La continuità e
la discontinuità
di Piero Vassallo
di Piero Vassallo
Con istinto
profetico, il cardinale Giuseppe Siri, strenuo difensore della vera fede,
denunciò l'insorgere di una teologia d'opinione,
contaminata e alla fine alterata dai pensieri circolanti nella cultura di massa:
"Si dice che la teologia deve essere ripensata al tempo presente: non ha
quindi più un valore permanente. Il riferimento al tempo presente avverrebbe
assumendo il fatto che le opinioni dominanti nella cultura di massa e nei suoi
intellettuali sono il criterio di rinnovamento della teologia. Criterio non
sarebbe dunque, logicamente, né la Scrittura né la Tradizione né quanto viene
garantito da magistero. Tutto questo sarebbe perfettamente logico se dovessimo
accettare una teologia d'opinione" (Cfr. "Il convegno di
Bruxelles", in "Renovatio", rivista di teologia e cultura, Genova
ottobre-dicembre 1970).
A una Chiesa
modernizzata e perciò discontinua nei confronti della
Tradizione, i teologi radunati a Bruxelles assegnavano il compito di
accogliere tutti coloro che avevano compiuto una scelta etica. In ultima analisi il convegno dei teologi progressisti
affermava la convenienza di affidare la teologia alla libertà e alla ricerca,
senza anticipare nulla. Un programma che contemplava l'intenzione di
contestare e abbattere la qualunque autorità ecclesiastica, che fosse ritenuta
dogmatica e repressiva.
Dopo essersi
domandato che cosa sarebbe rimasto della cristologia ove fosse prevalsa la
teologia d'opinione, il cardinale Siri denunciò la diffusa tendenza ad
alterare e svuotare le grandi formule teologiche: "La reinterpretazione è il
grande palliato trabocchetto della demitizzazione, la quale suona
distruzione" (Ibidem).
L'oggetto della
denuncia di Siri era l'opinione dei teologi devianti ("uomini che si sono
mostrati fuori della teologia") radunati a Bruxelles, per dimostrare che
nelle formule imprecise e nebulose, insinuate nei documenti del Concilio
Vaticano II, era lecito ammirare il profilo di un religione nuova e diversa da
quella tradizionale.
Nella ricorrenza
del decennale del Vaticano II, Siri intervenne nuovamente, per rammentare che
durante lo svolgimento del concilio "non mancò un'illusione, nella quale
furono travolti forse più sacerdoti che laici, più teologi che parroci: per
costoro il concilio rappresentava la conversione della Chiesa alla cultura
moderna, pura e semplice, il rovesciamento agognato del Sillabo di Pio IX"
(Cfr. "Dieci anni dall'inizio del secondo concilio Vaticano", in
"Renovatio", ottobre-dicembre 1972).
Siri era un geloso
custode della Tradizione, non un tradizionalista ottuso: "Eliminiamo subito
un equivoco. Con il termine tradizionale s'intende soltanto ciò che non respinge
quanto viene offerto dalla Scrittura e dalla tradizione divina, secondo
l'insegnamento magistrale della Chiesa, tenendo il già certo e non rifiutando
l'ulteriore approfondimento. Insomma, tradizionale non significa vieto, pigro,
immobile, barbogio, mummificato. E questo sia detto senza perifrasi, anche se
pare che il coraggio intellettuale dei nostri tempi s'appoggi ormai solo su
parole rese sapientemente equivoche" (Cfr.: "Ortodossia e
teologia", "Renovatio", gennaio-marzo 1975). Egli
respingeva pertanto la bizzarra opinione dei tradizionalisti, secondo cui
lo Spirito Santo avrebbe disertato il Vaticano II.
La lucida
fedeltà all'autentica Tradizione, tuttavia, obbligava l'impavido presule a
denunciare il pericolo rappresentato dal tentativo (generato
dall'odio alle formule e alle preposizioni precise) di
de-dogmatizzare la dottrina, ossia dal progetto di abbassare la predicazione
alla chiacchiera giornalistica: "Quando si delinea questo andazzo, le
conclusioni sono scontate sin dai primi segni, quali l'apatia per le definizione
dei concetti, dei termini e delle cose (Cfr.: "De-dogmatizzazione nella
Chiesa", "Renovatio", ottobre-dicembre 1973).
Gli errori
denunciati da Siri erano stati diffusi dai bellicosi teologi, che furono
protagonisti ma non vincitori nelle sedute del Vaticano II. Lo Spirito Santo,
sosteneva Siri, aveva impedito l'ingresso trionfale degli errori nei documenti
del Concilio.
Nei documenti del
Vaticano II, l'azione tumultuosa dei teologi d'opinione
consiste nelle orme lasciate da prelati impazienti per l'influsso
degli errori esausti e tempestivamente confutati dall'enciclica
Humani generis di Pio XII.
Senza timore di
smentita, si può quindi affermare che nei documenti del Concilio Vaticano II si
vedono le ombre dell'errore neomodernista, ossia formule imprecise, elusive e
caliginose, che sembrano dettate dall'avversione alle preposizioni
precise. Non eresie ma oblique tracce dell'intenzione, dichiarata dai
teologi progressisti, di adeguare la dottrina cattolica al pensiero
moderno.
Il problema delle
imprecisioni e delle oscurità presenti nei documenti del Vaticano II è stato
riproposto da padre Giovanni Cavalcoli o. p., autore di un saggio (fortemente
critico) sulla teologia di un protagonista del Vaticano II, il gesuita Karl
Rahner.
L'intervento di
padre Cavalcoli ha aperto una breccia nel muro dei silenzi ufficiali sul
Vaticano II. E attraverso la breccia sono passati all'aperto alcuni autori in
precedenza costretti alla marginalità: Paolo Pasqualucci, mons. Brunero
Gherardini e Roberto De Mattei.
Il nodo del
nascosto problema è venuto alla luce quando la rivista internazionale di ricerca
e di critica teologica "Divinitas", diretta dall'autorevole mons.
Brunero Gherardini, ha pubblicato un articolo di Paolo Pasqualucci
dall'eloquente titolo "La Cristologia antropocentrica del Concilio
ecumenico Vaticano II".
L'autore, dopo
aver citato l'articolo 22 della costituzione Gaudium et spes, in cui si
afferma che, con l'incarnazione il Figlio, Dio si è unito in certo modo ad ogni
uomo, obietta che "l'idea dell'incarnazione di Nostro Signore come unione
con ogni uomo appare tutt'altro che chiara dal momento che, secondo il dogma,
noi sappiamo essersi Egli unito (nell'unione ipostatica) esclusivamente alla
natura umana di quell'uomo che è stato l'ebreo Gesù di Nazareth, unita quindi,
la sua divinità (pur mantenendosi essa indivisa e distinta) alla natura umana di
un solo uomo in carne e ossa, la cui esistenza è stata ampiamente
provata".
Non sembra
infondato il dubbio manifestato da Pasqualucci sulla presenza di un'ombra
gettata sulla Gaudium et spes da una teologia alterata dal pregiudizio
antropocentrico. Pregiudizio forse alimentato nascostamente dall'ipotesi
panteistica-evoluzionistica, formulata da Teilhard de Chardin e giustificata
dagli acrobatici commenti del suo esegeta padre Henri de Lubac.
Nella Gaudium
et spes si legge, inoltre, che l'uomo è la sola creatura che Dio abbia
voluto per se stessa; un giudizio a dir poco avventato, e senza dubbio in
contrasto con la Sacra Scrittura e la dottrina del Dottore comune.
Opportunamente Pasqualucci cita la Bibbia, che recita "Universa propter
semetipsum operatus est Dominus" [Prov. 16, 4] e il testo dell'Angelico,
che conferma la definizione della Bibbia: Sic igitur Deus vult se et alia:
sed se ut finem, alia ad finem" [Summa theol., I, q. 19, a.2].
Si stenta a
credere che dalla tradizione, ossia dai testi scrupolosamente citati da
Pasqualucci, si possa trarre conferma della dottrina che soggiace alla imprecise
affermazioni della Gaudium et spes.
Pasqualucci di
seguito dimostra che l'innesto della teoria antropocentrica sulla tradizionale
dottrina di Cristo nuovo Adamo è del tutto arbitrario: "la celebre frase
[della Gaudium et Spes] rivelando il mistero del Padre e del
Suo amore, Cristo svela anche l'uomo a se stesso e gli rivela la sua altissima
vocazione, non proviene da S. Paolo, né come frase né come
concetto. Proviene invece, solo leggermente modificata, da Catholicisme
di de Lubac, che la ricava da un'interpretazione distorta della Lettera
ai Galati 1, 15-16".
Gal. I,
15-16 conclude il ragionamento avviato da una dichiarazione difficilmente
compatibile con l'entusiasmo umanistico, che infiammava la teologia di De Lubac:
"Il Vangelo annunziato da me non è a misura di uomo".
L'accusa
a de Lubac di propalare una teologia contaminata dall'antropocentrismo era stata
peraltro anticipata in Getsemani, opera in cui il cardinale Siri
accusava il commentatore di Teilhard di aver manipolato il testo sacro al fine
di indebolire la distinzione tra la natura e il Soprannaturale.
L'umanesimo
esagerato e il progressismo proclamati da Teilhard e giustificati in qualche
modo da de Lubac inducono a credere che nelle tesi formulate per addolcire e
appiattire la nozione di trascendenza divina fosse contemplato lo strumento
adatto a ottenere la stima dei comunisti sovietici, in quel tempo avviati (si
credeva) all'immancabile vittoria.
E' il caso di
rammentare che De Lubac (diversamente da Siri, che affrontò l'argomento nella
rivista Renovatio) era all'oscuro del devastante processo involutivo
avviato dai comunisti francofortesi. Comunisti (Walter Benjamin e Ernst Bloch)
che manifestavano la loro intenzione oscurantista, regressiva e anti-umana,
dichiarando la loro dipendenza dalla gnosi immoralista di Marcione.
L'argomento che
Pasqualucci espone nell'intento di sollevare il dubbio sulla tesi della
Gaudium et spes è molto persuasivo: "... se l'uomo a
differenze di tutte le altre creature, è una creatura che Dio ha creato per se
stessa e non per Se stesso, ciò significa che tale creatura possiede un valore
tale da giustificarne o richiederne la creazione da parte di Dio. Ma questo non
è possibile, se l'uomo è stato creato da Dio dal nulla. ... L'humanitas
dell'uomo viene pertanto da Dio non dall'uomo stesso, quasi fosse una
caratteristica sua indipendente da Dio che ha spinto Dio a crearlo".
Impressionanti
sono anche le pagine dedicate da Pasqualucci (che in questo caso ricorre alla
sua ingente erudizione) alla dimostrazione che il magistero degli antichi
concili non fornisce alcun spunto e giustificazione alla tesi esposto in
Gaudium et spes 22.
Il Vaticano II, in
sintonia con il Concilio di Calcedonia, nota Pasqualucci, "riafferma la
dottrina sull'incarnazione nel suo aspetto concretamente e compiutamente umano,
salvaguardando nello stesso tempo la necessaria, insuperabile distinzione tra
natura divina ed umana in Cristo. Tuttavia da questa riproposizione
assolutamente corretta della verità di fede, il testo conciliare sviluppa la
proposizione singolare, secondo la quale la natura umana del Signore, assunta e
non annientata nell'unione ipostatica, per ciò stesso è stata anche in noi
innalzata in una dignità sublime".
Contro
tale azzardata tesi conciliare, Pasqualucci dimostra appunto che in nessuno
degli antichi concili si trova un riferimento a siffatto innalzamento della
natura di noi ad una dignità sublime.
Siri e Pasqualucci
sono autorevoli ma non infallibili, chi scrive è solamente non
infallibile.
L'apparenza
incoraggia tuttavia l'opinione di quanti vedono un contrasto insanabile tra la
dottrina in filigrana nella Gaudium et spes e la dottrina insegnata dalla Chiesa
preconciliare. Le differenze sembrano innegabili perfino a chi è sicuro della
propria incompetenza a giudicare.
L'apparenza può
ingannare. L'impressione non è la verità. Il legittimo dubbio sulla Gaudium
et spes tuttavia è motivato e invincibile, dunque invoca legittimamente un
preciso e definitivo chiarimento del sommo Magistero. Un chiarimento che è
richiesto dalla confusione fibrillante in atto nella Chiesa
postconciliare.
Mons. Gherardini
chiede - supplicando - che il Magistero formuli una puntuale, esplicita
definizione sulla continuità o la discontinuità della tradizione nelle discusse
teorie esposte nei documenti del Vaticano II. Questa supplica è condivisa dai
molti fedeli, che sono turbati dalla stranezza delle dottrine predicate da molti
pulpiti.
La questione
dell'indirizzo antropocentrico della nuova teologia, che Pasqualucci ha
ultimamente sollevato con esatte citazioni dei testi conciliari, non può essere
sepolta nel silenzio e nelle mezze parole.
Nel lontano 1970,
il cardinale Siri, contemplando la bufera che si scatenò intorno al
Concilio, sosteneva che "La cosa più urgente è restaurare nella Chiesa
la distinzione tra verità ed errore. Talvolta sembra riecheggiare come dominante
il dibattito teologico la domanda di Pilato: che cos'è la verità? Occorrono atti
che sfatino la legittimità della dittatura dell'opinione, questo terribile
potere che coarta il potere di diritto. Siamo al punto in cui qualunque
esercizio dell'autorità ecclesiastica è considerato abuso nei confronti della
libertà" ("Renovatio", ottobre-dicembre 1971).
Siri
citava la sentenza di un leader massimo delle attuali opinioni teologiche:
"Quando Dio vuol essere non Dio, l'uomo nasce". E
domandava: "Cosa vuol dire questa frase? Rigorosamente parlando, nulla. Ma
dà l'impressione di nascondere qualche misterioso segreto sui rapporti tra
divino ed umano che la dottrina della creazione sembra tenere velato e
inespresso".
Dai pulpiti
frequentati dai teologi paroliberieri scendono sentenze sontuose ma prive di
significato. A giudicare dai frutti, qualcosa non ha funzionato nel Vaticano
II.
Allarmato da
flusso rovinoso delle parole teologiche in libertà, Benedetto XVI ha
coraggiosamente sollevato la spinosa questione del conflitto che oppone le
scuole che nel Vaticano II vedono la continuità e le scuole che, invece, vi
leggono l'incentivo alla discontinuità.
Adesso è lecito
attendere, con l'umiltà che costituisce un indeclinabile obbligo per tutti i
fedeli, che si faccia chiarezza sui documenti nei quali la continuità sembra
rovesciarsi nella discontinuità e addirittura nell'errore.
Nell'incertezza
intorno al dogma, la vita cristiana è abbandonata al potere delle opinioni
fluttuanti. La morale sta infatti scendendo la china del moralismo e della
conformità all'opinione giornalistica. Talora si assiste allo scivolamento nella
doppia morale: i peccati degli amici progressisti passano sotto silenzio mentre
si gridano parole furenti all'indirizzo dei peccatoti reazionari. Urla sdegnate
commentano i festini di destra, il pio silenzio scende sul gay
pride.
L'assordante
silenzio dei vescovi sulla blasfemia festante nel gay pride romano del 2011, è
un segno del potere deterrente esercitato dai banditori del pensiero
unico.
"A ciò si sono
prestati quei teologi della cultura di massa che hanno lanciato lo slogan della
morte di Dio con il medesimo tipo di diffusione di un prodotto
commerciale"
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IL CONCILIO VATICANO II E LE FONTI DEL “PARACONCILIO” - di Piero Vassallo
di Piero
Vassallo
Due scuole di
pensiero dibattono aspramente intorno al Vaticano II: i refrattari, che
attribuiscono alle ambiguità striscianti nei documenti conciliari l'origine del
disordine, che sta devastando la teologia e alterando la morale dei cattolici, e
gli osservanti, che incolpano i teologi impazienti (ad esempio Karl
Rahner e Hans Kung) di aver narrato un concilio, il paraconcilio,
sognato e narrato a somiglianza delle loro fantasiose e avventurose
elucubrazioni.
La furente
demolizione e la rappresentazione rivoluzionaria del Vaticano II sono
le due facce di un dibattito iroso, un usurante conflitto dal quale Benedetto
XVI ha saggiamente indicato la via d'uscita stabilendo l'ermeneutica della
continuità, una decisione autorevole, che sconfessa e mette fuori gioco
l'avventuroso progetto dei teologi discontinui.
Opportunamente don
Finotti rammenta il discorso continuista pronunciato da Paolo VI quando
fu celebrato il quarto centenario (1564-1964) del Concilio di Trento:
"Trento! Tante sono le memorie e le emozioni che questo nome glorioso e
benedetto solleva nel nostro spirito ... Meravigliosa la coerenza storica, con
cui è tessuta la vita della Chiesa, che da Cristo trae la sua origine e da
Pietro la sua successione; l'avvertenza di una vitalità, che corre nelle vene
del Corpo mistico e storico di Cristo, cioè la Chiesa, e che nelle più disparate
e remote vicende eguale si manifesta".
Anche l'autorevole
Ennio Innocenti ha indicato una ragionevole base d'intesa: stabilire, anzi
tutto, che "il Vaticano II è nella linea tradizionale e sviluppa concetti
preesistenti", quindi ammettere, in sintonia con mons. Brunero Gherardini e
con Paolo Pasqualucci, che "non è tuttavia scandaloso che un documento di un
Concilio che non impegna l'infallibilità della Chiesa dia luogo a
dubbi".
Al
proposito don Innocenti citata un'affermazione conciliare senz'altro ambigua,
quantunque non formalmente eretica, "con l'Incarnazione Dio si è unito
in qualche modo ad ogni uomo", rammenta esser di fede che
Dio ha assunto la natura umana unendo all'unica persona del Verbo un solo uomo,
l'ebreo Gesù, "dando però un segnale d'immensa benevolenza per ogni singolo
uomo, passato, presente e futuro".
Di qui il saggio
criterio che deve guidare il qualunque lettore dei documenti del Vaticano II:
"la sicura dottrina tradizionale non può essere
contraddetta".
I fedeli sono
pertanto tenuti a cercare la continuità che è presente malgrado le espressioni
del Vaticano II che rivestono una forma liquida e sfuggente.
All'ermeneutica della continuità è improntato anche il
convincente saggio del dotto teologo roveretano Enrico Finotti, "Vaticano II 50
anni dopo", edito in questi giorni dalla veronese Fede &
Cultura.
In sintonia con il
cardinale Mauro Piacenza, don Finetti, preso atto della della continuità
sostanziale nel magistero della Chiesa, stabilisce che l'adesione al Vaticano II
"implica in maniera necessaria l'adesione a tutti gli altri Concili
Ecumenici".
La prima
conseguenza dell'assimilazione del Vaticano II ai precedenti concili è la
riduzione delle fughe in avanti all'avventizia categoria del paraconcilio,
"forma mentis che vorrebbe come insegnamento autentico conciliare non tanto
quanto è espresso dalla lettera, ma quanto è contenuto in un presunto spirito
del Concilio, posizioni di pensiero teologico e prassi di azione pastorale che
si sono imposte al di là e contro la lettera dei documenti
conciliari".
Di qui il
riconoscimento dell'origine paraconciliare "della pastorale
secolarizzata rivolta unicamente sul versante umanitario senza più l'aggancio
con il Mistero che deve trasmetterlo", un metodo che ha generato i danni
che Paolo VI ha definito fumo di satana nella casa di Dio.
Opportuno e
condivisibile è anche il capitolo scritto da don Finotti "per rendere
giustizia al magistero del papa Paolo VI, che dimostrò un equilibrio quanto mai
raro e costante nella guida della Chiesa postconciliare". Al proposito è
doveroso rammentare che il carteggio tra Paolo VI e l'intransigente card. Siri
svela una perfetta, sorprendente identità di vedute fra i due protagonisti della
recente e tormentata storia ecclesiastica.
Va da sé che la
certezza della continuità non implica l'attenuazione della polemica sul
paraconcilio. Tanto meno implica la mitigazione del severo giudizio (formulato
da Paolo Pasqualucci e da Roberto de Mattei) sulle illusioni comunicate a
Giovanni XXIII e ai protagonisti del paraconcilio da teologi folgorati
dalla visione di un mondo moderno piamente inteso alla critica dei
propri errori.
L'involuzione del
moderno e la sua discesa nel tenebroso sottosuolo neognostico,
francofortese e californiano, infatti, era stata avvistata e annunciata a metà
degli anni Cinquanta dal cardinale Siri.
In atto sulla
scena storica non era l'autocritica ma l'avanzamento del pensiero moderno in
direzione della capovolta religiosità e del nichilismo.
I comunisti
d'avanguardia, Benjamin, Bloch, Adorno, Taubes, Marcuse, lavoravano da tempo
alla conclusione nichilista della parabola atea e materialista. Solo un accecato
ottimismo poteva non vedere la degenerazione del moderno
principe.
La discesa
dell'antimoderno cattolico negli stati liquidi dell'ottimismo senza fondamento è
un capitolo indispensabile alla comprensione del paraconcilio, dunque
all'efficace opposizione alla discontinuità felicemente avviata da Benedetto XVI
e destinata al successo malgrado le resistenze opposte dagli incantesimi
officiati dai teologi progressisti.
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IL DIBATTITO SULL' AUTORITA' DEL CONCILIO PASTORALE VATICANO II - di Piero Vassallo
di Piero
Vassallo
Paolo VI, quando il suo pontificato stava declinando nell'amara delusione, definì "fumo di satana" e "dissenso che è sembrato passare dall'autocritica all'autodistruzione", i risultati ottenuti dalla teologia progressista rumoreggiante e giubilante nel Concilio Vaticano II.
Paolo VI, quando il suo pontificato stava declinando nell'amara delusione, definì "fumo di satana" e "dissenso che è sembrato passare dall'autocritica all'autodistruzione", i risultati ottenuti dalla teologia progressista rumoreggiante e giubilante nel Concilio Vaticano II.
Nel 1985, il
cardinale Joseph Ratzinger confermò i giudizi di papa Montini, rammentando che,
dopo il Vaticano II, "ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è
invece trovati di fronte a un percorso progressivo di
decadenza".
Di qui le due
opposte interpretazioni o ermeneutiche del Vaticano II, che stanno
dividendo i cattolici dell'età postmoderna.
L'ermeneutica
della continuità, formulata da Benedetto XVI, riafferma le indeclinabili verità
della tradizione cattolica, legge il Vaticano II nella loro luce e raccoglie la
sfida lanciata dal relativismo, mediocre succedaneo del defunto pensiero
moderno.
L'avventizia
ermeneutica della discontinuità, elucubrata dal professore bolognese Giuseppe
Alberigo e adottata dagli irriducibili eredi di Jacques Maritain e Giuseppe
Dossetti, nel Vaticano II contempla un evento epocale: l'abbassamento
della fede cattolica a opinione felicemente menomata e
servilmente appiattita sul passato del pensiero moderno.
L'irriducibilità
delle due scuole di pensiero manifesta le ragioni della restaurazione
timidamente avanzante fra gli ostacoli elevati dai teologi progressisti e perciò
nutre la speranza dei cattolici incapaci di rinunciare alla loro
identità.
L'indirizzo
perdente dell'ermeneutica eventuale si manifesta, peraltro, nelle
anacronistiche escandescenze dei cattocomunisti, radunati in
un'esangue aggregazione di nostalgici salmodianti intorno ai
relitti della rivoluzione sovietica.
Nel pregevole ed
esauriente saggio "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta",
edito in questi giorni dalla torinese Lindau, Roberto De Mattei chiarisce le
ragioni del contendere e risale alle cause lontane della divisione in atto nella
Chiesa cattolica.
Per prima cosa
l'autorevole pensatore tradizionalista dimostra che l'ermeneutica della
continuità ammette l'esistenza dell'effimero e dell'insicuro fra le righe dei
testi del concilio pastorale Vaticano II.
La liceità di tale
ammissione è confermata da monsignor Brunero Gherardini, caposcuola dei
continuisti, il quale sostiene l'autorità della ininterrotta tradizione
e pertanto conclude che "le dottrine del Vaticano II non riconducibili a
precedenti definizioni, non sono né infallibili né
irreformabili".
Dal suo canto
l'autorevole padre Giovanni Cavalcoli o. p., nel sito
"www.riscossacristiana.it", dichiara che "è lecito avanzare riserve
e anche critiche a certi aspetti del Concilio, ossia a quelli che mostrano
eccessiva indulgenza nei confronti degli errori moderni".
La scuola di
Bologna, invece, sostiene che l'ermeneutica della discontinuità non è fondata
nei documenti ma trae alimento dalla mitologia intorno all'evento
conciliare, inteso come causa di definitiva rottura con la tradizione
cattolica.
Scrive De Mattei:
"Per questa scuola il Vaticano II, al di là dei documenti che esso ha
prodotto, è stato innanzi tutto un evento storico che, in quanto tale, ha
significato un'innegabile discontinuità con il passato ... ha aperto, in ultima
analisi, un'epoca nuova".
L'ermeneutica
della continuità, dunque, ha fondamento nella lettura dei testi alla luce della
verità cattolica.
L'ermeneutica
della discontinuità, al contrario, dipende dalla convinzione (di trasparente
fonte modernistica e storicistica) che la dottrina cattolica debba conformarsi
ai magnifici pensieri del mondo moderno.
Se non che il
malinconico tramonto e la metamorfosi nichilista delle ideologie privano della
qualunque giustificazione la meraviglia un tempo pulsante nel pensiero dei
cattolici modernisti.
Oggi il
pregiudizio di Raïssa Maritain a favore dell'Unione sovietica ha il suono di una
barzelletta surreale.
Lo storicismo
degli ermeneuti eventuali si rovescia pertanto in umilianti paradossi
antistorici.
Opportunamente De
Mattei rammenta che negli anni dell'incubazione progressista (1920-140) "la
neoscolastica mancò di una teologia della storia e rinunciò alla lotta contro
l'avversario, rifugiandosi in una torre d'avorio
intellettuale".
La
debolezza della filosofia della storia fu la breccia che consentì
l'attraversamento dell'errore progressista - il fumo di satana - nella
cultura cattolica.
L'assenza di una
filosofia della storia permise la circolazione di giudizi sul comunismo che
umiliavano la verità, censurando le notizie sul gulag e nascondendo la feroce
persecuzione anticristiana in atto nell'Unione sovietica.
L'ingiustificato e
talora ridicolo irenismo, vibrante e trionfante nelle sedute del Concilio
Vaticano II e nelle sedi degli intrallazzi paralleli (ad esempio l'avventurosa
iniziativa di Tisserant, che concesse il silenzio sul comunismo in cambio
dell'invio a Roma di alcuni agenti del kgb travestiti da vescovi ortodossi)
aveva origine dall'incapacità di vedere l'azione della divina provvidenza nella
storia, cioè il destino fallimentare delle rivolte della follia umana contro la
verità divina.
Nessuno desidera
la cieca censura dei documenti del Vaticano II. Ma il qualunque sguardo non
offuscato dal pregiudizio vede l'urgenza di demolire le ridicole costruzioni
elevate per celebrare un evento dai risvolti ora ridicoli ora
drammatici.
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