
(di
Roberto de Mattei) Il “caso” dei Francescani dell’Immacolata
ripropone una questione di ordine canonico, morale e spirituale, spesso
affiorata e talvolta “esplosa” negli anni del post-concilio: il problema
dell’obbedienza ad una legge ingiusta. Una legge può essere ingiusta non solo
quando viola la legge divina e naturale, ma anche quando viola una legge
ecclesiastica di portata superiore. È questo il caso del Decreto dell’11 luglio
2013 con cui la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata stabilisce il
commissariamento dei Francescani dell’Immacolata.
La lesione del diritto non sta nel commissariamento, ma in quella parte del
Decreto che pretende obbligare i Francescani dell’Immacolata a rinunciare alla
Messa secondo il Rito Romano antico.
Esiste infatti, oltre alla Bolla
Quo primum di san Pio V (1570), il motu proprio
di Benedetto XVI Summorum pontificum (2007), ossia una legge universale
della Chiesa, che concede ad ogni sacerdote il diritto di «celebrare il
Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale
Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e
mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa».
L’art. 2 del Motu Proprio specifica che non occorre alcun
permesso né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario, per le Messe celebrate
sine populo.
L’art. 3 aggiunge che non solo i singoli sacerdoti, ma
«
le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita
apostolica, di diritto sia pontificio sia diocesano, sia che nella celebrazione
conventuale o “comunitaria” nei propri oratori possono esercitare questo
diritto». Nel caso che una singola comunità o un intero Istituto o Società
volesse «
compiere tali celebrazioni spesso o abitualmente o permanentemente,
la cosa deve essere decisa dai Superiori maggiori a norma del diritto e secondo
le leggi e gli statuti particolari». Non c’è bisogno, in questo caso, di
risalire ai princìpi della legge divina e naturale, basta il diritto canonico.
Un eminente giurista come Pedro Lombardia (1930-1986) ricorda come il canone
135, paragrafo 2, del nuovo Diritto Canonico sancisce il principio della
legalità del legiferare, nel senso che «
la potestà legislativa è da
esercitarsi nel modo stabilito dal diritto», specialmente dai canoni 7-22,
che costituiscono il titolo dedicato dal Codice alle Leggi ecclesiastiche (P.
Lombardia,
Lezioni di diritto canonico, Giuffré, Milano 1986, p.
206).
Il Codice ricorda che leggi ecclesiastiche universali sono
quelle «
promulgate con l’edizione nella gazzetta ufficiale degli
Acta Apostolicae Sedis» (can. 8); che ad esse «
sono tenuti dovunque tutti
coloro per i quali sono state date» (can. 12 – §1); precisa che
«
le leggi che stabiliscono una pena, o che restringono il libero
esercizio dei diritti, o che contengono un’eccezione alla legge, sono sottoposte
a interpretazione stretta» (can. 18); stabilisce che «
la legge posteriore
abroga la precedente o deroga alla medesima, se lo indica espressamente, o è
direttamente contraria a quella, oppure riordina integralmente tutta quanta la
materia della legge precedente »(can. 20); afferma che «
nel dubbio la
revoca della legge preesistente non si presume, ma le leggi posteriori devono
essere ricondotte alle precedenti e con queste conciliate, per quanto è
possibile» (can. 21).
L’art. 135 stabilisce infine il principio fondamentale della
gerarchia delle norme, in virtù del quale «da parte del legislatore inferiore
non può essere data validamente una legge contraria al diritto
superiore». Neanche un Papa può abrogare un atto di un altro Papa,
se non con la dovuta forma. La regola incontestabile, di ordine giuridico e
morale, è che prevale il diritto derivante da un ordine superiore, che riguarda
una materia di maggiore importanza e più universale, e che possiede un titolo
più evidente (Regis Jolivet,
Trattato di filosofia. Morale, vol. I,
Morcelliana, Brescia 1959, pp. 171-172).
Secondo il canone 14, inoltre, la norma canonica, per essere
obbligatoria, non deve essere suscettibile di dubbio di diritto
(dubium iuris), ma deve essere certa.
Quando manca la certezza del diritto, vige l’assioma: lex dubia non
obligat. Quando ci si trova di fronte ad un dubbio, la
gloria di Dio e la salvezza delle anime prevalgono sulle concrete conseguenze a
cui può portare l’atto, sul piano personale.
Il nuovo Codice di Diritto
Canonico ricorda infatti, nel suo ultimo canone, che nella Chiesa, sempre deve
essere “
suprema lex” la “
salus animarum” (can. 1752). Lo aveva già
insegnato S. Tommaso d’Aquino: «
lo scopo del diritto canonico tende alla pace
della chiesa e alla salvezza delle anime» (
Quaestiones quodlibetales,
12, q. 16, a. 2) e lo ripetono tutti i grandi canonisti.
Nel discorso sulla “salus animarum” come principio
dell’ordinamento canonico, tenuto il 6 aprile 2000, il cardinale Julián Herranz,
Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ha ribadito come
questo è il supremo principio ordinatore della legislazione canonica. Tutto ciò
presuppone una riflessione articolata, che è assente dal dibattito, perché
spesso si dimentica il fondamento morale e metafisico del diritto.
Oggi prevale una concezione meramente legalista e formalista, che
tende a ridurre il diritto a un mero strumento nelle mani di chi ha il
potere (cfr. Don Arturo Cattaneo,
Fondamenti ecclesiologici del
Diritto canonico, Marcianum Press, Venezia 2011). Secondo il positivismo
giuridico penetrato all’interno della Chiesa è giusto ciò che l’autorità
promulga. In realtà lo
Ius divinum è a fondamento di ogni manifestazione
del diritto e presuppone la precedenza dello
jus rispetto alla
lex. Il positivismo giuridico inverte i termini e sostituisce l’esercizio
della
lex alla legittimità dello
jus. Nella legge si vede solo la
volontà del governante, e non il riflesso della legge divina, per la quale Dio è
il fondamento di tutti i diritti. Egli è il Diritto vivente ed eterno, principio
assoluto di tutti i diritti (cfr.
Ius divinum, a cura di Juan Ignacio
Arrieta, Marcianum Press, Venezia 2010).
È per questo che, in caso di conflitto tra la legge umana e quella
divina, «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»
(
At. V, 29). L’obbedienza è dovuta ai superiori perché rappresentano
l’autorità stessa di Dio ed essi la rappresentano in quanto custodiscono e
applicano la legge divina. San Tommaso afferma che è meglio affrontare
l’immediata scomunica della Chiesa, ed esulare in terre lontane ‒ dove il
braccio secolare non arriva ‒ piuttosto che obbedire ad un ordine ingiusto:
«
ille debet potius excommunicatione, sustinere (…) vel in alias regiones
remotas fugere» (
Summa Theologiae, Suppl., q. 45, a. 4, ob. 3).
L’obbedienza non è solo un precetto formale che ci spinge a
sottometterci alle autorità umane: è prima di tutto una virtù che incammina
verso la perfezione. Abbraccia in maniera perfetta l’obbedienza non chi
ubbidisce per interesse, timore servile, o affezione umana, ma chi sceglie la
vera obbedienza, che è l’unione della volontà umana con la Volontà divina. Per
amore di Dio dobbiamo essere pronti a quegli atti di suprema obbedienza alla sua
legge e alla sua Volontà che ci sciolgono dai legami di una falsa obbedienza,
che rischia di farci perdere la fede. Purtroppo oggi vige un malinteso senso
dell’obbedienza, confinante talvolta con il servilismo, in cui il timore
del’autorità umana prevale sull’affermazione della verità divina.
La resistenza agli ordini illegittimi è talvolta un dovere, verso Dio
e verso il nostro prossimo, che ha bisogno di gesti di esemplare densità
metafisica e morale. I Francescani dell’Immacolata hanno ricevuto ed
accolto da Benedetto XVI il bene straordinario della Messa tradizionale,
impropriamente detta “tridentina”, che oggi migliaia di sacerdoti celebrano
legittimamente un tutto il modo. Non c’è modo migliore di esprimere la loro
riconoscenza a Benedetto XVI per il bene ricevuto e di manifestare allo stesso
tempo il proprio sentimento di protesta verso un’ingiustizia subita, che di
continuare a celebrare in tranquilla coscienza il Santo Sacrificio della Messa
secondo il Rito romano antico. Nessuna legge contraria li obbliga in coscienza.
Forse pochi lo faranno, ma il cedimento per evitare mali maggiori, non servirà
ad allontanare la tempesta che infuria sul loro istituto e sulla Chiesa.
(Roberto de Mattei)