chiesa quanto occorre, perché coloro che vogliono essere figli adottivi di Dio, possano conseguire una perfezione conforme alla loro dignità e ottenere la salute. La chiesa dunque, come accennammo altrove, è guida alle cose celesti, e ad essa Dio diede l’incarico di provvedere e stabilire quanto concerne la religione, e di governare con potere proprio e con tutta libertà la società cristiana. Per questo, o non conoscono bene la chiesa, o la calunniano, coloro che l’accusano di volersi intromettere nelle cose civili o invadere i diritti dello stato. Anzi Dio ha fatto sì che la chiesa fosse di gran lunga superiore a tutte le altre società; infatti il fine a cui tende è tanto più eccelso di quello a cui mirano le altre società, quanto la grazia supera la natura e i beni immortali superano quelli caduchi.
La chiesa è una società "divina" nella sua origine; "soprannaturale" nel suo fine e nei mezzi immediatamente a quello ordinati; ed è "umana", perché si compone di uomini. Infatti la vediamo spesso indicata nella sacra Scrittura con nomi che designano una società perfetta; poiché viene detta "casa di Dio, città posta sul monte", dove è necessario che si raccolgano tutte le genti, e anche "ovile", in cui devono riunirsi tutte le pecorelle di Cristo sotto un solo pastore, anzi "regno che Dio fondò", e che "durerà in eterno", e infine "corpo" di Cristo, "mistico", sì, ma però vivo, perfettamente composto e risultante di molti membri, i quali non hanno la stessa operazione e tuttavia si mantengono uniti insieme sotto lo stesso capo, che li regge e governa. Non si può pensare tra gli uomini una vera e perfetta società senza un sommo potere che la regga. Deve dunque Gesù Cristo aver preposto alla chiesa un sommo reggitore, a cui tutta la moltitudine dei cristiani sia sottomessa e obbedisca. Per la qual cosa come per l’unità della chiesa, in quanto è "riunione dei fedeli", si richiede necessariamente l’unità della fede, così per l’unità della medesima, in quanto è una società divinamente costituita, si esige per diritto divino "l’unità di governo", la quale produce e in sé racchiude "l’unità della comunione". "Ora l’unità della chiesa è riposta in queste due cose: nella mutua unione dei membri della chiesa, cioè nella comunione e nella corrispondenza di tutti i membri della chiesa con un solo capo".
Da questo si può capire che gli uomini si separano dall’unità della chiesa non meno con lo scisma che con l’eresia. "Tra l’eresia e lo scisma corre, per comune avviso, questa differenza, che l’eresia ha un perverso dogma, lo scisma invece si separa dalla chiesa per una scissura episcopale". E in ciò concorda anche il Crisostomo, dicendo: "Io dico e professo che non è minor male lo scindere la chiesa, che cadere nell’eresia". Quindi, se non può esser giusta qualsiasi eresia, per la stessa ragione non c’è scisma che si possa giustificare. "Non vi è nulla di più grave del sacrilegio di uno scisma ... non vi è mai giusta necessità di rompere l’unità".
Quale sia poi questo potere, a cui debbono tutti i cristiani obbedire, non si può altrimenti determinare che dopo avere esaminata e conosciuta la volontà di Cristo. Certamente Cristo è re in eterno, e perpetuamente, benché invisibile, tutela e governa dal cielo il suo regno; ma poiché volle che questo fosse visibile, dovette designare chi, dopo la sua ascensione al cielo, facesse le sue veci in terra. "Chiunque affermasse - dice san Tommaso - che il solo capo e il solo pastore della chiesa è Cristo, che è l’unico sposo dell’unica chiesa, non si esprimerebbe con precisione. Infatti è evidente che è lui che opera i sacramenti della chiesa, che battezza, che rimette i peccati, che, vero sacerdote, s’immolò sull’altare della croce, e per la cui virtù ogni giorno si consacra il suo corpo sull’altare; e tuttavia, poiché non sarebbe stato corporalmente e personalmente presente a tutti i fedeli per l’avvenire, elesse dei ministri, per mezzo dei quali potesse dispensare quanto è stato indicato, come già si è detto sopra (cap. 74). Per la stessa ragione, prima di privare la chiesa della sua corporale presenza, gli fu necessario destinare qualcuno che in suo luogo ne avesse cura. Quindi disse a Pietro prima dell’ascensione: "Pasci le mie pecore". Gesù Cristo dunque diede alla chiesa per sommo reggitore Pietro, e nello stesso tempo stabilì che questo principato, istituito in perpetuo per la comune salvezza, si trasmettesse per eredità ai successori, nei quali lo stesso Pietro con perenne autorità sopravvive. E infatti fece quell’insigne promessa a Pietro, e a nessun altro: "Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia chiesa" (Mt 16,18)".
"A Pietro il Signore ha parlato, a lui solo, perché da uno solo fondasse l’unità". "(Gesù) chiama lui e suo padre per nome (beato te, Simone, figlio di Jona), ma poi non sopporta che si chiami ancora Simone, già fin d’ora reclamandolo come suo per i suoi fini, e con significativo paragone volle che si chiamasse Pietro da pietra, perché sopra di lui avrebbe fondato la sua chiesa". Dalla citata profezia di Cristo è evidente che per volere e ordinazione di Dio la chiesa si fonda sul beato Pietro, come l’edificio sul suo fondamento. Ora la natura e la forza del fondamento consiste nel far sì che le diverse parti dell’edificio si mantengano collegate insieme, e che all’opera sia necessario quel vincolo di stabilità e fermezza, senza cui ogni edificio cade in rovina. È dunque proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma in indissolubile compagine la chiesa. Ma chi potrebbe adempiere un compito così grave senza il potere di comandare, proibire e giudicare, che veramente e propriamente si dice "giurisdizione"? Infatti solo in virtù di questo potere si reggono le città e gli stati. Un primato di onore e quella tenue facoltà di consigliare e di ammonire, che si dice "direzione", non possono giovare molto né all’unità né alla fermezza. Il potere, di cui parliamo, ci viene dichiarato e confermato da quelle parole: "E le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa".
"A chi si riferisce - domanda Origene - la parola essa? Alla pietra su cui Cristo edifica la chiesa, o alla stessa chiesa? Ambigua è la frase: vorrà dire che siano una stessa cosa la pietra e la chiesa? Questo appunto io credo vero; poiché nè contro la pietra, su cui Cristo edifica la chiesa, nè contro di questa prevarranno le porte dell’inferno". La forza perciò di quella sentenza è questa: qualunque violenza o artificio usino i nemici visibili e invisibili, non sarà mai che la chiesa soccomba e perisca: "La chiesa, essendo edificio di Cristo, che sapientemente edificò la sua casa sulla pietra, non può essere preda delle porte dell’inferno, che possono sì prevalere contro ogni uomo che sia fuori della pietra e della chiesa, ma non contro di essa". Dunque Dio affidò la sua chiesa a Pietro, affinchè egli quale invitto tutore la conservasse perpetuamente incolume.
Quindi lo investì del necessario potere, poiché per tutelare una società qualunque di uomini è indispensabile a chi deve tutelarla il diritto di comandare. Gesù inoltre aggiunse: "E a te io darò le chiavi del regno dei cieli". Egli continua a parlare della chiesa, che poc’anzi aveva chiamata sua, e che aveva affermato di voler stabilire su Pietro come sopra il fondamento. La chiesa è raffigurata non solo come un "edificio", ma anche come un "regno", e nessuno ignora che le chiavi sono il simbolo del comando; perciò quando Gesù promise a Pietro le "chiavi del regno dei cieli", gli promise che gli avrebbe dato la somma autorità e il supremo potere sulla chiesa: "II Figlio (del Padre) diede l’incarico (a Pietro) di diffondere per tutto il mondo la conoscenza del Padre e di se stesso, e a un uomo mortale diede ogni potere in cielo, quando gli affidò le chiavi, ed estese la chiesa per tutto il mondo e la indicò più stabile dei cieli".
Concordano con queste le altre parole di Cristo: "E ciò che legherai sulla terra, resterà legato nei cieli; e ciò che scioglierai sulla terra, resterà sciolto nei cieli". Le parole metaforiche di legare e di sciogliere indicano il diritto di far leggi e insieme il potere di giudicare e di punire; e detto potere si afferma così ampio e di tanta forza, che qualunque cosa venga da esso decretata, verrà da Dio confermata. Pertanto è sommo e del tutto libero, come quello che non ha superiore in terra, e che abbraccia tutta la chiesa e le cose tutte che a questa furono affidate.
Cristo Signore mantiene poi la sua promessa dopo la sua risurrezione, quando, avendo per ben tre volte domandato a Pietro se lo amasse, gli dice con tono di chi comanda: "Pasci i miei agnelli... Pasci le mie pecore" (Gv 21,16-17); Cristo volle così a lui affidate, come a pastore, tutte le pecore che entrerebbero nel suo ovile. "Il Signore non dubita - dice sant’Ambrosio - perché lo interroga non per sapere, ma per insegnare a noi che, ormai sul punto di essere portato in cielo, ce lo lasciava come vicario del suo amore. ... E perciò, poiché è solo fra tutti a dare la testimonianza, a tutti viene anteposto ... affinchè giunto a piena perfezione guidasse anche quanti hanno raggiunto la piena perfezione". Ufficio e dovere del pastore è quello di guidare il gregge e di procurare il suo benessere con la salubrità dei pascoli, con l’allontanarlo dai pericoli, preservarlo dalle insidie e difenderlo dalla violenza: in breve, col reggerlo e governarlo. Essendo dunque Pietro il pastore preposto a tutto il gregge di Cristo, egli ricevette il potere di governare tutti gli uomini, alla cui salvezza Gesù Cristo aveva provveduto col suo sangue: "Perché - dice il Crisostomo - sparse egli il suo sangue? Per redimere quelle pecore, che affidò a Pietro e ai suoi successori".
E poiché è necessario che tutti i cristiani siano tra loro uniti per la comunione di una fede immutabile, perciò Cristo Signore, con la forza della sua preghiera, impetrò a Pietro che nell’esercizio del suo sommo potere non errasse mai nella fede: "Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede" (Lc 22,32); e gli comandò che nel bisogno comunicasse ai suoi fratelli luce e forza: "Conferma i tuoi fratelli" (Lc 22,32). Volle insomma che colui che era destinato a fondamento della chiesa, fosse anche il baluardo della fede. "Non poteva - dice sant’Ambrogio - rafforzare la fede di colui, al quale di propria autorità dava il regno, e che additò, chiamandolo pietra, quale fondamento della chiesa?". Gesù volle che certi nomi, significanti grandi cose, che "a lui per propria potestà convengono, fossero rivolti anche a Pietro per partecipazione con se stesso", affinchè dalla comunanza dei titoli apparisse anche quella dei poteri. E cosi colui che è "pietra angolare, su cui l’intero edificio ben connesso va innalzandosi per formare il tempio santo del Signore" (Ef 2,21), stabilisce Pietro quale pietra fondamentale della chiesa. "Avendo ascoltato [sei pietra] è stato encomiato. Benché sia pietra, però, non è pietra come Cristo, ma come Pietro. Cristo infatti è essenzialmente la pietra inconcussa; e Pietro lo è per (questa) pietra. Infatti Gesù dona le sue cariche onorifiche, ma non si esaurisce... È sacerdote, e fa i sacerdoti... è pietra, e fa la pietra". Il Re stesso della chiesa, che "tiene la chiave di Davide, e quando apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre" (Ap 3,7), consegnate a Pietro le "chiavi", lo dichiara principe della società cristiana. E così pure il sommo pastore, che chiama se stesso buon pastore (Gv 10,11), dà a Pietro il governo "dei suoi agnelli e delle sue pecore": "Pasci gli agnelli, pasci le pecore".
E il Crisostomo commenta: "Esimio era (Pietro) tra gli apostoli, bocca dei discepoli, capo del loro collegio... E (Gesù) per mostrargli che conveniva credere per l’avvenire a lui, dimenticata la negazione, affida a lui il governo dei fratelli, dicendo: Se mi ami, presiedi ai fratelli". Finalmente colui che ci conferma "in ogni opera buona e in ogni buona parola" (2Ts 2,16), comandò a Pietro che "confermasse i suoi fratelli". Giustamente Leone Magno diceva: "Di tutto il mondo il solo Pietro viene eletto per essere preposto e alla chiamata di tutte le genti, e a tutti gli apostoli e a tutti i padri della chiesa: affinchè, per quanto siano molti nel popolo di Dio i sacerdoti e molti i pastori, tutti nondimeno siano retti da Pietro, benché Cristo per lui principalmente li governa tutti". E Gregorio Magno così scriveva all’imperatore Maurizio Augusto: "È evidente a quanti conoscono l’evangelo, che per la parola del Signore è stata affidata la cura di tutta la chiesa all’apostolo Pietro, primo di tutti gli apostoli... Egli ricevette le chiavi del regno dei cieli, a lui è dato il potere di legare e di sciogliere, a lui ancora la cura e il principato di tutta la chiesa".
Ora, essendo questo principato contenuto nella stessa costituzione e ordinamento della chiesa, come parte principale, o piuttosto come principio di unità e fondamento della sua perpetua esistenza, non poteva perire con Pietro, ma doveva trasmettersi dall’uno all’altro ai suoi successori. Perciò san Leone diceva: "Rimane quindi quanto Gesù ha disposto veramente, e il beato Pietro, perseverando nella ricevuta forza della pietra, non lascia il comando della chiesa". Per la qual cosa i vescovi, che succedono a Pietro nell’episcopato romano, ottengono "di diritto divino" la suprema autorità su tutta la chiesa. "Noi definiamo - dicono i padri del Concilio di Firenze - che la santa sede apostolica e il vescovo di Roma hanno su tutto l’orbe il primato, e che lo stesso vescovo di Roma è successore del beato Pietro, primo degli apostoli, vero vicario di Cristo, capo di tutta la chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani, a cui nella persona del beato Pietro fu dato da Cristo pieno potere di pascere, reggere e governare tutta la chiesa, come si afferma negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni". E il concilio Lateranense IV definisce: "La chiesa romana, per disposizione del Signore, primeggia su tutte le altre per l’ordinaria sua potestà, come quella che è madre e maestra di tutti i cristiani".
E questi decreti erano stati preceduti dal consenso di tutta l’antichità, la quale venerò sempre i vescovi romani come legittimi successori del beato Pietro. E chi ignora le tante e sì splendide testimonianze dei santi padri a questo proposito? Luminosa è quella di Ireneo, il quale, parlando della chiesa romana, dice: "A questa chiesa per una più degna supremazia è necessario che concordi ogni chiesa". E Cipriano, parlando della medesima, la chiama "radice e madre della chiesa cattolica", "cattedra di Pietro e chiesa principale da cui è sorta l’unità del sacerdozio". La chiama "cattedra" di Pietro, perché vi siede il successore di Pietro; "chiesa principale", per il primato conferito a Pietro e ai suoi successori; "da cui è sorta l’unità", perché la causa efficiente dell’unità nel cristianesimo è la chiesa romana. E così Girolamo si rivolge a Damaso: "Io parlo col successore del pescatore e discepolo della croce... Alla tua beatitudine, cioè, alla cattedra di Pietro, io per la comunione mi associo. So bene che su quella pietra è edificata la chiesa". E riconosceva sempre un cattolico dalla unione che aveva con la sede romana di Pietro; e diceva: "Se alcuno è unito alla cattedra di Pietro, è dalla mia parte". Allo stesso modo Agostino attesta che "nella chiesa romana sempre fiorì il principato della Cattedra apostolica", e nega che sia cattolico chiunque dissenta dalla fede romana: "Non credere di avere la vera fede cattolica, se non insegni la necessità di avere la fede romana". La stessa cosa afferma Cipriano: "Avere comunione con Cornelio è lo stesso che avere comunione con la chiesa cattolica". Pure Massimo Abate insegna che è segno caratteristico della vera fede e della vera comunione l’obbedienza al vescovo di Roma: "Perciò se non vuoi essere eretico non accontenti questo o quello.... S’affretti ad accontentare la sede romana. Fatto questo, comunemente e ovunque tutti lo riterranno pio e retto. Infatti parla inutilmente e invano chi fa diversamente, e non soddisfa il beatissimo papa della santissima chiesa romana, cioè la sede apostolica". E ne dà la seguente ragione; "Essa ricevette e ha il comando, l’autorità e il potere di legare e di sciogliere dallo stesso Verbo di Dio incarnato, e anche da tutti i concili, secondo i sacri canoni, fra tutte le chiese sante di Dio che si trovano sulla terra. Quando lega o scioglie qualcosa, anche in cielo è ratificato dal Verbo, che comanda ai celesti principati".
Quello dunque che già esisteva nella fede cristiana, quello che non un popolo solo o una sola età, ma tutte le età, e l’Oriente insieme e l’Occidente abitualmente riconoscevano e osservavano, venne dal presbitero Filippo, rappresentante del papa, ricordato al Concilio di Efeso, senza che alcuno sorgesse a contraddirlo; "Nessuno può dubitare, anzi è noto a tutti, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli apostoli, colonna della fede e fondamento della chiesa cattolica, ricevette da Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, le chiavi del regno, e gli fu dato il potere di sciogliere e di ritenere i peccati, a lui, che finora e per sempre vive ed esercita il potere nei suoi successori". Allo stesso argomento si riferisce la sentenza del Concilio di Calcedonia: "Pietro attraverso Leone… ha parlato" a cui fa eco la voce del Concilio Costantinopolitano III: "Il sommo principe degli apostoli era d’accordo con noi; avemmo con noi infatti il suo imitatore e successore nella sede... sembrava carta e inchiostro, e invece Pietro parlava attraverso Agatone".
Nella formula della professione cattolica proposta da Ormisda sul principio del secolo VI, e sottoscritta dall’imperatore Giustiniano e dai patriarchii Epifanie, Giovanni e Menna viene dichiarato con gravi e forti parole: "Poiché non si può tralasciare l’affermazione di nostro Signore Gesù Cristo: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, ... quanto è stato detto è provato dai fatti, poiché nella sede apostolica la religione cattolica è stata sempre conservata senza macchia".
Non vogliamo citare più a lungo le singole testimonianze; ma ci basterà qui ricordare la formula di fede che professò Michele Paleologo nel Secondo Concilio di Lione: "La santa chiesa romana ha un sommo e pieno primato e principato su tutta la chiesa cattolica, e (il Paleologo) con tutta verità e umiltà riconosce che essa lo ha ricevuto con piena potestà dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, principe e capo degli apostoli, del quale è successore il vescovo di Roma. E poiché questi sopra tutti è tenuto a difendere la verità della fede, così, se nasceranno questioni intorno alla medesima, egli dovrà con sua sentenza definirle".
Sebbene sia somma e piena la potestà di Pietro, non si creda tuttavia che essa sia la sola. Infatti colui che pose Pietro a fondamento della chiesa, "elesse anche dodici... che nominò apostoli" (Lc 6,13). Come è necessario che l’autorità di Pietro si perpetui nel vescovo di Roma, così i vescovi, come successori degli apostoli, ne ereditano l’ordinaria potestà, e quindi l’ordine episcopale necessariamente tocca l’intima costituzione della chiesa. Benché essi non abbiano una somma, piena e universale autorità, tuttavia non devono ritenersi come dei semplici "vicari" dei vescovi di Roma, poiché hanno una potestà propria, e con verità si dicono presuli "ordinari" dei popoli che reggono.
Però, siccome il successore di Pietro è uno solo, e i successori degli apostoli sono molti, è conveniente che si veda quali siano per divina costituzione le relazioni di questi con quello.
E in primo luogo, è certa ed evidente la necessità dell’unione dei vescovi col successore di Pietro; poiché, sciolto questo vincolo, necessariamente si discioglie e si disperde la stessa moltitudine dei cristiani, in modo da non poter formare in alcun modo un solo corpo e un solo gregge. "La salute della chiesa dipende dalla dignità del sommo sacerdote, e se non gli si dà un potere speciale e superiore a tutti, vi saranno nella chiesa tanti scismi, quanti sono i sacerdoti". Pertanto è bene avvertire che niente fu conferito agli apostoli separatamente da Pietro, ma molte cose a Pietro separatamente dagli apostoli.
Giovanni Crisostomo, nel commentare l’affermazione di Cristo (Gv 21,15), si domanda: "Perché Cristo, lasciati gli altri, parla di queste cose solamente a Pietro?"; e risponde: "Perché era il primo fra gli apostoli, la bocca dei discepoli, il capo del loro collegio". Egli infatti era il solo designato da Cristo a fondamento della chiesa; a lui era data la facoltà di "legare" e di "sciogliere"; il solo, al quale era dato di "pascere"; invece, quanto di autorità e di ministero ricevettero gli apostoli, lo ricevettero unitamente a Pietro: "Se la condiscendenza divina volle che alcuna cosa fosse a lui comune con gli altri prìncipi (apostoli), non concedette se non per lui quello che non negò agli altri… Avendo da solo ricevuto molte cose, nulla passò in alcuno senza la sua partecipazione", Perciò è evidente che i vescovi decadono dal diritto e dalla potestà di governare, quando volutamente si separino da Pietro e dai suoi successori; infatti allora si distaccano per scisma dal fondamento, su cui deve basarsi tutto l’edificio; sono esclusi quindi dallo stesso "edificio", e per la Stessa causa separati dall’"ovile", la cui guida è il pastore supremo, e banditi dal "regno", le cui chiavi furono date per volere divino al solo Pietro.
E in questo Noi riconosciamo ancora il celeste disegno e la mente divina che presiedette alla costituzione della società cristiana; cioè, che il divino Autore, avendo stabilita nella chiesa l’unità della fede, del governo e della comunione, elesse Pietro e i suoi successori, perché fosse attuato in essi il principio e il centro dell’unità. Afferma san Cipriano: "Dice il Signore a Pietro: Io ti dico, che tu sei Pietro... Sopra uno solo edifica la chiesa. E benché a tutti gli apostoli, dopo la sua risurrezione, dia uguale potestà, e dica: Come il Padre ha mandato me..., tuttavia per manifestare l’unità, dispose autorevolmente che l’origine della stessa unità cominciasse da uno solo". E Ottato di Milevi dice: "Non puoi negare di sapere che nella città di Roma a Pietro per primo fu conferita la cattedra episcopale, sulla quale sedette il capo di tutti gli apostoli, Pietro; affinchè in quella sola cattedra l’unità fosse mantenuta da tutti e così neppure gli altri apostoli difendessero le proprie cattedre contro di quella, tanto da essere scismatico e in peccato, chi ne ponesse un’altra contro l’unica cattedra". E perciò Cipriano afferma che sia lo scisma sia l’eresia nascono dal fatto che non si presta la dovuta obbedienza alla suprema potestà: "Non da altro infatti sono sorte le eresie e sono nati gli scismi, se non perché non si obbedisce al sacerdote, e non si pensa che nella chiesa vi è un solo sacerdote e un solo giudice vicario di Cristo". Nessuno dunque che non sia unito a Pietro può partecipare dell’autorità, essendo assurdo pensare che possa comandare nella chiesa chi è fuori di essa. Perciò Ottato di Milevi rimproverava i donatisti, dicendo: "Contro le porte (dell’inferno) leggiamo che ricevette le chiavi di salute Pietro, nostro principe, a cui fu detto da Cristo: A te darò le chiavi del regno dei cieli, e le porte dell’inferno non le vinceranno. Perché dunque pretendete di usurpare le chiavi del regno dei cieli, voi che militate contro la cattedra di Pietro?".
Ma l’ordine episcopale allora solamente si deve credere unito a Pietro, come Cristo comanda, se a Pietro è sottomesso e gli obbedisce: altrimenti diventerà necessariamente una moltitudine confusa e disordinata. Per ben conservare l’unità della fede e della comunione non basta un primato di onore, nè una sopraintendenza nella chiesa, ma è assolutamente necessaria una vera e somma autorità, a cui tutta la comunità obbedisca.
E a che altro il Figlio di Dio mirò, quando al "solo" Pietro promise le chiavi del regno dei cieli? L’espressione biblica e il consenso unanime dei padri non lasciano punto dubitare che col nome di "chiavi" venga in quel luogo significato il supremo potere. Nè in altro modo è lecito interpretare quanto viene attribuito separatamente a Pietro, e agli apostoli uniti a Pietro. Se la facoltà di legare, di sciogliere, di pascere fa sì che ognuno dei vescovi, successori degli apostoli, governi con vera potestà il suo popolo, certamente la stessa facoltà deve produrre il medesimo effetto in colui, al quale fu assegnato da Dio l’ufficio di pascere gli "agnelli" e le "pecore". "(Cristo) costituì Pietro non solamente pastore, ma pastore dei pastori; Pietro pasce dunque gli agnelli, e pasce anche le pecore; pasce i figli e pasce anche le madri; regge i sudditi e regge anche i prelati, poiché oltre gli agnelli e le pecore non vi è nulla nella chiesa". Si spiegano quindi le espressioni usate dagli antichi riguardo al beato Pietro, e che significano tutte apertamente un sommo grado di dignità e di potere. Viene indicato spesso coi titoli di principe dell’adunanza dei discepoli, principe dei santi apostoli, corifeo del loro coro, bocca di tutti gli apostoli, capo di quella famiglia, preposto a tutto il mondo, primo fra gli apostoli, baluardo della chiesa; i quali titoli sembra che san Bernardo voglia racchiudere in queste parole al papa Eugenio: "Chi sei tu? Il gran sacerdote, il sommo pontefice. Tu sei il primo dei vescovi, tu l’erede degli apostoli.... Tu sei colui, a cui furono consegnate le chiavi, a cui furono affidate le pecore. Vi sono pure altri portieri del cielo e pastori dei greggi; ma tu hai ereditato un nome tanto più glorioso quanto più diversamente da essi hai ereditato l’uno e l’altro nome. Ogni pastore ha il suo gregge particolare a lui assegnato; a tè tutti i greggi vennero affidati, a te solo l’unico, tutto il gregge, non solo delle pecorelle, ma anche dei pastori; tu solo di tutti sei il pastore. Mi domandi in che modo io lo provi? Dalla parola del Signore. Infatti a chi, non dico dei vescovi, ma ancora degli apostoli, furono in un modo così assoluto e indefinito affidate le pecore? Se mi ami, o Pietro, pasci le mie pecore, Quali? Popoli di questa o di quella città, o regione, o regno? Le mie pecore, disse. A chi non è manifesto non avergli egli assegnate alcune, ma tutte? Nulla si eccettua, ove nulla si distingue".
È cosa contraria alla verità e apertamente ripugna alla costituzione divina il dire che i "singoli" vescovi sono soggetti alla giurisdizione dei papi, e non già tutto il corpo episcopale; poiché tutta la ragion d’essere del fondamento sta nel dare a tutto l’edificio, piuttosto che a "singole sue parti", unità e saldezza. Il che nel caso nostro è tanto più vero, in quanto Cristo signore volle che per la virtù appunto del fondamento le porte dell’inferno non prevalessero contro la chiesa; e questa promessa divina com’è a tutti manifesto, si deve intendere di tutta la chiesa e non delle singole sue parti, le quali possono essere vinte dal furore dell’inferno, e parecchie infatti lo furono. È inoltre necessario che chi è preposto a tutto il gregge non solo abbia il comando sulle singole pecore, ma anche su di esse riunite insieme. Che l’ovile avrà forse da reggere e da guidare il pastore? Forse i successori degli apostoli, uniti in corpo, saranno il fondamento, su cui il successore di Pietro si appoggi per avere fermezza? Chi possiede le chiavi del regno dei cieli, non ha soltanto potere e autorità sopra le singole regioni, ma su tutte insieme; e come ciascun vescovo nella sua diocesi presiede con vera potestà non solo ai singoli individui, ma a tutta la comunità, così pure i papi, il cui potere abbraccia tutta la cristianità, hanno soggette e obbedienti alla loro autorità tutte le parti di questa, anche insieme raccolte. Cristo Signore, come già si disse ripetutamente, concesse a Pietro e ai suoi successori che fossero suoi vicari, ed esercitassero perpetuamente nella chiesa quel potere che egli aveva esercitato nella sua vita mortale. Si dirà forse che il collegio apostolico sia stato superiore al suo maestro?
La chiesa non cessò mai in alcun tempo di riconoscere e di attestare questo potere, di cui parliamo, sopra il corpo episcopale, potere sì chiaramente indicato dalla sacra Scrittura. Ecco come parlano in questa materia i concili: "Noi leggiamo che il vescovo di Roma ha giudicato i prelati di tutte le chiese, ma che egli sia stato da alcuno di essi giudicato noi non lo leggiamo". E se ne dà la seguente ragione: "Non vi è un’autorità superiore alla sede apostolica". Gelasio, parlando dei decreti dei concili, così scrive: "Come fu nullo tutto ciò che non venne approvato dalla prima sede, così ciò che essa ha creduto di dover sentenziare fu ammesso da tutta la chiesa". Infatti fu sempre privilegio dei vescovi di Roma confermare o invalidare le decisioni e i decreti dei concili. Leone Magno annullò gli atti del conciliabolo di Efeso; Damaso rigettò quelli del conciliabolo di Rimini, e Adriano II quelli del conciliabolo di Costantinopoli. Il canone XXVIII del Concilio di Calcedonia, perché privo dell’assenso e della volontà della sede apostolica, rimase, com’è noto, senz’alcun valore. Con ragione dunque Leone X nel Concilio Lateranense V sentenziò: "Solo il vescovo di Roma, temporaneamente in carica, ha il pieno diritto e il potere, come avente l’autorità su tutti i concili, di indire, trasferire, sciogliere i concili; e questo è evidente, non solo per testimonianza della sacra Scrittura, dei detti dei padri e degli altri vescovi di Roma e decreti dei sacri canoni ma anche per l’ammissione degli stessi concili". E per verità al solo Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare e di sciogliere; ma non si legge in alcun luogo che gli apostoli ricevessero questo sommo potere "senza Pietro" e "contro Pietro". Davvero non così l’hanno ricevuto da Gesù Cristo.
E per questo, col decreto del Concilio Vaticano intorno alla ragione e alla forza del primato del vescovo di Roma, non fu introdotto un nuovo dogma, ma asserita l’antica e costante fede di tutti i secoli (del cristianesimo).
Né il sottostare a un doppio potere arreca confusione nel governo. Anzitutto la sapienza di Dio, per disposizione della quale questa forma di governo venne stabilita, ce ne vieta anche il semplice sospetto. E poi si deve osservare che l’ordine e le relazioni vengono turbate solamente, se nel popolo vi sono due magistrati dello stesso grado, e indipendenti l’uno dall’altro. Ma il potere del vescovo di Roma è supremo, universale e indipendente, mentre quello dei vescovi è ristretto entro certi confini e non è del tutto indipendente. "Non è conveniente che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con poteri uguali; ma non ripugna che due, dei quali uno è superiore all’altro, siano costituiti sullo stesso popolo; così sullo stesso popolo vi sono immediatamente e il parroco e il vescovo e il papa". I vescovi di Roma, memori del loro ufficio, vogliono meglio degli altri conservare nella chiesa tutto ciò che fu divinamente istituito; e quindi come tutelano la loro autorità con quella cura e vigilanza che si conviene, così sempre si preoccuparono e si preoccupano perché l’autorità dei vescovi sia mantenuta; anzi reputano fatto a sé tutto l’onore e l’ossequio che si rende ai medesimi. Per questo san Gregorio Magno diceva: "E mio onore l’onore della chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Io sono veramente onorato, allorquando a ognuno di loro non si nega il dovuto onore".
Con quanto si è detto finora abbiamo fedelmente espressa, secondo la divina costituzione, l’immagine e la forma della chiesa. Abbiamo ragionato a lungo dell’unità, e spiegato in che cosa essa consista e con quale principio il divino Autore abbia voluto conservarla. Non dubitiamo punto che la Nostra voce apostolica sia ascoltata da coloro che per favore e grazia di Dio, essendo nati nel seno della chiesa cattolica, vivono in essa: "Le mie pecore ascoltano la mia voce" (Gv 10,27); né dubitiamo che essi ne trarranno incitamento a istruirsi più profondamente e ad unirsi con maggiore affetto ai propri pastori e per essi al supremo pastore, affinchè possano con più sicurezza rimanere nell’unico ovile e cogliere maggiore ricchezza di frutti salutari. Senonché, fissando il Nostro sguardo "al promotore e coronatore della fede, a Gesù" (Eb 12,2), di cui, benché impari a tanta dignità e ufficio, sosteniamo la vicaria potestà, il cuore s’infiamma della sua carità; e a Noi non senza ragione applichiamo quello che Cristo disse di se stesso: "Ho altre pecore, che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che le raduni e ascolteranno la mia voce" (Gv 10,16). Non ricusino dunque di ascoltarci e di assecondare il Nostro paterno amore quanti hanno in abominio l’empietà, sì largamente diffusa, e riconoscono e confessano Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore del genere umano, e tuttavia vanno errando lontano dalla sua sposa. Quelli che ricevono Cristo, è necessario che lo ricevano tutto intero: "Tutto il Cristo è capo e corpo (insieme); è capo l’unigenito Figlio di Dio; suo corpo è la chiesa; lo sposo e la sposa, due in una carne. Chiunque intorno allo stesso capo discorda dalla sacra Scrittura, ancorché concordi in tutti quei punti in cui è designata la chiesa, non è nella chiesa. E così pure, chiunque ammette tutto ciò che nella Scrittura si dice dello stesso capo, ma non è unito in comunione con la chiesa, non è nella chiesa". Con lo stesso affetto l’animo Nostro vola a coloro che il pestilente soffio dell’empietà non ha del tutto corrotto; essi almeno desiderano grandemente questo, che il vero Dio, creatore del cielo e della terra, sia loro Padre. Costoro considerino attentamente e comprendano che non possono essere annoverati tra i figli di Dio, se non riconoscono come loro fratello Gesù Cristo, e insieme come loro madre la chiesa. A tutti dunque amorosamente ci rivolgiamo con le parole dello stesso Agostino: "Amiamo Dio nostro Signore, amiamo la sua chiesa; quello come padre, questa come madre. Nessuno dica: Sì, vado dagli idoli, consulto gli invasati e gli indovini, e tuttavia non abbandono la chiesa di Dio: sono cattolico. Tenendo la madre, hai offeso il padre! Un altro dice: Non consulto alcun indovino, non cerco gli invasati, non cerco sacrileghe divinazioni, non vado ad adorare i demoni, non servo agli dei di pietra; però sono dalla parte di Donato. Che ti giova non avere offeso il padre, se questi vendica la madre offesa? Che ti vale confessare il Signore, onorare Dio, predicarlo, riconoscere il suo Figlio e confessare che siede alla destra del Padre, se bestemmi la sua chiesa?… Se tu avessi un patrono, a cui ogni giorno prestassi ossequio; e tuttavia manifestassi una sola colpa della sua consorte, avresti tu l’ardire di entrare in casa sua? Abbiate dunque, carissimi, abbiate tutti concordemente Dio per padre, e per madre la chiesa".
Avendo piena fiducia in Dio misericordioso, che può muovere efficacemente il cuore degli uomini e spingerli come e dove vuole, con tutto l’affetto raccomandiamo alla sua bontà tutti coloro a cui rivolgemmo la Nostra esposizione. E come pegno dei celesti doni e attestato della Nostra benevolenza, a voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo amorevolmente impartiamo nel Signore l’apostolica benedizione.
Roma, presso S. Pietro, il giorno 29 giugno dell’anno 1896, decimonono del Nostro pontificato.


























 


 

 
 
 
 

Pio XI (1922-1939)

Mortalium animos
1. Forse mai nel passato sentì il mondo vivo come al Nostri giomi il desiderio di rafforzare ed estendere al bene comune dell’umanità quelle fraterne relazioni che, per identità di natura e di origine, ci uniscono, in quanto uomini, strettamente fra noi. Le nazioni sono ancora ben lontane dal goder pienamente i beni della pace, anzi vecchi e nuovi dissidi sbocciano qua e là in rivolte e lotte civili; d’altra parte la soluzione dei molti contrasti circa la tranquillità e prosperità dei popoli è subordinata all’opera concorde ed attiva dei rispettivi governanti; si spiega facilmente (massime ora che tutti convengono sull’unità del genere umano) perché siano tanti a desiderare una sempre maggiore unione fra le varie nazioni, a ciò portate da questa fraternità universale.
2. Analogo è l’intento che si prefiggono di conseguire taluni per quanto riguarda l’ordinamento della nuova legge promulgata da Nostro Signore Gesù Cristo.
Convinti che rarissimo è il caso di uomini assolutamente privi di ogni sentimento religioso, sembrano nutrire speranza che non debba riuscire troppo difficile che, malgrado singole divergenze in materia di religione i popoli si accordino fraternamente un giorno nella professione di alcune dottrine, accolte come base comune di vita spirituale.
Di qui il frequente indire che fanno, con notevole intervento di persone, di congressi, riunioni, conferenze cui sono indifferentemente invitati a discutere infedeli di ogni gradazione e cristiani e perfino infelici apostati da Cristo che ne ripudiano con pertinace ostinazione la natura e missione divina.
Simili tentativi non possono in nessun modo riscuotere l’approvazione dei cattolici, fondati come sono sul falso presupposto che tutte le religioni siano buone e lodevoli in quanto tutte, pur nella diversità dei modi, manifestano e significano ugualmente quel sentimento, a chiunque congenito, che ci rivolge a Dio e ci rende ossequienti nel riconoscimento del suo dominio.
Teoria questa non solo erronea e ingannatrice, ma che attraverso una deformazione del vero concetto religioso conduce insensibilmente chi la professa al naturalismo ed all’ateismo. E’ chiara quindi la conseguenza: aderendo ai fautori di tali teorie e tentativi ci si allontana del tutto dalla religione rivelata da Dio.
3. Ma dove parvenze di bene ingannano più facilmente parecchi è quando si tratta di promuovere l’unità fra tutti quanti i cristiani. Si sente ripetere con insistenza che, non solo è giusto, ma doveroso che quanti invocano il nome di Cristo si astengano da reciproche recriminazioni e si stringano una buona volta in vincoli di vicendevole carità.
E chi oserebbe sostenere di amar Gesù Cristo, senza impegnar tutte le proprie forze per contribuire alla realizzazione di uno dei voti di Lui, quando pregò il Padre perché i suoi discepoli fossero "una cosa sola?".
E lo stesso Gesù non diede ai propri fedeli quasi come distintivo l’amore reciproco: "Da questo tutti vi conosceranno per i miei discepoli: dall’amarvi l’un l’altro?" E magari aggiungono fossero tutti i cristiani "una cosa sola"; ben maggiore sarebbe la resistenza alla peste dell’empietà il cui quotidiano diffondersi ed imporsi minaccia di paralizzare la Buona Novella.
4. Queste e simili sono le ragioni che espongono non senza ampliarle, i cosiddetti pancristiani. E non è da credere che costoro siano pochi e raccolti in rari gruppi: si sono invece moltiplicati per così dire in fitta schiera e riuniti in società di vasta diffusione, rette specialmente - benché composte di credenti di varie confessioni - da acattolici.
Il lavoro a questo scopo è talmente attivo che in vari luoghi ha guadagnato la pubblica opinione e parecchi fra gli stessi cattolici sono presi dal miraggio e dalla speranza di simile unione, tanto più che essa sembra rispondere ai desideri di Santa Madre Chiesa, uno dei cui voti più antichi è di richiamare e ricondurre nel proprio seno i figli che l’han disertata.
Eppure sotto codeste attrattive e lusinghe si nasconde un gravissimo errore che scalzerebbe dalle basi il fondamento della Chiesa cattolica. Perciò la consapevolezza del Nostro dovere apostolico ci impone di vigilare a che il gregge del Signore non cada vittima di pericolose fallacie, e contro tanto male sollecitiamo, venerabili fratelli, la vostra diligenza.
Voi avvicinerete - ne siamo sicuri - con il più facile mezzo dello scritto e della parola, il popolo e ne sarete compresi nella spiegazione degli argomenti e principi che stiamo per esporre.
Non mancherà così ai cattolici una precisa norma di pensiero e di azione per saper come regolarsi rispetto a iniziative tendenti a procurare in qualsivoglia modo l’unione in un corpo solo di tutti i cristiani.
5. Dio, sommo fattore dell’universo, ci ha creati per conoscerlo e servirlo: pieno diritto ha per conseguenza alla nostra servitù. Avrebbe potuto Iddio per governar l’uomo prescrivere solamente la legge di natura, quella cioè che gli scolpì nell’animo all’atto della creazione e quindi, mercé la ordinaria sua provvidenza regolarne i progressi. Amò invece presentarci dei particolari precetti e nel corso dei secoli, dall’origine del genere umano sino alla venuta e predicazione di Cristo, insegnò egli stesso all’uomo i doveri che gli derivavano dalla propria natura verso il Creatore: "molte volte e in molti modi Dio ha parlato già ai nostri Padri per mezzo dei Profeti, e da ultima ai giorni nostri ha parlato a noi attraverso il suo Figliolo".
E’ evidente da quanto precede che delle religioni sola vera sarà quella che si fonda sulla parola della rivelazione, cominciata fin da principio, proseguita nell’antico testamento e compiuta nel nuovo dello stesso Gesù Cristo. Ora, se Dio ha parlato, e la storia ci prova che realmente parlò, tutti comprendono che è Nostro dovere credere senza limiti a quanto Egli rivela e senza restrizioni obbedire ai suoi ordini. E proprio per questo, perché potessimo rettamente comportarci a gloria di Dio e per la nostra salvezza, fondò il Signore la sua Chiesa nel mondo.
Nessuno crediamo, può dichiararsi cristiano senza almeno credere alla istituzione di una Chiesa e di una sola, per opera di Cristo: ma se appena si richiede quale deva essere secondo la volontà del suo fondatore, allora cominciano le divergenze. Molti per esempio negano che la Chiesa di Cristo deva essere visibile, almeno nel senso che debba presentarsi come un solo corpo di fedeli, concordi in un solo insegnamento e in una sola dottrina, sotto unico governo; e dicono invece che la Chiesa visibile altro non è se non una società composta dall’assieme delle varie comunità cristiane, anche se singolarmente aderenti a dottrine magari opposte fra loro.
La Chiesa sua invece Nostro Signore la fondò come società perfetta, per natura esterna e sensibile, con il fine di perpetuare nel futuro l’opera salvatrice della Redenzione, sotto la guida di un solo capo, mercé l’insegnamento della parola e con la dispensa dei sacramenti, fonti della Grazia celeste.
Ecco perché nelle sue parabole la dichiarò simile a regno, a casa, a ovile, a gregge. E codesta Chiesa, morti che furono il fondatore e gli apostoli, primi artefici della sua propaganda, non poteva certo, così mirabilmente costituita, venir meno e cessare, poiché ad essa era stato assegnato il compito di condurre tutti gli uomini senza alcuna eccezione di tempo o di luogo all’eterna salvezza "andate dunque ed insegnate a tutti...".
E come potrà mai la chiesa deflettere dall’adempimento di questo dovere, per diminuito valore ed efficacia, sicura della permanente presenza a suo fianco di Gesù Cristo secondo la solenne promessa "Ecco io sono con voi ogni giorno, sino alla fine dei secoli?".
Non solamente deve dunque la Chiesa di Cristo sussistere oggi, domani e sempre, bensì deve avere l’identica fisionomia di quella dei tempi apostolici, a meno che non si voglia giungere all’assurdità di ritenere che Gesù Cristo o abbia fallito allo scopo o pur si sia sbagliato quando affermò che le porte dell’inferno non avrebbero mai prevalso contro di essa.
Se non che a questo punto occorre chiarire e confutare una falsa opinione, da cui sembra dipenda tutta la questione presente da cui traggono origine la molteplice attività e sollecitudine degli acattolici tendenti - come dicemmo - all’unione delle chiese cristiane.
I fautori di questa iniziativa van di continuo e quasi all’infinito ripetendo le parole di Cristo: "Che tutti siano una cosa sola... si farà un solo gregge ed un solo pastore..." con l’idea però di esprimere così un voto e una preghiera di Gesù Cristo tuttavia inesauditi. Per costoro l’unità di governo e di fede, che è la nota distintiva dell’unica e vera Chiesa di Cristo non è mai, si può dire, esistita nel passato né esiste al presente; è possibile si desiderarla e forse, una volta o l’altra, mediante la comune volontà dei fedeli potrebbe anche realizzarsi, ma rimane per adesso vaga utopia.
Di più: la Chiesa, dicono, per sé, per sua natura è divisa in parti, consta cioè di molte singole Chiese e comunità e queste separate finora pur avendo in comune taluni punti dottrinali, tuttavia non sono d’accordo per altri i ma tutte godono e possono rivendicare gli stessi diritti; la Chiesa insomma fu unica al più dall’età apostolica fino ai primi concili ecumenici.
Dunque, soggiungono, bisogna mettere da parte e superare ogni controversia e codeste antichissime divergenze che ancor oggi mantengono diviso il nome cristiano; e formare invece, dalle altre dottrine comuni, e proporre, una norma di fede nella cui professione prevalga piuttosto al sapersi il sentirsi fratelli; che infine se unite da un patto universale le varie comunità o chiese potranno opporre solida e fruttuosa resistenza ai progressi dell’empietà.
6. Questo, venerabili fratelli, è quanto si sente comunemente dire. E’ ben vero che non mancano di quelli che ritengono e concedono che il Protestantesimo ha peccato di leggerezza nell’abbandonare certi punti di fede e qualche rito del culto esterno, certamente accettabili ed utili, che invece la Chiesa romana ancora mantiene. Subito dopo però rinfacciano proprio a questa chiesa di aver corrotto la purezza delle antiche dottrine con l’aggiunta di altre, nonché aliene, contrastanti addirittura al Vangelo; e la principale sarebbe quella del primato di giurisdizione concesso a Pietro e ai suoi successori nella sede romana. Fra costoro ce ne sono pure benché pochi - che concedono - al Romano Pontefice un primato d’onore, una qualche giurisdizione o potere, ma solo in quanto derivato, in certa maniera, dal consenso dei fedeli e non già per diritto divino; ed altri arrivano fino a desiderare alla presidenza dei loro, diciamo così, variopinti convegni, lo stesso Pontefice.
Ma se molti sono gli acattolici che predicano a gran voce la fraterna comunione in Gesù Cristo, non se ne trova nemmeno uno cui venga in mente di obbedire all’insegnamento e sottoporsi al governo del Vicario di Gesù Cristo.
E intanto sostengono che essi tratteranno ben volentieri con la chiesa romana ma con eguaglianza di diritti, cioè da pari a pari; e se così potessero fare ci vuol poco a supporre che agirebbero in modo che l’eventuale accordo non li costringesse al ripudio delle opinioni per cui vagano ancora erranti lontano dall’unico ovile di Cristo.
7. Stando così le cose, è evidente che non può la Sede Apostolica prendere parte a queste riunioni né è permesso in alcun modo ai cattolici aderire o prestar l’opera propria a tali iniziative; cosi facendo attribuirebbero autorità ad una falsa religione cristiana, assai diversa dall’unica Chiesa di Cristo. Ma potremo noi tollerare l’iniquissimo tentativo che la verità, e di più divinamente rivelata sia oggetto di transazioni?
Ché qui si tratta proprio della difesa della verità rivelata. Dal momento che Gesù mandò per il mondo intero a diffondere tra tutti la buona novella gli apostoli, dopo aver loro tolto, per mezzo del preventivo insegnamento di tutta la verità da parte dello Spirito Santo, ogni possibilità di errore, forse che cotesta dottrina apostolica è mai venuta del tutto meno o fu talvolta alterata, in quella chiesa di cui Dio stesso è guida e custode ?
E poteva il Signore, mentre dichiarò apertamente che il Vangelo non si riferiva solo ai tempi apostolici, ma abbracciava anche tutto il futuro, permettere un oscuramento progressivo dell’oggetto della fede, tale da trovarci a dover oggi tollerare opinioni contrastanti?
Ma se questo fosse vero bisognerebbe pur convenire bestemmiando che la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e la sua stessa perpetua permanenza nella Chiesa e fin la Predicazione di Cristo han perduto ormai da parecchi secoli ogni efficacia ed utilità.
Di più l’Unigenito Figlio di Dio quando ordinò ai suoi messi di evangelizzare tutto il mondo impose a tutti gli uomini il dovere di prestar fede alla verità insegnata da questi "testimoni preordinati da Dio" con la sanzione: "Chi crederà e sarà battezzato si salverà; e chi non crederà sarà dannato". Ora non si può nemmeno comprendere la portata e il valore di questo duplice precetto di insegnare cioè e di credere indispensabile al conseguimento dell’eterna salute, se non attraverso l’integra e chiara esposizione della dottrina evangelica fatta dalla Chiesa, e la sicurezza della sua infallibilità.
A questo riguardo sono pure fuori di strada quanti ammettono sì l’esistenza in terra di un deposito di verità, ma ne subordinano la conquista a così faticoso lavoro, con studi ed indagini tanto diuturne, che sì e no la vita di un uomo potrebbe bastare; come se Dio nella sua immensa bontà, avesse parlato per mezzo dei profeti e del proprio Unigenito perché solo pochi ed anziani conoscessero la verità da lui rivelata, e non per imporre norme di fede e di morale a guida e sostegno dell’uomo nel suo corso mortale.
8. Potrà sembrare che codesti "pancristiani" tutti occupati nell’unire le Chiese si propongano il nobilissimo scopo di diffondere e d’intensificare tra tutti i cristiani il senso della carità; ma come mai potrebbe la carità rivolgersi in danno della fede?
Nessuno certamente ignora che proprio Giovanni, l’apostolo della Carità, che pare nel suo vangelo aver svelato i secreti del Cuore Sacratissimo di Gesù e che sempre inculcava ai discepoli il nuovo comandamento: "Amatevi l’un l’altro", vietò ogni relazione con chi non professi piena ed incorrotta la fede di Cristo: "Chi viene a voi e non porta questa dottrina non accoglietelo in casa e non lo salutate nemmeno".
Quindi, basandosi la carità sulla fede integra e sincera, occorre che principalmente sul vincolo dell’unità della fede si polarizzino gli sforzi per riunire i figli di Cristo.
9. Come è dunque possibile concepire una società cristiana i cui singoli componenti siano liberi di ritenere, anche quando si tratta dell’oggetto della fede, il proprio modo di pensare e di giudicare benché contrario alle opinioni degli altri ?
E in che maniera, di grazia, armonizzerebbero a comporre una sola ed uguale unità di fedeli, uomini che seguono sentenze diverse! Come, per esempio, gli assertori della validità della sacra Tradizione, a fonte genuina della Rivelazione divina e quelli che la impugnano? Chi accetta l’origine divina della gerarchia ecclesiastica, coi suoi vescovi, sacerdoti e ministri, e chi la considera sorta mano a mano per le esigenze dei tempi e delle cose? Chi nella santissima Eucaristia, per la transustanziazione del pane e del vino, adora Cristo realmente presente e chi sostiene che ivi il Suo corpo è soltanto presente per la fede o per il segno e la virtù del Sacramento, chi nell’Eucaristia riconosce la natura di sacrificio e di sacramento e chi la giudica niente altro che memoria o rievocazione dell’Ultima Cena?
E come potranno star insieme le contrastanti dottrine sulla bontà e utilità delle preghiere ai santi prima fra tutti la Vergine Maria Madre di Dio che regnano insieme a Nostro Signore, e della venerazione alle loro immagini, e quelle per cui il culto dei santi non è lecito in quanto si oppone all’onore dovuto a Gesù Cristo "solo mediatore fra Dio e gli uomini"?
Date divergenze dottrinali così gravi e numerose non vediamo come si prepari la via a formare l’unità della Chiesa, mentre suoi requisiti essenziali sono un unico magistero, una unica legge del credere ed una sola fede.
Sappiamo invece benissimo che da tutto questo all’indifferenza religiosa ed al modernismo è breve il passo. Per quelli infatti che ne han miseramente subito il contagio, la verità dogmatica non è già assoluta ma relativa, proporzionata alle diverse esigenze di tempo e di luogo ed alle varie tendenze degli spiriti, non essendo basata sulla rivelazione immutabile ma sull’adattabilità alla vita.
Inoltre in materia di fede non si può assolutamente tollerare la distinzione posta tra articoli fondamentali e non fondamentali come se gli uni si imponessero a tutti e gli altri fossero lasciati all’arbitrio ed al gusto dei fedeli.
La virtù soprannaturale della fede che ha per causa formale l’autorità di Dio rivelante, non permette una simile distinzione. Sicché i veri cristiani prestano, per esempio, all’augusto mistero della Ss.ma Trinità uguale fede che a quello dell’Immacolata Concezione, e credono cosi all’Incarnazione del Verbo come all’infallibilità del Romano Pontefice, così come il Concilio Vaticano la definì.
Né per il fatto che le singole verità sono state definite e solennemente proclamate dalla Chiesa in tempi diversi ed anche recenti ne consegue una graduatoria nella loro certezza e credibilità. Forse non è sempre Dio che le rivelò?
Il Magistero Ecclesiastico infatti, stabilito per divina provvidenza nel mondo allo scopo di conservare intatti in perpetuo le verità rivelate e di diffonderne con facilità e sicurezza la conoscenza, per quanto si eserciti quotidianamente per mezzo del Sommo Pontefice e dei vescovi in comunione con Lui, abbraccia pure il compito di definire, con riti e solenni decreti, quei punti della Sacra dottrina che, per errori di eretici e controversie, occorre spiegare con ulteriore efficacia e chiarezza e ribadire nelle menti dei fedeli.
Però con questa forma straordinaria di insegnamento non si introducono invenzioni o comunque qualcosa di nuovo che venga ad aggiungersi alla somma delle verità almeno implicitamente contenute nel deposito della Rivelazione divina; si tratta invece o di chiarire punti che a taluni potrebbero rimanere tuttavia oscuri, o di dichiarare oggetto di fede verità prima ancora ritenute da taluno controverse.
10. Risulta quindi evidente, venerabili fratelli, il motivo del permanente divieto posto da questa Sede Apostolica ai fedeli di partecipare a riunioni degli acattolici. Ché l’unico modo possibile di favorire l’unità dei cristiani si è di agevolare il ritorno dei dissidenti alla unica vera Chiesa di Cristo, a tutti ben nota e, per volontà del proprio fondatore, destinata a rimaner in eterno tale come Egli la istituì per la comune salvezza di tutti. Che mai nel volgere dei secoli la mistica Sposa di Cristo fu contaminata né mai potrà contaminarsi secondo le belle parole di Cipriano: "Non può adulterarsi la Sposa di Cristo; è incorrotta e pudica; una sola casa conosce, di una sola stanza custodisce con casto pudore: la santità". E il medesimo santo martire bene a ragione si meravigliava che ci fosse qualcuno capace di credere che "questa unità proveniente dalla divina stabilità e saldata per mezzo dei sacramenti celesti possa nella Chiesa infrangersi ed esser sciolta per il dissenso di volontà discordanti".
Se infatti il mistico corpo di Cristo, cioè la Chiesa, è ben connesso e solidamente collegato come il fisico suo corpo, sarebbe sciocchezza fallace il dire che il mistico corpo si risolva in membri separati e distinti. Chiunque ad esso non è congiunto non può esserne membro né comunica con il capo che è Cristo. Ora nessuno partecipa a questa unica Chiesa di Cristo, come nessuno vi rimane, se non conoscendo ed accogliendo con l’obbedienza la suprema autorità di Pietro e dei suoi legittimi successori. Non fu forse al Vescovo di Roma che obbedirono gli antenati degli odierni seguaci degli errori di Fozio e dei Protestanti? I figli si allontanarono purtroppo dalla casa paterna ma non per questo essa andò in rovina sostenuta com’era dal continuo aiuto di Dio. Ritornino dunque al padre comune ed Egli dimentico delle precedenti ingiurie contro la Sede Apostolica li accoglierà con tutto l’affetto del cuore.
Ché se desiderano, come ripetono, unirsi con Noi e con i Nostri, perché non si affrettano a venire alla Chiesa " Madre e maestra di tutti i seguaci di Cristo?".
Ascoltino la dichiarazione di Lattanzio: "La sola... Chiesa Cattolica è quella che mantiene il culto vero. Questa è la fonte della verità, questa la dimora della Fede, questo il tempio di Dio. E chiunque non v’è entrato o ne sia uscito rimane privo della speranza di salvezza. Nessuno deve cercare d’ingannare sé stesso con dispute pertinaci: qui si tratta della vita, e se non vi si pensa e provvede, la si perde irreparabilmente".
Tornino dunque i Nostri figli dissidenti alla Sede Apostolica, posta nell’Urbe che i principi degli apostoli, Pietro e Paolo, consacrarono col loro sangue, alla sede "Radice e matrice della Chiesa cattolica": non già con l’idea o la speranza che la "Chiesa del Dio vivo, colonna e fondamento della verità" faccia getto dell’integrità della fede per tollerare i loro errori, ma per sottomettersi al suo magistero e governo.
11. Volesse il Cielo che toccasse a Noi di realizzare quanto non riuscì ai Nostri predecessori: di poter abbracciare con effusione paterna i figli di cui piangiamo il doloroso abbandono; così il Salvatore che vuol tutti gli uomini salvi e consapevoli della verità, ascoltando la nostra appassionata preghiera si degnasse di richiamare tutti gli erranti alla unità della Chiesa!
E per conseguire cosi difficile intento invochiamo, e vogliamo s’invochi, l’intercessione della Beata Vergine Maria Madre della grazia divina, vincitrice di ogni eresia ed aiuto dei cristiani, perché ci ottenga quanto prima il sorgere di quel desideratissimo giorno in cui tutti gli uomini udranno la voce del suo Figliolo divino "conservando nel vincolo della pace l’unità dello Spirito".
Voi ben comprendete, venerabili fratelli, quanto questo ritorno Ci stia a cuore e desideriamo che lo sappiano tutti i Nostri figli, non soltanto i cattolici ma anche quelli da Noi separati. E non v’è dubbio che se richiedono con umiltà di preghiera lumi celesti riconosceranno l’unica vera chiesa di Cristo e vi entreranno finalmente uniti con Noi in perfetta carità.
In questa attesa a voi, venerabili fratelli, al vostro clero e popolo impartiamo di cuore, auspicio di doni divini e conferma di benevolenza paterna, l’apostolica benedizione.

Data a Roma, presso S. Pietro, il 6 Gennaio 1928, Festa dell’Epifania di Nostro Signore Gesù Cristo, nell’anno VI del Nostro Pontificato



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Leone XIII (1878-1903)
Immortale Dei
Quell’immortale opera di Dio misericordioso che è la Chiesa, sebbene in sé e per sua natura si proponga come scopo la salvezza delle anime e il raggiungimento della felicità celeste, pure anche nel campo delle cose terrene reca tali e tanti benefìci, quali più numerosi e maggiori non potrebbe se fosse stata istituita al precipuo e prioritario scopo di tutelare e assicurare la prosperità di questa vita terrena. E veramente dovunque la Chiesa abbia posto piede ha immediatamente cambiato l’aspetto delle cose, ha instillato nei costumi dei popoli virtù prima sconosciute e una nuova civiltà: e i popoli che l’accolsero si distinsero per l’umanità, per l’equità, per le imprese gloriose. Eppure resiste quella tradizionale e oltraggiosa accusa secondo cui la Chiesa sarebbe in contrasto con gl’interessi dello Stato e del tutto incapace di dare un contributo a quelle esigenze di benessere e di decoro, cui a buon diritto e naturalmente tende ogni società ben ordinata. Sappiamo che fin dai primi tempi della Chiesa i cristiani erano perseguitati in nome di analogo, iniquo pregiudizio, e che si soleva anche additarli all’odio e al sospetto come nemici dell’impero: allora il popolo amava far ricadere sul nome cristiano la colpa di qualunque sventura si fosse abbattuta sullo Stato, quando invece era la giustizia di Dio che esigeva dai peccatori la dovuta espiazione delle loro scelleratezze. L’atrocità di simile calunnia giustamente armò l’ingegno ed affilò la penna di Agostino, il quale, particolarmente nella Città di Dio, illuminò di tanta luce l’efficacia della dottrina cristiana anche per quanto attiene alla vita sociale, che non sembra tanto aver difeso la causa dei cristiani del suo tempo, quanto aver riportato un trionfo imperituro su tutte le false calunnie. Non si placò tuttavia la funesta voglia di simili accuse e denigrazioni, e a moltissimi piacque attingere le norme del vivere sociale altrove piuttosto che dalle dottrine approvate dalla Chiesa cattolica. Anzi, in questi ultimi tempi cominciò a prevalere e a farsi dominante ovunque quello che chiamano nuovo diritto, che proclamano essere come il frutto di un secolo ormai adulto, maturato attraverso il progredire della libertà. Ma, per quanto molti si siano cimentati in tanti modi, appare chiaro che non è stato ancora trovato un metodo, per costituire e governare gli Stati, che sia migliore di quello che fiorisce spontaneamente dalla dottrina evangelica. Riteniamo pertanto di grande importanza e del tutto conforme al Nostro Ufficio Apostolico il confrontare le moderne teorie sociali con la dottrina cristiana: in tal modo confidiamo che, mentre si fa strada la verità, vengano meno i motivi di errore e incertezze, sicché chiunque possa facilmente discernere quelle fondamentali norme di condotta cui dovrà attenersi e obbedire.
Non è difficile stabilire quali sarebbero l’aspetto e la struttura di uno Stato che fosse governato sulla base dei principi cristiani. Il vivere in una società civile è insito nella natura stessa dell’uomo: e poiché egli non può, nell’isolamento, procurarsi né il vitto né il vestiario necessario alla vita, né raggiungere la perfezione intellettuale e morale, per disposizione provvidenziale nasce atto a congiungersi e a riunirsi con gli altri uomini, tanto nella società domestica quanto nella società civile, la quale sola può fornirgli tutto quanto basta perfettamente alla vita. E poiché non può reggersi alcuna società, senza qualcuno che sia a capo di tutti e che spinga ciascuno, con efficace e coerente impulso, verso un fine comune, ne consegue che alla convivenza civile è necessaria un’autorità che la governi: e questa, non diversamente dalla società, proviene dalla natura e perciò da Dio stesso. Ne consegue che il potere pubblico per se stesso non può provenire che da Dio. Solo Dio, infatti, è l’assoluto e supremo Signore delle cose, al quale tutto ciò che esiste deve sottostare e rendere onore: sicché chiunque sia investito del diritto d’imperio non lo riceve da altri se non da Dio, massimo Principe di tutti. Non v’è potere se non da Dio (Rm 13,1). Il diritto d’imperio, poi, non è di per sé legato necessariamente ad alcuna particolare forma di governo: questo potrà a buon diritto assumere l’una o l’altra forma, purché effettivamente idonea all’utilità e al bene pubblico. Ma in qualsiasi tipo di Stato i principi devono soprattutto tener fisso lo sguardo a Dio, sommo reggitore del mondo, e proporsi Lui quale modello e norma nel governo della comunità. Così come nelle cose visibili Dio creò le cause seconde perché vi si potessero scorgere in qualche modo la natura e l’azione divina, e perché indicassero il fine ultimo al quale sono dirette tutte le cose, allo stesso modo volle che nella società civile esistesse un potere sovrano, i cui depositari rimandassero in qualche modo l’immagine della potestà divina e della divina provvidenza sul genere umano. L’esercizio del potere deve quindi essere giusto, non da padrone, ma quasi paterno, poiché il potere di Dio sugli uomini è sommamente giusto e permeato di paterna benevolenza; deve essere esercitato in vista dell’utilità dei cittadini, poiché chi detiene il potere governa con quest’unico compito, di tutelare il bene dei cittadini. Né in alcun modo deve accadere che l’autorità civile serva l’interesse di uno o di pochi, una volta che è stata istituita per il bene comune. Ché se i governanti si abbandoneranno ad un ingiusto dominio, se peccheranno di durezza o di superbia, se non provvederanno adeguatamente al bene del popolo, sappiano che dovranno un giorno render ragione a Dio, e con tanta maggior severità, quanto più venerabile ufficio avranno ricoperto e più sublime dignità avranno conseguito. "I potenti saranno puniti duramente" (Sap 6,7). In tal modo il rispetto dignitoso e spontaneo dei cittadini si assocerà alla maestà del comando. Una volta persuasi, infatti, che l’autorità di chi governa proviene da Dio, si convinceranno che è giusto e doveroso seguire i dettami dei Principi e tributare loro ossequio e fiducia con quella sorta di devozione che i figli devono ai genitori. "Ogni anima sia soggetta alle sublimi potestà" (Rm 13,1). Spregiare il potere legittimo, in qualsiasi persona esso s’incarni, non è lecito più di quello che sia l’opporsi alla volontà divina: chi si oppone a questa, precipita in volontaria rovina. "Chi resiste all’autorità, resiste all’ordinamento divino; coloro che resisteranno si attireranno addosso la condanna" (Rm 5,2). Pertanto, rifiutare l’obbedienza, e con la violenza popolare provocare sedizioni, è crimine di lesa maestà non solo umana ma anche divina.
È chiaro che una società costituita su queste basi deve assolutamente soddisfare ai molti e solenni doveri che la stringono a Dio con pubbliche manifestazioni di culto. La natura e la ragione, che comandano ad ogni singolo individuo di tributare a Dio pii e devoti atti d’ossequio, poiché tutti siamo in Suo potere e tutti, da Lui originati, a Lui dobbiamo ritornare, impongono la stessa legge alla società civile. Gli uomini uniti in società non sono meno soggetti a Dio dei singoli individui, né la società ha minori doveri dei singoli verso Dio, per la cui volontà è sorta, per il cui assenso si conserva, dalla cui grazia ha ricevuto l’immenso cumulo di beni che possiede. Perciò, come a nessuno è lecito trascurare i propri doveri verso Dio – e il più importante di essi è professare la religione nei pensieri e nelle opere, e non quella che ciascuno preferisce, ma quella che Dio ha comandato e che per segni certi e indubitabili ha stabilito essere l’unica vera – allo stesso modo le società non possono, senza sacrilegio, condursi come se Dio non esistesse, o ignorare la religione come fosse una pratica estranea e di nessuna utilità, o accoglierne indifferentemente una a piacere tra le molte; ma al contrario devono, nell’onorare Dio, adottare quella forma e quei riti coi quali Dio stesso dimostrò di voler essere onorato. Santo deve dunque essere il nome di Dio per i Principi, i quali tra i loro più sacri doveri devono porre quello di favorire la religione, difenderla con la loro benevolenza, proteggerla con l’autorità e il consenso delle leggi, né adottare qualsiasi decisione o norma che sia contraria alla sua integrità.
È questo il loro dovere anche verso coloro che essi governano. Infatti noi tutti siamo uomini nati e cresciuti in vista di quel supremo ed ultimo bene al quale devono essere rivolti tutti i pensieri, il bene che è posto oltre questa fragile e breve vita, nei cieli. Ora, poiché da ciò dipende la completa e perfetta felicità degli uomini, il conseguire il fine di cui s’è detto è cosa di tale importanza per ognuno, che nulla può essere di maggior momento. È necessario dunque che la società civile, istituita per l’utilità comune, nel perseguire la prosperità dello Stato provveda a che i cittadini, nel loro cammino verso la conquista di quel sommo e immutabile bene al quale naturalmente tendono, non solo non vengano in alcun modo ostacolati, ma siano favoriti con ogni opportunità. La principale di queste è operare perché sia salva e inviolata la religione, i cui obblighi mantengono saldo il legame fra l’uomo e Dio.
Quale sia poi la vera religione, senza difficoltà può vedere chi giudichi con metro sereno e imparziale: poiché è evidente per moltissime e luminose prove, per la verità di indubitabili vaticinî, per la frequenza dei miracoli, per la diffusione straordinariamente rapida della fede anche in mezzo a nemici e fra gravissimi ostacoli, per la testimonianza dei martiri e per altre simili, che l’unica vera è quella che Gesù Cristo stesso ha fondato ed affidato alla sua Chiesa perché la difendesse e la propagasse.
Infatti l’Unigenito figlio di Dio istituì sulla terra quella società, che chiama Chiesa, alla quale trasmise, perché la continuasse nei secoli, l’eccelsa e divina missione, che Egli stesso aveva ricevuto dal Padre. "Come il Padre mandò me, anch’io mando voi" (Gv 20,21). "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Dunque, come Gesù Cristo venne sulla terra perché "gli uomini abbiano la vita e ne abbiano in abbondanza" (Gv 10,10), allo stesso modo la Chiesa si propone come fine la salvezza eterna delle anime; per questo motivo essa è tale, per sua natura, da offrirsi per abbracciare l’intero genere umano, senza limiti di tempi e di luoghi. "Predicate il Vangelo ad ogni creatura" (Mc 16,15). A una così vasta moltitudine di uomini Dio stesso assegnò magistrati con il potere di governarla: e tra tutti volle che uno fosse il primo, il supremo e infallibile maestro di verità, e a lui affidò le chiavi del regno dei cieli. "A te darò le chiavi del regno dei cieli" (Mt 16,19). "Pasci gli agnelli... pasci le pecore" (Gv 21,16-17). "Io pregai per te, perché non venga meno la tua fede" (Lc 22,32).
Questa società, sebbene sia composta di uomini non diversamente dalla società civile, tuttavia, per il fine al quale tende e per i mezzi di cui si serve per conseguirlo, ha carattere soprannaturale e spirituale, e in questo si distingue e differisce dalla società civile; ciò che soprattutto conta, essa è una società nel suo genere e nel suo assetto giuridico perfetta, dal momento che possiede, per volontà e grazia del suo fondatore, in sé e per se stessa tutti gli strumenti necessari al suo esistere e al suo operare. Come il fine al quale la Chiesa tende è di gran lunga il più nobile fra tutti, così la sua potestà è sopra ogni altra la più eminente, né può essere giudicata inferiore al potere civile, né essere in alcun modo ad esso sottoposta. In verità Gesù Cristo diede ai suoi Apostoli pieni poteri circa la conduzione delle cose sacre, aggiungendo sia la facoltà di emanare vere e proprie leggi, sia la doppia potestà, che da quella deriva, di giudicare e di punire. "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28.18-20). E altrove: "Se non li ascolterà, dillo alla Chiesa" (Mt 18,17). E ancora: "Siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza" (2Cor 10,6). E di nuovo: "Agirò con più durezza, secondo il potere che Dio mi diede, per edificare e non per distruggere" (2Cor 13,10). Pertanto non è alla società civile, ma alla Chiesa che spetta condurre gli uomini verso la meta celeste: a lei fu da Dio assegnato il compito di provvedere e deliberare sulle questioni religiose, di ammaestrare tutte le genti, di allargare quanto più possibile i confini del nome cristiano: in breve, di amministrare liberamente e senza impedimenti, a sua discrezione, il mondo cristiano. E invero questa autorità in sé assoluta e del tutto autonoma (che da tempo viene contestata da quella filosofia che si inchina ai Principi) la Chiesa non ha mai cessato di rivendicare per sé e di esercitare pubblicamente, visto che i primi a battezzarsi per essa furono gli Apostoli, i quali, quando i capi della Sinagoga proibivano loro di predicare il vangelo, rispondevano con fermezza: "È necessario obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (At 5,29). I Santi Padri della Chiesa si impegnarono a difendere tale autorità con efficaci argomenti quante volte ne ebbero l’occasione, e i Pontefici Romani non trascurarono mai di rivendicarla, con incrollabile fermezza d’animo, contro gli oppositori. Del resto gli stessi principi e capi di Stato, sia in teoria, sia in linea di fatto, l’hanno riconosciuta, dal momento che, stipulando trattati, concludendo transazioni, inviando e ricevendo legati, e con lo scambio di altre relazioni, hanno solitamente trattato con la Chiesa come con una legittima, suprema potestà. Né certamente si deve ritenere che ciò avvenisse senza un preciso disegno provvidenziale e che questa stessa potestà fosse munita di un principato civile, quale sicura garanzia della sua libertà.
Dunque Dio volle ripartito tra due poteri il governo del genere umano, cioè il potere ecclesiastico e quello civile, l’uno preposto alle cose divine, l’altro alle umane. Entrambi sono sovrani nella propria sfera; entrambi hanno limiti definiti alla propria azione, fissati dalla natura e dal fine immediato di ciascuno; sicché si può delimitare una sorta di orbita, all’interno della quale ciascuno agisce sulla base del proprio diritto. Ma poiché l’uno e l’altro potere si esercitano sugli stessi soggetti, e può accadere che una medesima cosa, per quanto in modi diversi, venga a cadere sotto la giurisdizione dell’uno e dell’altro, l’infinita Provvidenza divina, dalla quale sono stati entrambi stabiliti, deve pure aver composto in modo ordinato e armonioso le loro rispettive orbite, poiché "le autorità che esistono, sono stabilite da Dio" (Rm 13,1). Se non fosse così, nascerebbero spesso motivi di contrasti e di conflitti; e non di rado l’uomo dovrebbe restare turbato ed esitante, come di fronte a un bivio, incerto circa la via da scegliere, nel caso in cui gli giungessero ordini contrari da parte delle due potestà, al cui imperio non potrebbe sottrarsi senza venir meno al proprio dovere.
Ora, assolutamente ripugna il pensare questo della sapienza e della bontà di Dio, il quale anche nel campo dei fenomeni fisici, che sono di ordine tanto inferiore, pure conciliò tra loro le forze naturali e le loro leggi con un disegno razionale e quasi con una mirabile armonia di voci, tale per cui nessuna di esse disturbi le altre, e tutte insieme tendano concordemente e nel modo più consono al fine ultimo del mondo. Per questo è necessario che tra le due potestà esista una certa coordinazione, la quale viene giustamente paragonata a quella che collega l’anima e il corpo nell’uomo. Di quale natura e peso essa sia, poi, non si può altrimenti stabilire se non prendendo in considerazione, come s’è detto, la natura delle due potestà e ragionando sull’eccellenza e la nobiltà dei loro fini: come all’una spetti anzitutto ed essenzialmente la cura delle cose terrene, all’altra l’acquisizione dei beni celesti e sempiterni. Pertanto tutto ciò che nelle cose umane abbia in qualche modo a che fare col sacro, tutto ciò che riguardi la salvezza delle anime o il culto di Dio, che sia tale per sua natura o che tale appaia per il fine a cui si riferisce, tutto ciò cade sotto l’autorità e il giudizio della Chiesa: tutto il resto, che abbraccia la sfera civile e politica, è giusto che sia sottoposto all’autorità civile, poiché Gesù Cristo ha voluto che ciò che è di Cesare sia dato a Cesare e ciò che è di Dio a Dio. Accade poi talora che si trovi qualche nuovo modo per garantire la concordia e una tranquilla libertà, ed è quando i governanti e il Pontefice romano raggiungono un accordo su qualche questione particolare. In tali circostanze la Chiesa offre eccelse prove di materna bontà, ed è solita dimostrare la più generosa disponibilità e indulgenza.
Questa – quale l’abbiamo qui sommariamente delineata – è l’organizzazione cristiana della società civile, ideata non a caso o a capriccio, ma dedotta da supremi e verissimi principi che sono altresì confermati dalla stessa ragione naturale. Tale organizzazione sociale inoltre non presenta nulla che possa giudicarsi meno degno o disdicevole per la maestà dei Principi: non solo è ben lontana dallo sminuirne i diritti sovrani ma piuttosto li rende più saldi e augusti. Anzi, se si considera più a fondo, quella organizzazione possiede un grado di perfezione che manca a tutti gli altri sistemi sociali: da essa scaturirebbero certamente notevoli e svariati vantaggi, se ciascuna parte ricoprisse il ruolo che le conviene ed esercitasse pienamente il compito e la missione che le sono demandati.
Veramente, in quella forma di società che abbiamo esposto le cose divine e le umane sono armoniosamente ordinate: sono salvi i diritti dei cittadini, in quanto difesi col patrocinio delle leggi divine, naturali e umane; sono sapientemente definiti i singoli doveri ed è opportunamente regolato il loro adempimento. Ciascun individuo, nel suo incerto e faticoso viaggio verso l’eterna città celeste, sa di disporre di guide che lo sostengono nel cammino e lo aiutano a raggiungere la meta, ed ugualmente comprende che altre guide hanno il compito di procurargli o conservargli la sicurezza, le fortune e tutti gli altri beni sui quali poggia questa nostra vita terrena. La società domestica deriva quella solida stabilità che le conviene dalla santità del matrimonio uno e indivisibile; diritti e doveri sono regolati tra i coniugi con sapiente giustizia ed equità; alla donna è riservato il debito onore; l’autorità del marito è modellata su quella di Dio; la patria potestà è convenientemente temperata in considerazione della dignità della moglie e dei figli; infine si provvede alla giusta tutela, al benessere e all’educazione dei figli stessi. Nell’ambito politico e civile, le leggi hanno per oggetto il bene comune, e sono conformate non alla volontà e al fallace giudizio della moltitudine, ma alla verità e alla giustizia; l’autorità dei Principi riveste un carattere in certo modo sacro e sovrumano, e ha dei limiti perché non si allontani dalla giustizia né trascenda ad abusi nel comando; l’obbedienza dei cittadini si accompagna a decoro e dignità, poiché non si tratta di servitù di uomo ad uomo, ma di osservanza della volontà di Dio, che per mezzo di uomini esercita il proprio dominio. Quando tali concetti saranno stati accolti e assimilati, s’intenderà facilmente come sia unicamente atto di giustizia il rispettare la maestà dei Principi, il sottostare con costanza e lealtà ai pubblici poteri, il rifuggire da azioni sediziose, il preservare intatta la santa disciplina sociale. Similmente si annoverano tra i doveri la reciproca carità, la benevolenza, la liberalità; il cittadino che è anche cristiano non viene a trovarsi in contraddizione con se stesso a causa di precetti contrastanti; sono infine assicurati anche alla comunità e alla società civile quegli inestimabili beni, di cui la religione cristiana di per sé ricolma anche la vita terrena degli uomini: sicché emerge tutta la verità di quel detto: "Dalla religione, con la quale si onora Dio, dipendono le condizioni della società; tra l’una e l’altra intercorrono, per molti versi, un’affinità e una parentela" . Agostino ha parlato mirabilmente in più luoghi delle sue opere, dell’efficacia di questi beni, specialmente là dove si rivolge alla Chiesa cattolica con queste parole: "Tu addestri e ammaestri i fanciulli con mezzi adatti ai fanciulli, i giovani parlando loro con forza, i vecchi con calma, assecondando l’età non solo del corpo ma anche dello spirito. Tu spingi le mogli alla casta e fedele obbedienza verso i mariti non per il soddisfacimento delle passioni ma per la procreazione dei figli e per la salvaguardia della famiglia. Tu poni i mariti in posizione dominante rispetto alle mogli non perché sfruttino il sesso più debole, ma perché accettino il vincolo di un amore sincero. Tu sottoponi i figli ai genitori con una sorta di libera schiavitù, e concedi ai genitori un tenero dominio sui figli... Tu unisci i cittadini ai cittadini, i popoli ai popoli, e tutta l’umanità nel ricordo dei comuni progenitori, e li unisci non solo con vincoli sociali, ma anche con quelli di una certa fratellanza. Insegni ai re ad esser longanimi verso i popoli, e ammonisci i popoli a sottomettersi ai re. Sei sollecita ad insegnare a chi si debba onore, a chi affetto, a chi riverenza, a chi timore, a chi conforto, a chi ammonizione, a chi incoraggiamento, a chi correzione, a chi rimprovero, a chi punizione; mostrando come non a tutti si debbano le stesse cose, e come a tutti sia dovuta la carità, e a nessuno l’ingiustizia" . Lo stesso Agostino così condanna in un altro passo la pseudo sapienza dei filosofi che si atteggiano a politici: "Coloro che affermano che la dottrina di Cristo è nemica dello Stato, cerchino di costituire un esercito composto di soldati quali li vuole la dottrina di Cristo; ci diano governatori di province, mariti, mogli, genitori, figli, padroni, servi, re, giudici, perfino debitori ed esattori del fisco quali la dottrina cristiana impone di formare, e vedremo se oseranno ancora dirla nemica dello Stato, o se piuttosto non giungeranno ad affermare che essa, se attuata, sarebbe un valido sostegno per lo Stato" .
Vi fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava la società: allora la forza della sapienza cristiana e lo spirito divino erano penetrati nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in ogni ordine e settore dello Stato, quando la religione fondata da Gesù Cristo, collocata stabilmente a livello di dignità che le competeva, ovunque prosperava, col favore dei Principi e sotto la legittima tutela dei magistrati; quando sacerdozio e impero procedevano concordi e li univa un fausto vincolo di amichevoli e scambievoli servigi. La società trasse da tale ordinamento frutti inimmaginabili, la memoria dei quali dura e durerà, consegnata ad innumerevoli monumenti storici, che nessuna mala arte di nemici può contraffare od oscurare. Il fatto che l’Europa cristiana abbia domato i popoli barbari e li abbia tratti dalla ferocia alla mansuetudine, dalla superstizione alla verità; che abbia vittoriosamente respinto le invasioni dei Maomettani; che abbia tenuto il primato della civiltà; che abbia sempre saputo offrirsi agli altri popoli come guida e maestra per ogni onorevole impresa; che abbia donato veri e molteplici esempi di libertà ai popoli; che abbia con grande sapienza creato numerose istituzioni a sollievo delle umane miserie; per tutto ciò deve senza dubbio molta gratitudine alla religione, che ebbe auspice in tante imprese e che l’aiutò nel portarle a termine. E certamente tutti quei benefìci sarebbero durati, se fosse durata la concordia tra i due poteri: e a ragione se ne sarebbero potuti aspettare altri maggiori, se con maggiore fede e perseveranza ci si fosse inchinati all’autorità, al magistero, ai disegni della Chiesa. Si deve infatti attribuire il valore di legge eterna a quella grandissima sentenza scritta da Ivo di Chartres al pontefice Pasquale II: "Quando regno e sacerdozio procedono concordi, procede bene il governo del mondo, fiorisce e fruttifica la Chiesa. Se invece la concordia viene meno, non soltanto non crescono le piccole cose, ma anche le grandi volgono miseramente in rovina" .
Ma quel pernicioso e deplorevole spirito innovatore che si sviluppò nel sedicesimo secolo, volto dapprima a sconvolgere la religione cristiana, presto passò, con naturale progressione, alla filosofia, e da questa a tutti gli ordini della società civile. Da ciò si deve riconoscere la fonte delle più recenti teorie sfrenatamente liberali, senza dubbio elaborate durante i grandi rivolgimenti del secolo passato e proclamate come principi e fondamenti di un nuovo diritto, il quale non solo era sconosciuto in precedenza, ma per più di un aspetto si distacca sia dal diritto cristiano, sia dallo stesso diritto naturale. Di questi principi, il più importante afferma che tutti gli uomini, dal momento che sono ritenuti uguali per nascita e per natura, così sono effettivamente uguali tra loro anche nella vita pratica; pertanto ciascuno possiede un proprio diritto, tale da sottrarlo totalmente all’autorità altrui, sì da poter liberamente pensare ciò che vuole e agire a suo talento: nessuno ha il diritto di comandare agli altri. In una società basata su tali principi, la sovranità non consiste che nella volontà del popolo, il quale, come possiede da solo tutto il potere, così da solo si governa: sceglie di fatto alcuni a cui delegare il potere, ma in modo tale da trasferire in loro non tanto la sovranità, quanto una semplice funzione da esercitare in suo nome. Si tace dell’autorità divina, come se Dio non esistesse o non si desse alcun pensiero del genere umano; come se gli uomini, né singolarmente né collettivamente, non avessero alcun obbligo verso Dio, o come se si potesse concepire una sovranità, la cui origine, forza e autorità non derivassero totalmente da Dio. Appare evidente che in tal modo lo Stato non sarebbe nient’altro che la moltitudine arbitra e guida di se stessa; e poiché si afferma che il popolo contiene in se stesso la sorgente di ogni diritto e di ogni potere, di conseguenza la comunità non si riterrà vincolata ad alcun dovere verso Dio; non professerà pubblicamente alcuna religione; non vorrà privilegiarne una, ma riconoscerà alle varie confessioni uguali diritti affinché l’ordine pubblico non venga turbato. Coerentemente, si permetterà al singolo di giudicare secondo coscienza su ogni questione religiosa; a ciascuno sarà lecito seguire la religione che preferisce, o anche nessuna, se nessuna gli aggrada. Di qui nascono dunque libertà di coscienza per chiunque, libertà di culto, illimitata libertà di pensiero e di stampa.
Posti a fondamento dello Stato questi principi, che tanto favore godono ai giorni nostri, si comprende facilmente in quali e quanto inique condizioni venga costretta la Chiesa. Infatti, ove l’azione pratica si conformi a queste dottrine, alla religione cattolica viene riconosciuto nello Stato un ruolo uguale o anche inferiore a quello dei culti a lei estranei; non vi sarà alcuna considerazione per le leggi ecclesiastiche; alla Chiesa, che pure per volontà di Gesù Cristo ebbe la missione di insegnare a tutte le genti, sarà negata ogni ingerenza nell’istruzione pubblica.
Anche nelle questioni di diritto misto, le autorità civili deliberano da sé, in totale autonomia, e in tale materia ignorano con arroganza le leggi santissime della Chiesa. Quindi annettono alla propria giurisdizione i matrimoni cristiani, legiferando anche sul vincolo coniugale, sulla sua unità e sulla sua stabilità; alienano le proprietà ecclesiastiche, negando alla Chiesa il diritto di possedere. Insomma, si comportano con la Chiesa disconoscendone il carattere di società giuridicamente perfetta, ponendola sullo stesso piano di tutte le altre associazioni che operano nello Stato: e se le rimane qualche diritto, qualche legittima libertà d’azione, si afferma che li possiede per concessione e benignità dell’autorità civile. Se poi si tratta di uno Stato, nel quale la Chiesa abbia riconosciuti i propri diritti dalle stesse leggi civili, e fra i due poteri esista una convenzione pubblicamente ratificata, sostengono il principio della necessaria separazione della Chiesa dallo Stato; e ciò allo scopo di poter impunemente violare la fede data, e di poter deliberare su tutto liberamente, senza vincoli. E poiché la Chiesa non può tollerare ciò, né può mancare ai suoi sacrosanti e solenni doveri, e quindi pretende che i patti sanciti siano scrupolosamente e integralmente osservati, spesso nascono dissidi tra il potere civile e quello ecclesiastico: dissidi che generalmente vedono soccombere – fra i due contendenti – quello che dispone di minori armi umane di fronte al più forte.
Così in questo tipo di convenzione oggi vagheggiata dai più, ci sono la tendenza e la volontà o di liberarsi del tutto della Chiesa, o di tenerla in ceppi e soggiogata. Gran parte dell’attività di governo mira a questo. Le leggi, l’amministrazione, l’insegnamento laico, la spoliazione e lo scioglimento degli ordini religiosi, la distruzione del potere temporale dei Pontefici, tutto tende a indebolire l’influenza delle istituzioni cristiane, a coartare la libertà della Chiesa, a lederne ogni altro diritto.
Ora, è sufficiente la semplice ragione naturale per dimostrare come siffatte teorie sul governo delle comunità siano assai lontane dalla verità. È la stessa natura che testimonia come qualsiasi potere derivi dalla più alta e augusta delle fonti, che è Dio. La sovranità popolare che si afferma insita per natura nella moltitudine indipendentemente da Dio, se serve ottimamente ad offrire lusinghe e ad infiammare grandi passioni, non ha in realtà alcun plausibile fondamento, né possiede abbastanza forza per assicurare uno stabile e tranquillo ordine sociale. In verità a causa di tali dottrine si è giunti al punto che da molti si sostiene la legittimità della rivoluzione, vista come giusto strumento di lotta politica. È forte infatti la convinzione che i Principi non siano nulla più che semplici delegati ad eseguire la volontà popolare: ne consegue necessariamente che tutti gli ordinamenti sono ugualmente mutabili a discrezione del popolo, e incombe il continuo timore di disordini.
In materia di religione, poi reputare che non vi sia sostanziale differenza tra eterogenee e contrarie forme di confessioni, conduce chiaramente a non volerne accettare né praticare alcuna. E questo atteggiamento, anche se gli si dà un nome diverso, in sostanza non è nient’altro che ateismo. Che infatti è convinto dell’esistenza di Dio, se vuole essere logico e non affermare assurdità, capisce necessariamente che le forme di culto esistenti, così diverse e contrastanti tra loro anche su questioni della massima importanza, non possono essere tutte ugualmente credibili, ugualmente vere, ugualmente accette a Dio. Allo stesso modo una libertà di pensiero e di espressione che sia totalmente esente da vincoli in assoluto non è un bene di cui la società umana abbia ragione di rallegrarsi: è al contrario fonte e origine di molti mali. La libertà, come virtù che perfeziona l’uomo, deve applicarsi al vero e al bene; la natura del vero e del bene non può mutare ad arbitrio dell’uomo, ma rimane sempre la stessa, e non è meno immutabile dell’intima natura delle cose. Se la mente accoglie false opinioni, se la volontà sceglie il male e vi si dedica, l’una e l’altra, lungi dall’operare per il proprio perfezionamento, perdono la loro naturale dignità e si corrompono. Ciò che è contrario alla virtù e alla verità, dunque, non deve essere posto in evidenza ed esibito: molto meno, difeso e tutelato dalle leggi. La sola vita virtuosa apre la via verso il cielo, cui tutti tendiamo: per questo lo Stato si discosta da una norma e da una legge di natura, se consente che una sfrenata e perversa libertà di pensiero e d’azione giunga a distogliere impunemente dalla verità le menti e dalla virtù gli spiriti.
È grande e deleterio errore escludere la Chiesa, che Dio stesso ha fondato, dalla vita pubblica, dalle leggi, dall’educazione dei giovani, dalla famiglia. Non possono esservi buoni costumi in una società cui sia stata tolta la religione: e si sa ormai anche troppo bene in che consista, e a che porti quella filosofia di vita e di costumi che chiamano civile. La Chiesa di Cristo è vera maestra di virtù e custode della buona condotta: essa è colei che mantiene fermi i principi dai quali derivano i doveri, e che, esposti i più efficaci motivi per vivere virtuosamente non solo ammonisce a fuggire le azioni malvagie, ma a controllare altresì i moti dell’animo contrari alla ragione, anche quelli che non sfociano in azioni concrete.
È davvero una grande ingiustizia e una grande sconsideratezza il volere sottoporre la Chiesa all’autorità civile nell’adempimento dei suoi doveri. Con ciò l’ordine viene sovvertito, dal momento che si antepongono le cose naturali alle soprannaturali: si distrugge, o almeno si sminuisce assai la dovizia di beni dei quali, se non ostacolata, a chiesa colmerebbe la vita terrena; per di più si apre la via ad ostilità e conflitti, e fin troppo spesso gli eventi hanno dimostrato quanto danno ciò porti sia alla società civile, sia a quella religiosa.
Siffatte dottrine, che nemmeno dalla ragione umana possono essere approvate, e che tanto peso hanno sull’ordinamento civile, i Pontefici romani Nostri Predecessori, ben comprendendo quale fosse il loro dovere apostolico, non consentirono che potessero circolare impunemente. Così Gregorio XVI nell’Enciclica Mirari vos del 15 agosto 1832 colpì con parole durissime quelle teoriche che già venivano diffondendosi e secondo le quali non è necessario operare una scelta in materia di religione: è diritto di ciascuno professare qualsiasi fede gli aggradi; per ciascuno il solo giudice è la coscienza; inoltre è lecito proclamare qualsiasi opinione, e ordire rivolte contro lo Stato. Circa la separazione della Chiesa dallo Stato lo stesso Pontefice così si esprimeva: "Né più lieti successi potremmo presagire per la Religione e il Principato dai voti di coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno, e troncata la mutua concordia dell’Impero col Sacerdozio. È troppo chiaro che dai sostenitori di una impudentissima libertà si teme quella concordia che fu sempre fausta e salutare al governo sacro e a quello civile".
Non diversamente Pio IX, ogni volta che ne ebbe l’occasione, annotò molte false teorie che riscuotevano maggior credito, e in un secondo tempo ordinò che esse venissero raccolte tutte insieme, affinché nel dilagare di tanti errori i cattolici avessero una guida sicura .
Dalle citate dichiarazioni dei Pontefici è dunque necessario dedurre che l’origine della potestà civile è in Dio, non nel popolo; che la libertà di ribellione contrasta con la logica; che il non tenere in alcun conto i doveri religiosi, o essere indifferenti alle varie forme di culto, non è lecito né ai singoli individui né agli Stati: che la smodata libertà di pensiero e di espressione non può annoverarsi tra i diritti dei cittadini né in alcun modo tra i privilegi degni di tutela e di protezione. Similmente si deve ritenere che la Chiesa sia una società perfetta nella sua peculiare natura e nel suo assetto giuridico non meno di quella civile, e che al potere statale non deve essere consentito di sottomettere e subordinare a se stesso la Chiesa, o di limitarne l’azione, o di sottrarle uno qualsiasi degli altri diritti che da Gesù Cristo le sono stati conferiti. Nelle questioni di diritto misto, ciò che si conforma alla natura e al disegno divino non è la separazione di un potere dall’altro, e molto meno il conflitto tra loro, ma una piena concordia, coerente con le finalità che sono all’origine di entrambe le società.
Sono queste dunque le norme fissate dalla Chiesa cattolica circa la costituzione e il governo degli Stati. Nondimeno, se si vuole giudicare con obiettività, con tali prescrizioni e decreti non s’intende condannare alcuna delle varie forme di governo, quando esse non abbiano in sé nulla che ripugni alla dottrina cattolica e possano, se applicate con saggezza ed equità, dare un ottimo e stabile assetto alla società. Anzi, non s’intende condannare in sé neppure il fatto che il popolo partecipi, in maggiore o minore misura, alla vita pubblica: il che può rappresentare in certe circostanze e con precise leggi, non solo un vantaggio ma anche un dovere civile. Ancora, non v’è neppure valido motivo per accusare la Chiesa di essere restia più del giusto ad una benevola tolleranza, o nemica di un’autentica e legittima libertà. In realtà, se la Chiesa giudica che non sia lecito concedere ai vari culti religiosi la stessa condizione giuridica che compete alla vera religione, pure non condanna quei governi che, per qualche grave situazione, mirando o ad ottenere un bene, o ad impedire un male, tollerino di fatto diversi culti nel loro Stato.
Così pure la Chiesa vuole assolutamente evitare che chiunque sia costretto, suo malgrado, ad abbracciare la fede cattolica, perché, come saggiamente ammonisce Agostino, "l’uomo non può credere se non spontaneamente" . Similmente la Chiesa non può consentire quella libertà che induce al disprezzo delle leggi santissime di Dio e sopprime la doverosa obbedienza all’autorità legittima. Infatti, questa è piuttosto licenza che libertà; e felicemente viene definita da Agostino "libertà di perdizione" ; dall’Apostolo Pietro "velo di malizia" (1Pt 2,16); anzi, essendo irrazionale, diviene vera schiavitù; "poiché chi fa peccato è schiavo del peccato" (Gv 8,34). Al contrario, la libertà autentica e desiderabile è quella che, nella sfera privata, non permette all’individuo di essere schiavo degli errori e delle passioni, terribili padroni, e che nella sfera pubblica governa saggiamente i cittadini, offre loro con larghezza le opportunità per migliorare la propria condizione, difende lo Stato dalle sopraffazioni altrui. La Chiesa, più di chiunque altro, approva questa libertà onesta e degna dell’uomo, né ha mai cessato di adoperarsi e di lottare perché ai popoli fosse garantita salda e integra. E veramente la storia dei secoli passati testimonia come tutto ciò che più giova alla difesa della società civile, tutti i mezzi più efficaci a difendere il popolo dal dispotismo dei Principi, ad impedire che lo Stato si intrometta pesantemente nelle amministrazioni municipali e della famiglia, tutte le leggi più utili a salvaguardare la dignità, il rispetto della persona, l’uguaglianza dei diritti dei singoli cittadini, tutto ciò è sempre stato voluto, o favorito, o tutelato dalla Chiesa cattolica. Essa dunque, con perfetta coerenza, se da una parte respinge una libertà smodata, che degenera in licenza o in schiavitù sia per i singoli che per la collettività, dall’altra guarda con favore e accoglie volentieri i progressi che il tempo arreca, se veramente giovano alla felicità di questa vita, la quale è come un percorso che conduce all’altra della durata eterna.
Ciò che si va dicendo, dunque, che la Chiesa sia ostile alle più recenti costituzioni civili, e che rifiuti tutti indistintamente i ritrovati della scienza contemporanea, non è che una vana e meschina calunnia. Certamente essa ripudia le teorie malsane: disapprova le nefaste smanie rivoluzionarie e segnatamente quella disposizione d’animo nella quale si può cogliere l’inizio di un volontario allontanamento da Dio; ma poiché tutto ciò che è vero proviene necessariamente da Dio, così ogni particella di vero che sia scoperta durante la ricerca è riconosciuta dalla Chiesa come impronta della mente divina. E poiché non può esistere alcuna verità naturale che possa ridurre la credibilità delle dottrine rivelate, mentre molte altre l’accrescono, ed ogni scoperta di nuove verità può indurre a conoscere e a lodare Dio, così la Chiesa accoglierà sempre con gioia e diletto qualsiasi progresso giunga ad allargare i confini della scienza, e con l’usato fervore promuoverà e favorirà, come le altre discipline, anche quelle che hanno per oggetto la spiegazione dei fenomeni naturali. A proposito di questi studi, la Chiesa non avversa le nuove invenzioni: non si dispiace che altre se ne ritrovino, in grado di rendere migliore e più piacevole l’esistenza; anzi, nemica dell’ozio e dell’inerzia, si compiace assai che l’ingegno umano, mediante l’esercizio e la cultura, produca i frutti più copiosi; incoraggia ogni specie di arti e di mestieri: e mentre con la sua virtù indirizza tutte queste occupazioni a scopi onesti e benèfici, si adopera ad impedire che l’uomo a seguito dello studio e del lavoro, perda di vista Dio e i beni terreni.
Ma le osservazioni esposte, sebbene tanto ragionevoli e sagge, incontrano scarso favore ai nostri giorni, in quanto le società non solo rifiutano di far riferimento al modello della sapienza cristiana, ma anzi sembrano volersene vieppiù allontanare ogni giorno. Nondimeno, poiché la verità, una volta messa in luce, suole espandersi naturalmente per ogni dove e insinuarsi gradualmente nell’intelletto umano, così Noi, mossi dalla consapevolezza del supremo e sacrosanto ufficio, cioè dalla missione Apostolica che esercitiamo su tutte le genti, proclamiamo, com’è Nostro dovere, la verità; non perché non abbiamo ben presenti le tendenze del nostro tempo, o giudichiamo che si debbano rifiutare gli onesti e utili progressi dell’età nostra, ma perché vorremmo più sicuro dalle insidie il cammino delle società e più solide le loro fondamenta, e ciò senza minare la genuina libertà dei popoli: tra gli uomini, infatti, madre e sicura custode della libertà è la verità: "La verità vi renderà liberi" (Gv 8,32).
Pertanto, se in così difficili frangenti i cattolici daranno ascolto, com’è loro dovere, alle Nostre parole, si renderanno chiaramente conto di quali siano i compiti di ciascuno, sia nel campo delle idee, sia in quello delle azioni. Riguardo alle idee, è necessario tenere saldi nella mente, con intima adesione, tutti gli insegnamenti passati e futuri dei romani Pontefici, nonché essere pronti a professarli apertamente ogni volta che appaia opportuno. E particolarmente riguardo a quelle cosiddette libertà alle quali si aspira nei tempi più recenti, conviene che ciascuno si attenga al giudizio della Sede Apostolica e che pensi in totale accordo con essa. Occorre stare attenti a non farsi trarre in inganno dalla loro apparente onestà, tener presente da quali premesse traggono origine e da quali confuse passioni sono rinvigorite e alimentate. Ormai si sa abbastanza, per esperienza, quali effetti esse abbiano sulla società, poiché esse hanno ovunque prodotto frutti, dei quali i saggi e gli onesti a ragione si rammaricano.
Nel caso che esista realmente da qualche parte, o si immagini, una comunità nella quale il nome cristiano sia perseguitato con leggi proterve e tiranniche, se ad essa si paragona il moderno sistema di governo di cui parliamo, questo potrà risultare più tollerabile. Tuttavia i principi su cui si fonda sono certamente di per sé, come abbiamo detto, tali da non meritare che riprovazione.
Quanto all’azione, essa può interessare la sfera privata e domestica, oppure la sfera pubblica. Nell’ambito individuale il primo dovere è di conformare la vita e la condotta, col massimo scrupolo, ai precetti evangelici, senza sottrarvisi nemmeno quando la virtù cristiana esiga qualche più arduo esercizio di pazienza e di sopportazione. Si deve inoltre amare la Chiesa come una madre comune; osservarne fedelmente le leggi, averne a cuore l’onore, e salvaguardarne i diritti; adoperarsi perché sia amata e rispettata con pari devozione da coloro sui quali ci si trovi ad esercitare qualche forma di autorità. È inoltre di pubblico interesse che il singolo dia un saggio contributo all’amministrazione cittadina, e in particolare si adoperi a far sì che la comunità provveda all’educazione religiosa e morale degli adolescenti nel modo più consono ai principi cristiani: condizione dalla quale dipende in gran parte il benessere delle singole comunità. Allo stesso modo, è generalmente utile e opportuno che la partecipazione dei cattolici si estenda da questo campo più ristretto fino a comprendere il più vasto ambito dello Stato. Diciamo generalmente, perché questi Nostri insegnamenti si rivolgono a tutti i popoli. Ora può accadere in qualche luogo che, per cause molto gravi e fondate, non sia affatto conveniente prendere parte alla vita pubblica e assumere incarichi politici. Ma generalmente, come abbiamo detto, l’astenersi del tutto dal partecipare alla vita politica sarebbe altrettanto colpevole quanto negare il proprio contributo operoso al bene comune: tanto più in quanto i cattolici, proprio in ragione della dottrina che professano, sono impegnati ad agire con particolare scrupolo e integrità. Per contro, se essi si tengono in disparte, prenderanno facilmente il potere uomini, le cui opinioni danno ben poco affidamento di poter giovare allo Stato. E ciò sarebbe dannoso anche per la religione, poiché acquisterebbero moltissimo potere coloro che osteggiano la Chiesa, pochissimo quelli che l’amano. È quindi evidente come i cattolici abbiano validi motivi per prendere parte alla vita politica: essi non lo fanno né lo debbono fare per assecondare quanto vi è di riprovevole nei metodi di governo attuali, ma per rivolgere questi stessi metodi, ogni volta che sia possibile, al vero e autentico bene pubblico, con il proposito di infondere in tutte le vene del corpo sociale, come linfa e sangue donatore di vita, la sapienza e la forza benefica della religione cattolica. Non diversamente accadde nei primi secoli dell’era cristiana. I principi e lo spirito dei popoli pagani erano allora quanto mai lontani dallo spirito e dai principi evangelici; tuttavia era dato vedere i cristiani, in mezzo alla superstizione, incorrotti e sempre coerenti con se stessi, introdursi animosamente ovunque intravedessero un varco. Esempio di fedeltà ai principi, obbedienti all’imperio delle leggi fino a che ciò non fosse in contrasto con la legge divina, diffondevano in ogni luogo un mirabile splendore di santità; si impegnavano ad aiutare i fratelli, a convertire tutti gli altri alla sapienza di Cristo, pronti tuttavia a ritirarsi e ad affrontare intrepidamente la morte, qualora non fosse stato loro possibile conservare gli onori, le magistrature e i comandi senza venir meno alla virtù. In tal modo fecero sì che il cristianesimo penetrasse rapidamente non solo nelle famiglie, ma anche nell’esercito, nel Senato e nello stesso palazzo imperiale. "Siamo nati ieri, ed abbiamo riempito ogni vostro luogo, città, isole, castelli, municipi, assemblee, gli stessi accampamenti, le tribù, le decurie, il palazzo, il Senato, il foro" , sicché la fede cristiana, quando la legge consentì la pubblica professione del Vangelo, apparve non come creatura ai primi vagiti e in culla, ma adulta e già sicura in un considerevole numero di città.
Ora, veramente, i nostri tempi richiedono che tali esempi dei nostri padri siano riproposti. I cattolici, quanti sono degni di questo nome, devono anzitutto essere e manifestarsi apertamente figli amorosissimi della Chiesa, respingere senza esitazione tutto ciò che non possa conciliarsi con tale professione, servirsi delle istituzioni pubbliche, ogni volta che possano onestamente farlo, a difesa della verità e della giustizia, adoperarsi perché la libertà d’agire non travalichi i limiti stabiliti dalle leggi di natura e divine, contribuire a far sì che tutta la società si uniformi a quel modello e a quell’ideale cristiano che abbiamo descritto. Non è facile indicare un metodo certo e valido universalmente per realizzare tali propositi, dovendo esso adeguarsi a circostanze di tempo e di luogo che sono assai diverse tra loro. Nondimeno si dovrà anzitutto aver cura di conservare la concordia nelle volontà e l’uniformità nell’azione. L’una e l’altra si potranno pienamente raggiungere, se ciascuno si proporrà come norma di vita le prescrizioni della Sede Apostolica e se asseconderà i Vescovi, che "lo Spirito Santo pose a reggere la Chiesa di Dio" (At 20,28). La difesa poi del nome cattolico postula la necessità che, nel professare le dottrine tramandate dalla Chiesa, siano in tutti un solo sentire e un’incrollabile fermezza; su questo fronte occorre guardarsi dall’essere in alcun modo conniventi con le false opinioni, o dal resistere ad esse più debolmente di quanto non richieda la verità. Riguardo alle teorie opinabili, si potrà disputare con moderazione e con l’intento di ricercare la verità, evitando peraltro i sospetti ingiuriosi e le reciproche denigrazioni. A questo proposito, affinché accuse sconsiderate non mettano in forse la concordia degli animi, tutti tengano a mente alcuni punti fermi: che l’integrità della professione cattolica non può in alcun modo conciliarsi con opinioni che si aprano al Naturalismo o al Razionalismo, il cui intento è sostanzialmente quello di distruggere dalle fondamenta la concezione cristiana e di stabilire nella società il primato dell’uomo, dopo aver scalzato quello di Dio. Parimenti non è lecito tenere in privato una linea di condotta e in pubblico un’altra, cioè riconoscere l’autorità della Chiesa nella vita privata e sconfessarla in pubblico. Ciò significherebbe coniugare cose turpi e oneste, e accendere nell’uomo un conflitto interiore, mentre è doveroso essere sempre coerenti con se stessi e non allontanarsi mai, in alcuna situazione o scelta di vita, dalla virtù cristiana.
Quando poi ci si interroghi su questioni meramente politiche, quali la miglior forma di governo, oppure i diversi sistemi amministrativi, su simili temi può senz’altro esservi legittima discordanza di opinioni. A coloro dunque di cui siano ben note altrimenti la fede e la propensione ad accogliere devotamente i decreti della Sede Apostolica, non sarebbe giusto muovere accuse per un’opinione discorde sugli argomenti testé accennati; e ancor più ingiusto sarebbe accusarli di lesa o dubbia fede cattolica, com’è accaduto, con Nostro rammarico, più di una volta. Queste raccomandazioni siano tenute bene in mente da coloro che usano affidare ai libri le loro idee e soprattutto dai giornalisti. Nell’attuale conflitto su argomenti di capitale importanza, non v’è posto per discordie intestine o per passioni di parte, ma tutti devono, con unanimità e fervore d’intenti, cooperare a quello che è il proposito comune, cioè agire per la salvezza della religione e dello Stato. Se dunque vi fu qualche dissidio nel passato, occorre sforzarsi di cancellarlo con l’oblio; se vi fu qualche leggerezza, qualche sopruso, a chiunque sia da ascrivere la colpa, si dovrà riparare con la mutua carità, e riscattare con un particolare atto di ossequio da parte di tutti verso la Sede Apostolica. Per questa via i cattolici conseguiranno due preziosi risultati: quello di collaborare con la Chiesa nella salvaguardia e nella diffusione della sapienza cristiana, e quello di esercitare un’azione grandemente benefica sulla società civile, la cui salute è esposta a grave pericolo a causa di dottrine e passioni malvagie.
Ecco, Venerabili Fratelli, quanto abbiamo ritenuto di affidare alla riflessione delle genti cattoliche intorno alla costituzione cristiana delle società, e ai doveri dei singoli cittadini.
Quanto al resto, dobbiamo invocare con ardenti preghiere l’aiuto celeste, e pregare Dio che conduca Egli stesso a felice compimento i Nostri voti e i Nostri sforzi tesi alla sua gloria e alla comune salvezza del genere umano, Egli che può illuminare la mente e dar forza alla volontà degli uomini. Come auspicio dei doni divini e prova della Nostra paterna benevolenza, impartiamo affettuosamente a voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo affidato alle vostre vigili cure nel nome del Signore, l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° novembre 1885, anno ottavo del Nostro Pontificato.


 






         
PIO PP. XII
SERVO DEI SERVI DI DIO
LETTERA ENCICLICA
HUMANI GENERIS
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE.
"CIRCA ALCUNE FALSE OPINIONI CHE MINACCIANO
DI SOVVERTIRE I FONDAMENTI DELLA DOTTRINA CATTOLICA"
 
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE
Introduzione
I dissensi e gli errori degli uomini in materia religiosa e morale, per tutti gli onesti, soprattutto per i sinceri e fedeli figli della Chiesa, sono sempre stati origine e causa di fortissimo dolore, ma specialmente oggi, quando vediamo come da ogni parte vengano offesi gli stessi principi della cultura cristiana.
Veramente non c'è da meravigliarsi, se fuori dell'ovile di Cristo sempre vi sono stati questi dissensi ed errori. Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere. Le verità che riguardano Dio e le relazioni tra gli uomini e Dio trascendono del tutto l'ordine delle cose sensibili; quando poi si fanno entrare nella pratica della vita e la informano, allora richiedono sacrificio e abnegazione.
Nel raggiungere tali verità, l'intelletto umano incontra ostacoli della fantasia, sia per le cattive passioni provenienti dal peccato originale. Avviene che gli uomini in queste cose volentieri si persuadono che sia falso, o almeno dubbio, ciò che essi "non vogliono che sia vero". Per questi motivi si deve dire che la Rivelazione divina è moralmente necessaria affinché quelle verità che in materia religiosa e morale non sono per sé irraggiungibili, si possano da tutti conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore. (Conc. Vat. D. B. 1876, Cost. "De fide Cath.", cap. II, De revelatione).
Anzi la mente umana qualche volta può trovare difficoltà anche nel formarsi un giudizio certo di credibilità circa la fede cattolica, benché da Dio siano stati disposti tanti e mirabili segni esterni, per cui anche con la sola luce naturale della ragione si può provare con certezza l'origine divina della religione cristiana. L'uomo infatti, sia perché guidato da pregiudizi, sia perché istigato da passioni e da cattiva volontà, non solo può negare la chiara evidenza dei segni esterni, ma anche resistere alle ispirazioni che Dio infonde nelle nostre anime.
Chiunque osservi il mondo odierno, che è fuori dell'ovile di Cristo, facilmente potrà vedere le principali vie per le quali i dotti si sono incamminati. Alcuni, senza prudenza né discernimento, ammettono e fanno valere per origine di tutte le cose il sistema evoluzionistico, pur non essendo esso indiscutibilmente provato nel campo stesso delle scienze naturali, e con temerarietà sostengono l'ipotesi monistica e panteistica dell'universo soggetto a continua evoluzione. Di quest’ipotesi volentieri si servono i fautori del comunismo per farsi difensori e propagandisti del loro materialismo dialettico e togliere dalle menti ogni nozione di Dio.
Le false affermazioni di siffatto evoluzionismo, per cui viene ripudiato quanto vi è di assoluto, fermo ed immutabile, hanno preparato la strada alle aberrazioni di una nuova filosofia che, facendo concorrenza all'idealismo, all'immanentismo e al pragmatismo, ha preso il nome di "esistenzialismo" perché, ripudiate le essenze immutabili delle cose, si preoccupa solo della "esistenza" dei singoli individui.
Si aggiunge a ciò un falso "storicismo" che si attiene solo agli eventi della vita umana e rovina le fondamenta di qualsiasi verità e legge assoluta sia nel campo della filosofia, sia in quello dei dogmi cristiani.
In tanta confusione di opinioni, Ci reca un po' di consolazione il vedere coloro che un tempo erano stati educati nei principî del razionalismo, ritornare oggi, non di rado, alle sorgenti della verità rivelata, e riconoscere e professare la parola di Dio, conservata nella Sacra Scrittura, come fondamento della Teologia. Nello stesso tempo però reca dispiacere il fatto che non pochi di essi, quanto più fermamente aderiscono alla parola di Dio, tanto più sminuiscono il valore della ragione umana, e quanto più volentieri innalzano l'autorità di Dio Rivelatore, tanto più aspramente disprezzano il Magistero della Chiesa, istituito da Cristo Signore per custodire e interpretare le verità rivelate da Dio. Questo disprezzo non solo è in aperta contraddizione con la Sacra Scrittura, ma si manifesta falso anche con la stessa esperienza. Poiché frequentemente gli stessi "dissidenti" si lamentano in pubblico della discordia che regna fra di loro nel campo dogmatico, cosicché, pur senza volerlo, riconoscono la necessità di un vivo Magistero.
Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi e dai teologi cattolici, che hanno il grave còmpito di difendere le verità divine ed umane e di farle penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono bene conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un po' di verità, sia infine, perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche che teologiche.
Se i nostri cultori di filosofia e di teologia da queste dottrine, esaminate con cautela, cercassero solo di cogliere i detti frutti, non vi sarebbe motivo perché il Magistero della Chiesa avesse a interloquire. Ma, benché Noi sappiamo bene che gli insegnanti e i dotti cattolici in genere si guardano da tali errori, è noto però che non mancano nemmeno oggi, come ai tempi apostolici, coloro che, amanti più del conveniente delle novità e timorosi di essere ritenuti ignoranti delle scoperte fatte dalla scienza in quest'epoca di progresso, cercano di sottrarsi alla direzione del sacro Magistero e perciò sono nel pericolo di allontanarsi insensibilmente dalle verità Rivelate e di trarre in errore anche gli altri.
Si nota poi un altro pericolo, e tanto più grave, perché si copre maggiormente con l'apparenza della virtù. Molti, deplorando la discordia e la confusione che regna nelle menti umane, mossi da uno zelo imprudente e spinti da uno slancio e da un grande desiderio di rompere i confini con cui sono fra loro divisi i buoni e gli onesti; essi abbracciano perciò una specie di "irenismo" che, omesse le questioni che dividono gli uomini, non cerca solamente di ricacciare, con unità di forze, l'irrompente ateismo, ma anche di conciliare le opposte posizioni nel campo stesso dogmatico.
E come un tempo vi furono coloro che si domandavano se l'apologetica tradizionale della Chiesa costituisse più un ostacolo che un aiuto per guadagnare le anime a Cristo, cosi oggi non mancano coloro che osano arrivare fino al punto di proporre seriamente la questione, se la teologia e il suo metodo, come sono in uso nelle scuole con l'approvazione dell'autorità ecclesiastica, non solo debbano essere perfezionate, ma anche completamente riformate, affinché si possa propagare con più efficacia il regno di Cristo in tutto il mondo, fra gli uomini di qualsiasi cultura o di qualsiasi opinione religiosa.
Se essi non avessero altro intento che quello di rendere, con qualche innovazione, la scienza ecclesiastica e il suo metodo più adatti alle odierne condizioni e necessità, non ci sarebbe quasi motivo di temere; ma alcuni, infuocati da un imprudente "irenismo", sembrano ritenere un ostacolo al ristabilimento dell'unità fraterna, quanto si fonda sulle leggi e sui principî stessi dati da Cristo e sulle istituzioni da Lui fondate, o quanto costituisce la difesa e il sostegno dell'integrità della fede, crollate le quali, tutto viene sì unificato, ma soltanto nella comune rovina.
Queste opinioni, provenienti da deplorevole desiderio di novità o anche da lodevoli motivi, non sempre vengono proposte con la medesima gradazione, con la medesima chiarezza o con i medesimi termini, né sempre i sostenitori di esse sono pienamente d'accordo fra loro; ciò che viene oggi insegnato da qualcuno più copertamente con alcune cautele e distinzioni, domani da altri, più audaci, viene proposto pubblicamente e senza limitazioni, con scandalo di molti, specialmente del giovane clero, e con detrimento dell'autorità ecclesiastica. Se di solito si usa più cautela nelle pubblicazioni stampate, di questi argomenti si tratta con maggiore libertà negli opuscoli distribuiti in privato, nelle lezioni dattilografate e nelle adunanze. Queste opinioni non vengono divulgate solo fra i membri del clero secolare e regolare, nei seminari e negli istituti religiosi, ma anche fra i laici, specialmente fra quelli che si dedicano all'educazione e all'istruzione della gioventù.
I
Per quanto riguarda la Teologia, certuni intendono ridurre al massimo il significato dei dogmi; liberare lo stesso dogma dal modo di esprimersi, già da tempo usato nella Chiesa, e dai concetti filosofici in vigore presso i dottori cattolici, per ritornare nell'esporre la dottrina cattolica, alle espressioni usate dalla Sacra Scrittura e dai Santi Padri. Essi così sperano che il dogma, spogliato degli elementi estrinseci, come essi dicono, alla divina rivelazione, possa venire con frutto paragonato alle opinioni dogmatiche di coloro che sono separati dalla Chiesa e in questo modo si possa pian piano arrivare all'assimilazione del dogma con le opinioni dei dissidenti. Inoltre, ridotta in tali condizioni la dottrina cattolica, pensano di aprire cosi la via attraverso la quale arrivare, dando soddisfazione alle odierne necessità, a poter esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia dell'immanentismo, sia dell'idealismo, sia dell'esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema.
E perciò taluni, più audaci, sostengono che ciò possa, anzi debba farsi, perché i misteri della fede, essi affermano, non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente veri, ma solo con concetti approssimativi e sempre mutevoli, con i quali la verità viene in un certo qual modo manifestata, ma necessariamente anche deformata. Perciò ritengono non assurdo, ma del tutto necessario che la teologia, in conformità ai vari sistemi filosofici di cui essa nel corso dei tempi si serve come strumenti, sostituisca nuovi concetti agli antichi; cosicché in modi diversi, e sotto certi aspetti anche opposti, ma come essi dicono equivalenti, esponga al modo umano le medesime verità divine. Aggiungono poi che la storia dei dogmi consiste nell'esporre le varie forme di cui si è rivestita successivamente la verità rivelata, secondo le diverse dottrine e le diverse opinioni che sono sorte nel corso dei secoli.
Da quanto abbiamo detto è chiaro che queste tendenze non solo conducono al relativismo dogmatico, ma di fatto già lo contengono; questo relativismo e poi fin troppo favorito dal disprezzo verso la dottrina tradizionale e verso i termini con cui essa si esprime. Tutti sanno che le espressioni di tali concetti, usate sia nelle scuole sia dal Magistero della Chiesa, possono venir migliorate e perfezionate; è inoltre noto che la Chiesa non è stata sempre costante nell'uso di quelle medesime parole. È chiaro pure che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque effimero sistema filosofico; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma, senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principî e nozioni dedotte da una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una stella, ha illuminato per mezzo della Chiesa la mente umana. Perciò non c'è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allontanarcene.
Per tali ragioni, è massima imprudenza il trascurare o respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni che da persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi nozioni ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le quali, a somiglianza dell'erba dei campi, oggi vi sono e domani seccano; a questo modo si rende lo stesso dogma simile a una canna agitata dal vento. Il disprezzo delle parole e delle nozioni usate dai teologi scolastici, di per sé conduce all'indebolimento della teologia speculativa, che essi ritengono priva di una vera certezza in quanto si fonda sulle ragioni teologiche.
Purtroppo questi amatori delle novità facilmente passano dal disprezzo della teologia scolastica allo spregio verso lo stesso Magistero della Chiesa che ha dato, con la sua autorità, una cosi notevole approvazione a quella teologia. Questo Magistero viene da costoro fatto apparire come un impedimento al progresso e un ostacolo per la scienza; da alcuni acattolici poi viene considerato come un freno, ormai ingiusto, con cui alcuni teologi più colti verrebbero trattenuti dal rinnovare la loro scienza. E benché questo sacro Magistero debba essere per qualsiasi teologo, in materia di fede e di costumi, la norma prossima e universale di verità (in quanto ad esso Cristo Signore ha affidato il deposito della fede - cioè la Sacra Scrittura e la Tradizione divina - per essere custodito, difeso ed interpretato, tuttavia viene alle volte ignorato, come se non esistesse, il dovere che hanno i fedeli di rifuggire pure da quegli errori che in maggiore o minore misura s'avvicinano all'eresia, e quindi "di osservare anche le costituzioni e i decreti. con cui queste false opinioni vengono dalla Santa Sede proscritte e proibite" (Corp. Jur. Can., can. 1324; Cfr. Conc. Vat. D. B. 1820, Cost. "De fide cath.", cap. 4, De fide et ratione, post canones).
Quanto viene esposto nelle Encicliche dei Sommi Pontefici circa il carattere e la costituzione della Chiesa, viene da certuni, di proposito e abitualmente, trascurato con lo scopo di far prevalere un concetto vago che essi dicono preso dagli antichi Padri, specialmente greci. I Pontefici infatti - essi vanno dicendo - non intendono dare un giudizio sulle questioni che sono oggetto di disputa tra i teologi; è quindi necessario ritornare alle fonti primitive, e con gli scritti degli antichi si devono spiegare le costituzioni e i decreti del Magistero.
Queste affermazioni vengono fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità. Infatti è vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse.
Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo.
Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono poi le parole: "Chi ascolta voi, ascolta me" (Luc. X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già per altre ragioni patrimonio della dottrina cattolica. Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l'intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi.
È vero pure che i teologi devono sempre ritornare alle fonti della Rivelazione divina: è infatti loro còmpito indicare come gli insegnamenti del vivo Magistero "si trovino sia esplicitamente sia implicitamente" nella Sacra Scrittura o nella divina tradizione. Inoltre si aggiunga che ambedue le fonti della Rivelazione contengono tali e tanti tesori di verità da non potersi mai, di fatto, esaurire. Le scienze sacre con lo studio delle sacre fonti ringiovaniscono sempre; al contrario, diventa sterile, come sappiamo dall’esperienza, la speculazione che trascura la ricerca del sacro deposito. Ma per questo motivo la teologia, anche quella positiva, non può essere equiparata ad una scienza solamente storica. Dio insieme a queste sacre fonti ha dato alla sua Chiesa il vivo Magistero, anche per illustrare e svolgere quelle verità che sono contenute nel deposito della fede soltanto oscuramente e come implicitamente. E il divin Redentore non ha mai dato questo deposito, per l'autentica interpretazione, né ai singoli fedeli, né agli stessi teologi, ma solo al Magistero della Chiesa. Se poi la Chiesa esercita questo suo officio (come nel corso dei secoli è spesso avvenuto) con l'esercizio sia ordinario che straordinario di questo medesimo officio, è evidente che è del tutto falso il metodo con cui si vorrebbe spiegare le cose chiare con quelle oscure; anzi è necessario che tutti seguano l'ordine inverso. Perciò il Nostro Predecessore di imperitura memoria Pio IX, mentre insegnava che è còmpito nobilissimo della teologia quello di mostrare come una dottrina definita dalla Chiesa è contenuta nelle fonti, non senza grave motivo aggiungeva le seguenti parole: "in quello stesso senso, con cui è stata definita dalla Chiesa".
II
Ritorniamo ora alle teorie nuove, di cui abbiamo parlato prima: da alcuni vengono proposte o istillate nella mente diverse opinioni che sminuiscono l'autorità divina della Sacra Scrittura. Con audacia alcuni pervertono il senso delle parole del Concilio Vaticano con cui si definisce che Dio è l’Autore della Sacra Scrittura, e rinnovano la sentenza, già più volte condannata, secondo cui l'inerranza della Sacra Scrittura si estenderebbe soltanto a ciò che riguarda Dio stesso o la religione e la morale.
Anzi falsamente parlano di un senso umano della Bibbia, sotto il quale sarebbe nascosto il senso divino, che è, come essi dichiarano, il solo infallibile. Nell'interpretazione della Sacra Scrittura essi non vogliono tener conto dell'analogia della fede e della tradizione della Chiesa; in modo che la dottrina dei Santi Padri e del Magistero dovrebbe essere misurata con quella della Sacra Scrittura, spiegata, però, dagli esegeti in modo puramente umano; e non piuttosto la Sacra Scrittura esposta secondo la mente della Chiesa, che da Cristo Signore è stata costituita custode e interprete di tutto il deposito delle verità rivelate.
Inoltre il senso letterale della Sacra Scrittura e la sua spiegazione elaborata, sotto la vigilanza della Chiesa, da tali e tanti esegeti, dovrebbe, secondo le loro false opinioni, cedere il posto ad una nuova esegesi, chiamata simbolica e spirituale; secondo quest’esegesi i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti. In questo modo - essi affermano - svaniscono tutte le difficoltà alle quali vanno incontro soltanto coloro che si attengono al senso letterale delle Scritture.
Tutti vedono quanto tutte queste opinioni si allontanino dai principi e dalle norme ermeneutiche giustamente stabilite dai Nostri Predecessori di felice memoria: da Leone XIII nell'Enciclica "Providentissimus Deus", da Benedetto XV nell'Enciclica "Spiritus Paraclitus", come pure da Noi stessi nell'Enciclica "Divino afflante Spiritu".
Non deve recare meraviglia che tali novità in quasi tutte le parti della teologia abbiano prodotto i loro velenosi frutti. Si mette in dubbio che la ragione umana, senza l'aiuto della divina Rivelazione e della grazia, possa dimostrare con argomenti dedotti dalle cose create, l'esistenza di un Dio personale; si afferma che il mondo non ha avuto inizio e che la creazione del mondo è necessaria, perché procede dalla necessaria liberalità del divino amore; così pure si afferma che Dio non ha prescienza eterna ed infallibile delle libere azioni dell'uomo: tutte opinioni contrarie alle dichiarazioni del Concilio Vaticano (Cfr. Conc. Vat. Cost. "De fide cath.", cap. 1: De Deo rerum omnium creatore).
Da alcuni poi si mette in discussione se gli angeli siano persone; se vi sia una differenza essenziale fra la materia e lo spirito. Altri snaturano il concetto della gratuità dell'ordine sovrannaturale, quando sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e chiamarli alla visione beatifica. Né basta; poiché, messe da parte le definizioni del Concilio di Trento, viene distrutto il vero concetto di peccato originale e insieme quello di peccato in genere, in quanto offesa di Dio, come pure quello di soddisfazione data per noi da Cristo. Né mancano coloro che sostengono che la dottrina della transustanziazione, in quanto fondata su un concetto antiquato di sostanza, deve essere corretta in modo da ridurre la presenza reale di Cristo nell'Eucaristia ad un simbolismo, per cui le specie consacrate non sarebbero altro che segni efficaci della presenza di Cristo e della sua intima unione nel Corpo mistico con i membri fedeli.
Certuni non si ritengono legati alla dottrina che Noi abbiamo esposta in una Nostra Enciclica e che è fondata sulle fonti della Rivelazione, secondo cui il Corpo mistico di Cristo e la Chiesa cattolica romana sono una sola identica cosa. Alcuni riducono ad una vana formula la necessità di appartenere alla vera Chiesa per ottenere l'eterna salute. Altri infine non ammettono il carattere razionale dei segni di credibilità della fede cristiana.
È noto che questi errori, ed altri del genere, serpeggiano in mezzo ad alcuni Nostri figli, tratti in inganno da uno zelo imprudente o da una scienza di falso conio; e a questi figli sono costretti a ripetere, con animo addolorato, verità notissime ed errori manifesti, indicando loro con ansietà i pericoli dell'errore.
III
Tutti sanno quanto la Chiesa apprezzi il valore della ragione umana, alla quale spetta il còmpito di dimostrare con certezza l’esistenza di un solo Dio personale, di dimostrare invincibilmente per mezzo dei segni divini i fondamenti della stessa fede cristiana; di porre inoltre rettamente in luce la legge che il Creatore ha impressa nelle anime degli uomini; ed infine il còmpito di raggiungere una conoscenza limitata, ma utilissima, dei misteri (Cfr. Conc. Vat. D. B. 1796).
Ma questo còmpito potrà essere assolto convenientemente e con sicurezza, se la ragione sarà debitamente coltivata: se cioè essa verrà nutrita di quella sana filosofia che è come un patrimonio ereditato dalle precedenti età cristiane e che possiede una più alta autorità, perché lo stesso Magistero della Chiesa ha messo al confronto con la verità rivelata i suoi principî e le sue principali asserzioni, messe in luce e fissate lentamente attraverso i tempi da uomini di grande ingegno. Questa stessa filosofia, confermata e comunemente ammessa dalla Chiesa, difende il genuino valore della cognizione umana, gli incrollabili principî della metafisica cioè di ragion sufficiente, di causalità e di finalità ed infine sostiene che si può raggiungere la verità certa ed immutabile.
In questa filosofia vi sono certamente parecchie cose che non riguardano la fede e i costumi, né direttamente né indirettamente, e che perciò la Chiesa lascia alla libera discussione dei competenti in materia; ma non vi è la medesima libertà riguardo a parecchie altre, specialmente riguardo ai principî ed alle principali asserzioni di cui già parlammo. Anche in tali questioni essenziali si può dare alla filosofia una veste più conveniente e più ricca; si può rafforzare la stessa filosofia con espressioni più efficaci, spogliarla di certi mezzi scolastici meno adatti, arricchirla anche - però con prudenza - di certi elementi che sono frutto del progressivo lavoro della mente umana; però non si deve mai sovvertirla o contaminarla con falsi principî, né stimarla solo come un grande monumento, sì, ma archeologico. La verità in ogni sua manifestazione filosofica non può essere soggetta a quotidiani mutamenti specialmente trattandosi dei principî per sé noti della ragione umana o di quelle asserzioni che poggiano tanto sulla sapienza dei secoli che sul consenso e sul fondamento anche della Rivelazione divina. Qualsiasi verità la mente umana con sincera ricerca ha potuto scoprire, non può essere in contrasto con la verità già acquisita; perché Dio, Somma Verità, ha creato e regge l'intelletto umano non affinché alle verità rettamente acquisite ogni giorno esso ne contrapponga altre nuove; ma affinché,, rimossi gli errori che eventualmente vi si fossero insinuati, aggiunga verità a verità nel medesimo ordine e con la medesima organicità con cui vediamo costituita la natura stessa delle cose da cui la verità si attinge. Per tale ragione il cristiano, sia egli filosofo o teologo, non abbraccia con precipitazione e leggerezza tutte le novità che ogni giorno vengono escogitate, ma le deve esaminare con la massima diligenza e le deve porre su una giusta bilancia per non perdere la verità già conquistata o corromperla, certamente con pericolo e danno della fede stessa.
Se si considera bene quanto sopra è stato esposto, facilmente apparirà chiaro il motivo per cui la Chiesa esige che i futuri sacerdoti siano istruiti nelle scienze filosofiche "secondo il metodo, la dottrina e i principi del Dottor Angelico" (Corp. Jur. Can., can. 1366, 2), giacché, come ben sappiamo dall'esperienza di parecchi secoli, il metodo dell'Aquinate si distingue per singolare superiorità tanto nell'ammaestrare gli animi che nella ricerca della verità; la sua dottrina poi è in armonia con la Rivelazione divina ed è molto efficace per mettere al sicuro i fondamenti della fede come pure per cogliere con utilità e sicurezza i frutti di un sano progresso (A. A. S. vol. XXXVIII, 1946, p. 387).
Perciò è quanto mai da deplorarsi che oggi la filosofia confermata ed ammessa dalla Chiesa sia oggetto di disprezzo da parte di certuni, talché essi con imprudenza la dichiarano antiquata per la forma e razionalistica per il processo di pensiero. Vanno dicendo che questa nostra filosofia difende erroneamente l'opinione che si possa dare una metafisica vera in modo assoluto; mentre al contrario essi sostengono che le verità, specialmente quelle trascendenti, non possono venire espresse più convenientemente che per mezzo di dottrine disparate che si completano tra loro, benché siano in certo modo l'una all'altra opposte. Perciò la filosofia scolastica con la sua lucida esposizione e soluzione delle questioni, con la sua accurata determinazione dei concetti e le sue chiare distinzioni, può essere utile - essi concedono - come preparazione allo studio della teologia scolastica, molto bene adattata alla mentalità degli uomini medievali; ma non può darci - aggiungono - un metodo ed un indirizzo filosofico che risponda alle necessità della nostra cultura moderna. Oppongono, inoltre, che la filosofia perenne non è che la filosofia delle essenze immutabili, mentre la mentalità moderna deve interessarsi della "esistenza" dei singoli individui e della vita sempre in divenire.
Però, mentre disprezzano questa filosofia, esaltano le altre, sia antiche che recenti, sia di popoli orientali che di quelli occidentali, in modo che sembrano voler insinuare che tutte le filosofie o opinioni, con l'aggiunta - se necessario - di qualche correzione o di qualche complemento, si possono conciliare con il dogma cattolico. Ma nessun cattolico può mettere in dubbio quanto tutto ciò sia falso, specialmente quando si tratti di sistemi come l'immanentismo, l'idealismo, il materialismo, sia storico che dialettico, o anche come l'esistenzialismo, quando esso professa l'ateismo o quando nega il valore del ragionamento nel campo della metafisica.
Infine alla filosofia delle nostre scuole essi fanno questo rimprovero: che essa nel processo del pensiero bada solo all'intelletto e trascura la funzione della volontà e del sentimento. Ciò non corrisponde a verità. La filosofia cristiana non ha mai negato l'utilità e l'efficacia che hanno le buone disposizioni di tutta l'anima per conoscere ed abbracciare le verità religiose e morali; anzi, ha sempre insegnato che la mancanza di tali disposizioni può essere la causa per cui l'intelletto, sotto l'influsso delle passioni e della cattiva volontà, venga cosi oscurato da non poter rettamente vedere. Di più, il Dottor Comune ritiene che l'intelletto possa in qualche modo percepire i beni di grado superiore dell'ordine morale sia naturale che soprannaturale, in quanto esso esperimenta nell'ultimo una certa "connaturalità" sia essa naturale, sia frutto della grazia, con i medesimi beni (Cfr. S. Thom., Summa Theol. IIa IIæ, quæst. I, art. 4 ad 3; et quæst. 45, art. 2, in c.); ed è chiaro quanto questa, sia pur subcosciente, conoscenza possa essere di aiuto alla ragione nelle sue ricerche. Ma altro è riconoscere il potere che hanno la volontà e le disposizioni dell'animo di aiutare la ragione a raggiungere una conoscenza più certa e più salda delle verità morali, ed altro in quanto vanno sostenendo quei tali novatori: cioè che la volontà e il sentimento hanno un certo potere intuitivo e che l'uomo, non potendo col ragionamento discernere con certezza ciò che dovrebbe abbracciare come vero, si volge alla volontà, per cui egli possa compiere una libera risoluzione ed elezione fra opposte opinioni, mescolando malamente così la conoscenza e l'atto della volontà.
Non c'è da meravigliarsi che con queste nuove opinioni siano messe in pericolo le due scienze filosofiche che, per natura loro, sono strettamente collegate con gli insegnamenti della fede, cioè la teodicea e l'etica; essi ritengono che la funzione di queste non sia quella di dimostrare con certezza qualche verità riguardante Dio o altro ente trascendente, ma piuttosto quella di mostrare come siano perfettamente coerenti con le necessità della vita le verità che la fede insegna riguardo a Dio, Essere personale, e ai suoi precetti, e che perciò devono essere accettate da tutti per evitare la disperazione e per ottener l'eterna salvezza. Tutte queste affermazioni e opinioni sono apertamente contrarie ai documenti dei Nostri Predecessori Leone XIII e Pio X, e sono inconciliabili con i decreti del Concilio Vaticano.
Sarebbe veramente inutile deplorare queste aberrazioni, se tutti, anche nel campo filosofico, fossero ossequienti con la debita venerazione verso il Magistero della Chiesa, che per istituzione divina ha la missione non solo di custodire e interpretare il deposito della Rivelazione, ma anche di vigilare sulle stesse scienze filosofiche perché i dogmi cattolici non abbiano a ricevere alcun danno da opinioni non rette.
IV
Rimane ora da parlare di quelle questioni che, pur appartenendo alle scienze positive, sono più o meno connesse con le verità della fede cristiana. Non pochi chiedono instantemente che la religione cattolica tenga massimo conto di quelle scienze. Il che è senza dubbio cosa lodevole, quando si tratta di fatti realmente dimostrati; ma bisogna andar cauti quando si tratta piuttosto di ipotesi, benché in qualche modo fondate scientificamente, nelle quali si tocca la dottrina contenuta nella Sacra Scrittura o anche nella tradizione. Se tali ipotesi vanno direttamente o indirettamente contro la dottrina rivelata, non possono ammettersi in alcun modo.
Per queste ragioni il Magistero della Chiesa non proibisce che in conformità dell'attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina dell'evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull'origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente sia Dio). Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all'evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede (Cfr. Allocuzione Pont. ai membri dell'Accademia delle Scienze, 30 novembre 1941; A. A. S. Vol. , p. 506). Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e ciò come se nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela.
Però quando si tratta dell'altra ipotesi, cioè del poligenismo, allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. I fedeli non possono abbracciare quell'opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra veri uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l'insieme di molti progenitori; non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio (cfr. Rom. V, 12-19; Conc. Trident., sess. V, can. 1-4).
V
Come nelle scienze biologiche ed antropologiche, cosi pure in quelle storiche vi sono coloro che audacemente oltrepassano i limiti e le cautele stabilite dalla Chiesa. In modo particolare si deve deplorare un certo sistema di interpretazione troppo libera dei libri storici del Vecchio Testamento; i fautori di questo sistema, per difendere le loro idee, a torto si riferiscono alla Lettera che non molto tempo fa è stata inviata all'arcivescovo di Parigi dalla Pontificia Commissione per gli Studi Biblici (16 gennaio 1948; A. A. S., vol. XL, pp. 45-48).
Questa Lettera infatti fa notare che gli undici primi capitoli del Genesi, benché propriamente parlando non concordino con il metodo storico usato dai migliori autori greci e latini o dai competenti del nostro tempo, tuttavia appartengono al genere storico in un vero senso, che però deve essere maggiormente studiato e determinato dagli esegeti; i medesimi capitoli - fa ancora notare la Lettera - con parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell'origine del genere umano e del popolo eletto.
Se qualche cosa gli antichi agiografi hanno preso da narrazioni popolari (il che può essere concesso), non bisogna mai dimenticare che hanno fatto questo con l'aiuto dell'ispirazione divina, che nella scelta e nella valutazione di quei documenti li ha premuniti da ogni errore. Quindi le narrazioni popolari inserite nelle Sacre Scritture non possono affatto essere poste sullo stesso piano delle mitologie o simili, le quali sono frutto più di un'accesa fantasia che di quell'amore alla verità e alla semplicità che risalta talmente nei Libri Sacri, anche del Vecchio Testamento, da dover affermare che i nostri agiografi son palesemente superiori agli antichi scrittori profani.
Veramente Noi sappiamo che la maggioranza dei dottori cattolici, dei cui studi raccolgono i frutti gli Atenei, i Seminari e i Collegi dei religiosi, sono lontani da quegli errori che apertamente o di nascosto oggi vengono divulgati, sia per smania di novità, sia anche per una non moderata intenzione di apostolato. Ma sappiamo anche che queste nuove opinioni possono fai presa tra le persone imprudenti; quindi preferiamo porvi rimedio sugli inizi, piuttosto che somministrare la medicina quando la malattia è ormai invecchiata.
Per questo motivo, dopo matura riflessione e considerazione, per non venir meno al Nostro sacro dovere, ordiniamo ai Vescovi e ai Superiori Generali degli Ordini e Congregazioni religiose, onerata in maniera gravissima la loro coscienza, di curare con ogni diligenza che opinioni di tal genere non siano sostenute nelle scuole o nelle adunanze e conferenze, né con scritti di qualsiasi genere e nemmeno sans insegnate, in qualsivoglia maniera, ai chierici o ai fedeli.
Gli insegnanti degli Istituti ecclesiastici sappiano che essi non possono esercitare con tranquilla coscienza l'ufficio di insegnare che è stato loro affidato, se non accettano religiosamente le norme che abbiamo stabilite e non le osservano esattamente nell'insegnamento delle loro materie. Quella doverosa venerazione ed obbedienza che nel loro assiduo lavoro devono professare verso il Magistero della Chiesa le infondano anche nella mente e nell'anima dei loro scolari.
Conclusione
Cerchiamo con ogni sforzo e con passione di concorrere al progresso delle scienze che insegnano; ma si guardino anche dall'oltrepassare i confini da Noi stabiliti per la difesa della fede e della dottrina cattolica. Alle nuove questioni, che la cultura moderna e il progresso hanno fatto diventare di attualità, diano l'apporto delle loro accuratissime ricerche, ma con la conveniente prudenza e cautela; infine, non abbiano a credere, per un falso "irenismo", che si possa ottenere un felice ritorno nel seno della Chiesa dei dissidenti e degli erranti, se non si insegna a tutti, sinceramente, tutta la verità in vigore nella Chiesa, senza alcuna corruzione e senza alcuna diminuzione.
Fondati su questa speranza, che sarà aumentata dalla vostra pastorale solerzia, come auspicio dei celesti doni e segno della Nostra paterna benevolenza, impartiamo di gran cuore a voi tutti singolarmente, come al clero e al popolo vostri, l'apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 22 del mese di Agosto dell'anno 1950, XII del Nostro Pontificato.
PIO PP. XII
 

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