Considerazioni sul concilio Vaticano
II - di Piero Vassallo - prima parte
di Piero Vassallo -
prima parte
1. - Abbagli e illusioni della vigilia
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, solo gli esponenti cattolici fedeli alla dottrina ortodossa e perciò indenni dall'influsso della chiacchiera giornalistica, osavano proporre una lettura realistica e anticonformistica dei segni del tempi, nei quali si contemplava l'inarrestabile movimento sovietico di liberazione. "Liberazione" che Pio XI aveva puntualmente definito "rimedio peggiore del male".
Esponenti e guide della minoranza refrattarie alle illusioni e ai miraggi di giornata erano i cardinali Ernesto Ruffini, Alfredo Ottaviani e Giuseppe Siri, e i filosofi Cornelio Fabro, Antonio Messineo, padre Julio Meinevielle, Michele Federico Sciacca e Augusto Del Noce.
Alcuni di loro previdero la metamorfosi nichilista della dottrina di Marx. Il card. Siri, in una conversazione con padre Candido Capponi, annunciò addirittura lo sfacelo dell'Unione sovietica. Padre Meinvielle rivelò la presenza di suggestioni neognostiche operanti nel cuore dell'avanguardia atea. Altri si resero conto che nel pensiero francofortese era in atto la metamorfosi nichilistica della libertà immaginata dagli insorgenti contro la morale cristiana e il diritto naturale.
Dal suo canto Fabro dimostrò che solamente la filosofia di San Tommaso d'Aquino era in grado di sopravvivere alle catastrofi mentali avvenute nel xx secolo.
Fedeli all'insegnamento dell'enciclica Humani generis di Pio XII, i difensori dell'ortodossia erano convinti dell'irriducibilità del pensiero moderno al Vangelo. Pertanto essi rimanevano saldi nella tradizionale opposizione della fede al mondo.
Purtroppo gli avvertimenti degli anticonformisti ebbero una mediocre accoglienza in un ambiente già alterato e flagellati da incontrollabili stati d'animo: infondata stima delle idee professate dall'avversario, rispetto umano, tracotante faciloneria, ammirazione della propria superficialità, insofferenza dell'autorità di Pio XII.
Misura della demenziale anarchia strisciante fra i cattolici modernizzanti è la confessione di Giuseppe Alberigo, il quale confidò (a un giornalista del Corriere della Sera) di aver recitato (insieme con un frate benedettino!) il rosario per invocare la morte di Pio XII, giudicato ingombro sulla via del rinnovamento cattolico.
L'origine dell'appiattimento in scena nell'area cattolica durante gli anni del pre-concilio è stata ricostruita da Cornelio Fabro “L’attività frenetica dei mezzi di comunicazione, l’invasione della società del benessere, l’affievolimento degli interessi speculativi, lo studio diretto dei classici del pensiero contrastato da una valanga di enciclopedie, dizionari e pubblicazioni di facile volgarizzazione e di altrettanto facili illusioni: tutte queste cose hanno non solo stordito il pubblico dei fedeli ma intimorito la stessa autorità, che ha dato l’impressione di non essere sempre in grado di fronteggiare con nuove proposte siffatto cataclisma, tuttora in atto” (Cfr. “Introduzione a san Tommaso”, Ares, Milano, 1997, pag. 286).
I tamburi dei giornalisti aggiornati (ad esempio Raniero La Valle, Sergio Zavoli, Giancarlo Vigorelli, Piero Pratesi) rullavano senza sosta. Priva delle necessarie difese immunitarie il popolo della dimezzata cultura cattolica era posseduto dalla convinzione dell'ineluttabile trionfo del comunismo sovietico. Il nuovo Costantino era contemplata attraverso lenti zuccherose, che oscuravano la memoria dell'olocausto ucraino (l'Holomodor) e nascondevano l'atroce presenza del gulag nei territori amministrati dal buon Kruscev.
Ingannato dalla diceria dei giornalisti e dei teologi da loro aggiornati, perfino il Beato Giovanni XXIII fu vittima dell'abbaglio e confidò a padre Roberto Tucci di giudicare Kruscev animato da buone intenzioni. (Cfr.: Roberto De Mattei, "Il Concilio Vaticano II Una storia mai scritta", Lindau, Torino 2010, pag. 286).
La fine dell'età costantiniana era annunciata con squilli "teologici" intonati alla festosa preparazione del compromesso col vincitore sovietico. Non a caso Giuseppe Dossetti, futuro segretario del card. Giacomo Lercaro, uno fra i più risoluti esponente dei progressisti attivi nel Vaticano II, durante gli anni Quaranta e Cinquanta fu il capo di una corrente democristiana favorevole all'apertura ai comunisti.
La maggioranza del clero e del laicato militante seguiva le indicazioni di Jacques Maritain, un autore che si era formato nel movimento di Charles Maurras e Henri Massis. Negli anni della sua attività nella destra francese, Maritain aveva scritto alcuni saggi che fanno tuttora parte della buona biblioteca cattolica, ad esempio "Antimoderno" e "Tre riformatori Lutero, Cartesio, Rousseau". Opere al loro tempo ammirate dai giovani lettori Giovanni Battista Montini e Giuseppe Siri.
Nel saggio "Umanesimo integrale", Maritain considera una più vasta prospettiva e sostiene la presenza di ragioni cristiane nel cuore delle rivoluzioni moderne. Una tesi che fu in seguito tradotta (con qualche forzatura) nella strategia del compromesso storico.
La tesi sulle parziali (e insufficienti) ragioni delle ideologie è ovvia. Ad esempio: è vero che l'illuminismo rivendica i diritti della ragione ma è innegabile che la rivendicazione unilaterale della ragione colpisce la fede e ghigliottina le monache di Compiègne e di Orleans.
Forse Maritain non fu del tutto chiaro nell'esposizione della sua tesi. Forse fu troppo indulgente con la rivoluzione comunista e troppo intransigente con la destra degli anni Trenta.
Certo è che fu erronea la conseguenza che dalla sua opera trassero i lettori schierati a sinistra: essi non videro la parzialità delle ragioni e - sopra tutto - la insostenibilità delle conclusioni rivoluzionarie
L'incensato Pierre Teilhard de Chardin, il gesuita proibito, sentenziò che “Arrestare il movimento moderno è soltanto un tentativo impossibile poiché tale movimento è legato allo sviluppo stesso della coscienza umana”.
La teologia irenistica, che ispirava il progetto di moderare e accorciare la dottrina cattolica per adeguarla alle presunte istanze dell’uomo moderno, peraltro era stata confutata nel 1920 da un predecessore di Siri, il cardinale arcivescovo di Genova Tommaso Pio Boggiano.
Il puntuale giudizio dell’insigne presule rammentava che “La dottrina cristiana, espressione della verità di Dio sulla terra, non può essere né divisa ne scissa. Essa è la tonaca inconsutile, essa è tutta di un pezzo. Dio, Gesù Cristo, Chiesa, Papa, i diritti che Dio ha dato alla Chiesa e al Papa, formano un tutto unito, un complesso di cose inseparabili e, quello che è da tenersi ben presente, affatto indipendenti dalla volontà degli uomini. Volere solamente una parte di ciò che è volontà di Dio, volere solo un po’ di cristianesimo e pretendere così di stare bene con Dio, di essere chiamati suoi soldati e suoi cavalieri, è cosa impossibile. In questa materia: o tutto o niente. Il Vangelo non contiene un solo capitolo, un solo versetto, che sia una superfetazione e che possa quindi essere a nostro piacimento tolto o trascurato” (Cfr.: “Un vescovo contro la Democrazia Cristiana”, Verrua Savoia 2008.
Purtroppo le tesi degli integralisti furono travolte dall'onda alta e inarrestabile della dolcezza teologizzante. La rumorosa emergenza della teologia conformista, generata da uno stupore disarmato davanti a figure ideologiche già fatiscenti e destinate ad essere travolte e sepolte a Berlino, costituisce motivo di umiliante disagio per la memoria cattolica.
Durante gli anni Cinquanta e Sessanta il potere della suggestione era diventato a tal punto influente che perfino un uomo cauto e scrupoloso come Giovanni XXIII dichiarò ammirazione “per il meraviglioso progresso del genere umano”, in pratica per le conquiste vantate dai propagandisti della rivoluzione illusionista.
Giovanni XXIII riteneva, in buona fede, che si potesse giudicare addirittura avvenuto “l’ingresso in una nuova età, la quale, fatta salva la sacra eredità trasmessaci dalle generazioni precedenti mostra un meraviglioso progresso nelle cose che riguardano l’animo umano”.
Ora nell’Allocuzione inaugurale del Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia, papa Roncalli, forse consigliato dall'ottimismo esagerato di suggeritori intemperanti, tratteggiò due scenari divergenti: un Concilio indirizzato alla risoluta, intransigente conferma dei dogmi (“il Concilio deve condurre ad un sempre più intenso rafforzamento della fede”) e un Concilio orientato ad evitare la condanna degli errori moderni, visto che “ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli” (Cfr.: Paolo Pasqualucci, “Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II Analisi critica della lettera, dei fondamenti, dell’influenza e delle conseguenze della Gaudet Mater Ecclesia, Allocuzione di apertura del Concilio, di Giovanni XXIII”, Editrice Ichtis, Spadarolo Rn 2009).
Nel primo scenario è il fedele ritratto del Concilio Vaticano II. Nel secondo scenario sono descritte le illusioni che suscitarono estenuanti discussioni nel Concilio e rovinose fughe in avanti nel post-concilio.
(continua)
1. - Abbagli e illusioni della vigilia
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, solo gli esponenti cattolici fedeli alla dottrina ortodossa e perciò indenni dall'influsso della chiacchiera giornalistica, osavano proporre una lettura realistica e anticonformistica dei segni del tempi, nei quali si contemplava l'inarrestabile movimento sovietico di liberazione. "Liberazione" che Pio XI aveva puntualmente definito "rimedio peggiore del male".
Esponenti e guide della minoranza refrattarie alle illusioni e ai miraggi di giornata erano i cardinali Ernesto Ruffini, Alfredo Ottaviani e Giuseppe Siri, e i filosofi Cornelio Fabro, Antonio Messineo, padre Julio Meinevielle, Michele Federico Sciacca e Augusto Del Noce.
Alcuni di loro previdero la metamorfosi nichilista della dottrina di Marx. Il card. Siri, in una conversazione con padre Candido Capponi, annunciò addirittura lo sfacelo dell'Unione sovietica. Padre Meinvielle rivelò la presenza di suggestioni neognostiche operanti nel cuore dell'avanguardia atea. Altri si resero conto che nel pensiero francofortese era in atto la metamorfosi nichilistica della libertà immaginata dagli insorgenti contro la morale cristiana e il diritto naturale.
Dal suo canto Fabro dimostrò che solamente la filosofia di San Tommaso d'Aquino era in grado di sopravvivere alle catastrofi mentali avvenute nel xx secolo.
Fedeli all'insegnamento dell'enciclica Humani generis di Pio XII, i difensori dell'ortodossia erano convinti dell'irriducibilità del pensiero moderno al Vangelo. Pertanto essi rimanevano saldi nella tradizionale opposizione della fede al mondo.
Purtroppo gli avvertimenti degli anticonformisti ebbero una mediocre accoglienza in un ambiente già alterato e flagellati da incontrollabili stati d'animo: infondata stima delle idee professate dall'avversario, rispetto umano, tracotante faciloneria, ammirazione della propria superficialità, insofferenza dell'autorità di Pio XII.
Misura della demenziale anarchia strisciante fra i cattolici modernizzanti è la confessione di Giuseppe Alberigo, il quale confidò (a un giornalista del Corriere della Sera) di aver recitato (insieme con un frate benedettino!) il rosario per invocare la morte di Pio XII, giudicato ingombro sulla via del rinnovamento cattolico.
L'origine dell'appiattimento in scena nell'area cattolica durante gli anni del pre-concilio è stata ricostruita da Cornelio Fabro “L’attività frenetica dei mezzi di comunicazione, l’invasione della società del benessere, l’affievolimento degli interessi speculativi, lo studio diretto dei classici del pensiero contrastato da una valanga di enciclopedie, dizionari e pubblicazioni di facile volgarizzazione e di altrettanto facili illusioni: tutte queste cose hanno non solo stordito il pubblico dei fedeli ma intimorito la stessa autorità, che ha dato l’impressione di non essere sempre in grado di fronteggiare con nuove proposte siffatto cataclisma, tuttora in atto” (Cfr. “Introduzione a san Tommaso”, Ares, Milano, 1997, pag. 286).
I tamburi dei giornalisti aggiornati (ad esempio Raniero La Valle, Sergio Zavoli, Giancarlo Vigorelli, Piero Pratesi) rullavano senza sosta. Priva delle necessarie difese immunitarie il popolo della dimezzata cultura cattolica era posseduto dalla convinzione dell'ineluttabile trionfo del comunismo sovietico. Il nuovo Costantino era contemplata attraverso lenti zuccherose, che oscuravano la memoria dell'olocausto ucraino (l'Holomodor) e nascondevano l'atroce presenza del gulag nei territori amministrati dal buon Kruscev.
Ingannato dalla diceria dei giornalisti e dei teologi da loro aggiornati, perfino il Beato Giovanni XXIII fu vittima dell'abbaglio e confidò a padre Roberto Tucci di giudicare Kruscev animato da buone intenzioni. (Cfr.: Roberto De Mattei, "Il Concilio Vaticano II Una storia mai scritta", Lindau, Torino 2010, pag. 286).
La fine dell'età costantiniana era annunciata con squilli "teologici" intonati alla festosa preparazione del compromesso col vincitore sovietico. Non a caso Giuseppe Dossetti, futuro segretario del card. Giacomo Lercaro, uno fra i più risoluti esponente dei progressisti attivi nel Vaticano II, durante gli anni Quaranta e Cinquanta fu il capo di una corrente democristiana favorevole all'apertura ai comunisti.
La maggioranza del clero e del laicato militante seguiva le indicazioni di Jacques Maritain, un autore che si era formato nel movimento di Charles Maurras e Henri Massis. Negli anni della sua attività nella destra francese, Maritain aveva scritto alcuni saggi che fanno tuttora parte della buona biblioteca cattolica, ad esempio "Antimoderno" e "Tre riformatori Lutero, Cartesio, Rousseau". Opere al loro tempo ammirate dai giovani lettori Giovanni Battista Montini e Giuseppe Siri.
Nel saggio "Umanesimo integrale", Maritain considera una più vasta prospettiva e sostiene la presenza di ragioni cristiane nel cuore delle rivoluzioni moderne. Una tesi che fu in seguito tradotta (con qualche forzatura) nella strategia del compromesso storico.
La tesi sulle parziali (e insufficienti) ragioni delle ideologie è ovvia. Ad esempio: è vero che l'illuminismo rivendica i diritti della ragione ma è innegabile che la rivendicazione unilaterale della ragione colpisce la fede e ghigliottina le monache di Compiègne e di Orleans.
Forse Maritain non fu del tutto chiaro nell'esposizione della sua tesi. Forse fu troppo indulgente con la rivoluzione comunista e troppo intransigente con la destra degli anni Trenta.
Certo è che fu erronea la conseguenza che dalla sua opera trassero i lettori schierati a sinistra: essi non videro la parzialità delle ragioni e - sopra tutto - la insostenibilità delle conclusioni rivoluzionarie
L'incensato Pierre Teilhard de Chardin, il gesuita proibito, sentenziò che “Arrestare il movimento moderno è soltanto un tentativo impossibile poiché tale movimento è legato allo sviluppo stesso della coscienza umana”.
La teologia irenistica, che ispirava il progetto di moderare e accorciare la dottrina cattolica per adeguarla alle presunte istanze dell’uomo moderno, peraltro era stata confutata nel 1920 da un predecessore di Siri, il cardinale arcivescovo di Genova Tommaso Pio Boggiano.
Il puntuale giudizio dell’insigne presule rammentava che “La dottrina cristiana, espressione della verità di Dio sulla terra, non può essere né divisa ne scissa. Essa è la tonaca inconsutile, essa è tutta di un pezzo. Dio, Gesù Cristo, Chiesa, Papa, i diritti che Dio ha dato alla Chiesa e al Papa, formano un tutto unito, un complesso di cose inseparabili e, quello che è da tenersi ben presente, affatto indipendenti dalla volontà degli uomini. Volere solamente una parte di ciò che è volontà di Dio, volere solo un po’ di cristianesimo e pretendere così di stare bene con Dio, di essere chiamati suoi soldati e suoi cavalieri, è cosa impossibile. In questa materia: o tutto o niente. Il Vangelo non contiene un solo capitolo, un solo versetto, che sia una superfetazione e che possa quindi essere a nostro piacimento tolto o trascurato” (Cfr.: “Un vescovo contro la Democrazia Cristiana”, Verrua Savoia 2008.
Purtroppo le tesi degli integralisti furono travolte dall'onda alta e inarrestabile della dolcezza teologizzante. La rumorosa emergenza della teologia conformista, generata da uno stupore disarmato davanti a figure ideologiche già fatiscenti e destinate ad essere travolte e sepolte a Berlino, costituisce motivo di umiliante disagio per la memoria cattolica.
Durante gli anni Cinquanta e Sessanta il potere della suggestione era diventato a tal punto influente che perfino un uomo cauto e scrupoloso come Giovanni XXIII dichiarò ammirazione “per il meraviglioso progresso del genere umano”, in pratica per le conquiste vantate dai propagandisti della rivoluzione illusionista.
Giovanni XXIII riteneva, in buona fede, che si potesse giudicare addirittura avvenuto “l’ingresso in una nuova età, la quale, fatta salva la sacra eredità trasmessaci dalle generazioni precedenti mostra un meraviglioso progresso nelle cose che riguardano l’animo umano”.
Ora nell’Allocuzione inaugurale del Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia, papa Roncalli, forse consigliato dall'ottimismo esagerato di suggeritori intemperanti, tratteggiò due scenari divergenti: un Concilio indirizzato alla risoluta, intransigente conferma dei dogmi (“il Concilio deve condurre ad un sempre più intenso rafforzamento della fede”) e un Concilio orientato ad evitare la condanna degli errori moderni, visto che “ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli” (Cfr.: Paolo Pasqualucci, “Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II Analisi critica della lettera, dei fondamenti, dell’influenza e delle conseguenze della Gaudet Mater Ecclesia, Allocuzione di apertura del Concilio, di Giovanni XXIII”, Editrice Ichtis, Spadarolo Rn 2009).
Nel primo scenario è il fedele ritratto del Concilio Vaticano II. Nel secondo scenario sono descritte le illusioni che suscitarono estenuanti discussioni nel Concilio e rovinose fughe in avanti nel post-concilio.
(continua)
CONSIDERAZIONI SUL CONCILIO VATICANO II - di Piero Vassallo (2° parte)
di Piero
Vassallo
2° parte. La dottrina e l'evento
per leggere, la prima parte di questo saggio, cliccate qui
di Piero Vassallo
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IL CONCILIO VATICANO II E IL DIRITTO NATURALE - di Piero Vassallo
2° parte. La dottrina e l'evento
per leggere, la prima parte di questo saggio, cliccate qui
Durante la fase
più acuta della crisi postconciliare, il card. Giuseppe Siri pubblicò, nella
rivista “Renovatio”, un
articolo di fondo, che dava ragione del successo - apparente e momentaneo -
della teologia progressista: “La Chiesa cattolica ha vinto le eresie, ma ha
ben più difficoltà a vincere le confusioni”
(“Renovatio”, anno X, 1975, fasc.
2, pag. 140).
Il cardinale di
Genova non criticò i testi del Vaticano II (al contrario invitò a leggeri in
ginocchio) ma si oppose al vento dell'impetuosa confusione teologica che
soffiava sulla dottrina nell'intento di promuoverne una totale
modernizzazione.
Un insigne
interlocutore di Siri, Michele Federico Sciacca sosteneva, infatti, che il
progetto neomodernista era finalizzato alla deteologizzazione del
cristianesimo.
Siri sottopose a
una critica implacabile i sommi banditori della confusione in atto nell'ambiente
cattolico e ne fece anche i nomi: Henri De Lubac, Karl Rahner e Jacques
Maritain.
Nell'aula
conciliare il movimento modernista fu arrestato dalla nota previa, con
cui Paolo VI smenti il cardinale belga Léon-Joseph Suenens e gli altri fautori
della sovversione intesa ad abbattere il primato di Pietro e a stabilire il
sommo potere del collegio dei vescovi.
Purtroppo l'errore
neomodernista, strisciante nell'aula del Vaticano II, si diffuse negli stati
d'animo e nella lettura tendenziosa dei testi conciliari, specialmente in quelli
segnati da precipitosa indulgenza nei confronti del mondo moderno e delle false
religioni.
Era prevedibile,
peraltro, che una generazione di cattolici assordati dalle chiacchiere dei più
prestigiosi teologi intorno alla meraviglia sovietica si lanciasse nella corsa
verso le nuove frontiere del fantasticare.
La plumbea
commedia degli esploratori cattolici, coinvolti nella bufera sessantottina e nel
terrorismo - ad esempio - non si può valutare senza rivolgere il pensiero
all'influsso della contorta teologia predicata da educatori, che usavano i testi
del concilio come arieti contro la verticale.
Mentre denunciava
il fumo di satana nella Casa di Dio, la mente di Paolo VI era forse
rivolta alle maniglie che alcuni testi conciliari offrivano agli
acrobatici volteggi dei banditori della teologia progressista, delirio
teologico secondo la argomentata definizione di Cornelio
Fabro.
Nel 1985, il
cardinale Joseph Ratzinger confermò i giudizi di papa Montini, rammentando che,
dopo il Vaticano II, "ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è
invece trovati di fronte a un percorso progressivo di
decadenza".
A
proposito di balzi indietro, Brunero Gherardini rammenta che dall'uso
spregiudicato dei testi del Vaticano II “Stava nascendo un Cristianesimo di
nuovo conio: contestato e banalizzato il soprannaturale, gradualmente confuso
con il naturale come se ne fosse un’esigenza ineludibile – in tutto questo era
evidente una rivincita di Henri De Lubac ” [1].
Caduto il muro di
Berlino gli anni dell'incandescenza progressista finirono nel libro delle
memorie tristi e imbarazzanti. Purtroppo nel passaggio epocale l'errore
progressista ha soltanto cambiato pelle, adattandosi alla figura cinerea della
postmodernità, pornografica e relativista.
Ultimamente due
opposte interpretazioni o ermeneutiche del Vaticano II stanno dividendo
i cattolici dell'età postmoderna.
L'ermeneutica
della continuità, formulata da Benedetto XVI, riafferma le indeclinabili verità
della tradizione cattolica, legge il Vaticano II nella loro luce e raccoglie la
sfida lanciata dal porno-relativismo, mediocre succedaneo del defunto pensiero
moderno.
L'avventizia
ermeneutica della discontinuità, elucubrata dal defunto professore Giuseppe
Alberigo e adottata dai rumorosi ma
sparuti eredi di Jacques Maritain e Giuseppe Dossetti, nel
Vaticano II contempla un evento
epocale: l'abbassamento della fede
cattolica a opinione felicemente
menomata e
servilmente appiattita sul passato del pensiero moderno.
L'irriducibilità
delle due scuole di pensiero manifesta le
ragioni della restaurazione timidamente
avanzante fra gli ostacoli elevati dai teologi progressisti e perciò nutre la
speranza dei cattolici incapaci di rinunciare alla loro identità.
L'indirizzo
perdente dell'ermeneutica eventuale si manifesta, peraltro, nelle anacronistiche escandescenze dei
cattocomunisti, radunati in
un'esangue aggregazione di nostalgici
salmodianti intorno al relitto della rivoluzione
sovietica.
La soluzione
teologica del dilemma sul Vaticano II compete esclusivamente all'autorità del
pontefice, che peraltro mostra di aver chiara la necessità di una
svolta.
Tuttavia è lecito
condividere la tesi formulata dall'autorevole padre Giovanni Cavalcoli o. p.,
secondo cui "è lecito avanzare riserve e anche critiche a certi aspetti del
Concilio, ossia a quelli che mostrano eccessiva indulgenza nei confronti degli
errori moderni".
Detto questo
occorre ribadire che la vera causa della crisi non risiede nei testi conciliari
(talora superficiali, deboli e perciò datati, mai apertamente contrari alla
verità) ma nel vento giornalistico sollevato dal conformismo e
dall'ingiustificata paura del mondo moderno.
Il cardinale Siri
sosteneva che la nuova teologia era alimentata da tradizioni filosofiche
visibilmente destinate a tramontare nel ridicolo: la comica finale del comunismo
sotto il muro di Berlino ha confermato il suo giudizio.
Oggi la passione
dei teologi progressisti arde nella comica al quadrato, che si recita
al San Raffaele intorno alla fumosa e uggiosa filosofia del maestro
Cacciari.
Il maestre della
nuova frontiera modernista è un mesto erede dell'illusione sovietica. Il cabaret
lo ha definito kakkiari, parolina che allude alle mistiche banalità
continuamente sciorinate dal maestro lagunare. Ed è questa la conclusione che si
deve trarre dalla recente storia ecclesiastica: nella profondità dell'errore
teologico abita il kakkiarismo, una farsa allegramente al galoppo. Grazie a Dio
la leggerezza dell'ispiratore annuncia il declino dei teologi "ispirati".
[1]
Cfr.: “Concilio Ecumenico Vaticano II Un discorso da fare”, Casa
Mariana Editrice, Frigento (Av.) 2009, pag. 72
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GIOVANNI XXIII E IL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II - di Piero Vassallo
Paolo Pasqualucci, “Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II”, Editrice Ichtis, Spadarolo (Rn)
di Piero Vassallo
L’uso
sobrio e rigoroso di un’ingente mole di notizie e la felice combinazione di
fermezza dottrinale e carità, hanno consentito a Paolo Pasqualucci di affrontare
l’imbarazzante problema posto dalla presenza – indisturbata, quando non
incoraggiata e approvata ufficiosamente - della screditata teologia
progressista, fumo di satana penetrato nella Chiesa cattolica, come ebbe a
definirla (tardivamente) Paolo VI.
La rumorosa sopravvivenza della teologia conformista, che fu generata da uno stupore disarmato davanti a figure ideologiche fatiscenti e destinate ad essere travolte e sepolte a Berlino, costituisce, motivo di umiliante disagio per la cultura cattolica.
Smentite tutte le ragioni del trionfalismo mondano, è evidente, infatti, la malinconica dissolvenza delle pie illusioni intorno alle magnifiche sorti e progressive. La fede leopardiana e schopenhaueriana, professata senza ritegni dall’affranto guru Scalfari, dimostra, appunto, che l’infatuazione progressista appartiene al passato. Le autentiche ragioni della speranza stanno rientrando pur con fatica nella casa dell’ortodossia cattolica.
Se non che l’imperiosa e torrentizia verbosità dei teologi sedicenti aggiornati, mantiene una vasta area del mondo cattolico incollata al fotogramma della moviola, che ha registrato le suggestioni del progressismo furoreggiante nei remoti (e non ancora del tutto superati) anni del Vaticano II.
Nelle pagine della sua magistrale opera, Pasqualucci dimostra che, per uscire dal vicolo cieco in cui langue la cultura postconciliare, è necessario rammentare la dipendenza dei nuovi teologi (Rahner e Küng, ad esempio) da uno stato d’animo abbagliato dalle luci della ribalta progressista. Una ribalta peraltro devastata dal corso sfavorevole degli eventi e dall’involuzione dei pensieri “a monte”.
Un teologo autorevole, quale Brunero Gherardini ha scritto che la nuova teologia mette una pietra tombale sulla metafisica “spogliando la ragione umana della sua capacità di pervenire alla verità, di scoprirne l’essere, d’isolarne l’atto di essere”.
Il difficile compito dei restauratori cattolici, in ultima analisi, consiste nel rianimare la perplessa e depressa maggioranza dei credenti, dimostrando che il potere, tuttora esercitato da novatori tanto ostinati quanto esausti e sorpassati, non discende dalla presunta evoluzione del dogma ma dall’esagerata fiducia riposta in ideologie perdenti.
Durante gli anni Sessanta il potere della suggestione era a tal punto influente che perfino un uomo cauto e scrupoloso come Giovanni XXIII dichiarò ammirazione “per il meraviglioso progresso del genere umano”, in pratica per le conquiste vantate dai propagandisti della rivoluzione illusionista.
Nell’Allocuzione inaugurale Gaudet Mater Ecclesia papa Roncalli tratteggiò due scenari divergenti: un Concilio indirizzato alla risoluta, intransigente conferma dei dogmi (“il Concilio deve condurre ad un sempre più intenso rafforzamento della fede”) e un Concilio orientato ad evitare la condanna degli errori moderni, visto che “ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.
In una fase storica caratterizzata dall’incubazione dell’anarchismo sessantottino, Giovanni XIII affermò addirittura che gli uomini contemporanei sembravano “più inclini a recepire gli ammonimenti” della Chiesa cattolica.
Di qui la convinzione, illusoria dato il furore delle persecuzioni anticristiane in atto nell’Unione sovietica e in Cina, oltre che nel mondo islamico, che si potesse giudicare avvenuto “l’ingresso in una nuova età, la quale, fatta salva la sacra eredità trasmessaci dalle generazioni precedenti mostra un meraviglioso progresso nelle cose che riguardano l’animo umano”.
Evidentemente la visione di un mondo verniciato di rosa non può essere equiparata all’errore teologico, perciò nessuno mette in discussione la fedeltà di papa Giovanni al dogma, fedeltà che fu peraltro autorevolmente attestata da Cornelio Fabro. L’infallibilità non copre le opinioni dei papi sull’effimero, tanto meno sacralizza gli abbagli
Senza dubbio erronea è, invece, la teologia progressista, avanzata sotto l’ombrello dell’immaginario contemplante i progressi spirituali della modernità, fino a raggiungere il punto di non ritorno che è rappresentato dalla teoria di Karl Rahner sui cristiani anonimi. Teoria in cui Cornelio Fabro vedeva il rovesciamento della teologia in antropologia.
Le suggestioni diffuse dai nuovi teologi hanno purtroppo inquinato il dibattito conciliare, imponendo una soluzione interlocutoria e minimalista, la “pastoralità”, che ha escluso il radicamento delle costituzioni conciliari nell’infallibilità ma non ha impedito la circolazione tra i novatori di una surrettizia opinione infallibilista, affermante l’inviolabilità dell’ecumenismo latitudinario, che era giustificato soltanto dagli immotivati entusiasmi intorno alle ideologie.
In seguito, l’infallibilismo è stato usato come copertura offerta dall’esorbitanza dell’ortodossia ai teologi che, in nome del “concilio” erano intenti all’erosione del depositum fidei. Per un singolare paradosso, il partito dei nuovi teologi ha trovato rifugio nella deformazione infallibilista dell’intransigenza dottrinale dichiarata da Giovanni XXIII durante la cerimonia inaugurale del Vaticano II.
Per ridare vitalità e slancio missionario alla Chiesa cattolica è necessario sciogliere i lacci che tengono unito l’incontrollato entusiasmo dei novatori all’intransigenza dottrinale, cioè interrompere il giro vizioso che si è stabilito tra l’eccesso infallibilista e il deficit prodotto dal precipitoso avventurismo teologico.
Occorre specialmente che questa delicata operazione sia compiuta, come propone Pasqualucci, con rigore ma senza ventilare lacerazioni irreparabili.
L’interruzione del giro vizioso della teologia è tuttavia impensabile senza la preventiva rinuncia alle anacronistiche illusioni intorno agli splendori della modernità. Si tratta di trarre le dovute conseguenze dall’invito all’autocritica della modernità e del cattolicesimo modernizzante, formulato da Benedetto XVI nella Spe salvi.
È questa, infatti, la condizione necessaria a ottenere la liberazione del pensiero cattolico dal peso morto e mortificante della moderna utopia. Nei testi del Concilio pastorale (e non dogmatico) un illuminato esercizio del senso autocritico può, infatti, scoprire e rimuovere le tracce dell’ingenuo ottimismo professato da Giovanni XXIII, quindi avviare, senza inscenare drammi, l’attesa separazione del dogma cattolico dalle temerarie opinioni dei teologi privati.
La rumorosa sopravvivenza della teologia conformista, che fu generata da uno stupore disarmato davanti a figure ideologiche fatiscenti e destinate ad essere travolte e sepolte a Berlino, costituisce, motivo di umiliante disagio per la cultura cattolica.
Smentite tutte le ragioni del trionfalismo mondano, è evidente, infatti, la malinconica dissolvenza delle pie illusioni intorno alle magnifiche sorti e progressive. La fede leopardiana e schopenhaueriana, professata senza ritegni dall’affranto guru Scalfari, dimostra, appunto, che l’infatuazione progressista appartiene al passato. Le autentiche ragioni della speranza stanno rientrando pur con fatica nella casa dell’ortodossia cattolica.
Se non che l’imperiosa e torrentizia verbosità dei teologi sedicenti aggiornati, mantiene una vasta area del mondo cattolico incollata al fotogramma della moviola, che ha registrato le suggestioni del progressismo furoreggiante nei remoti (e non ancora del tutto superati) anni del Vaticano II.
Nelle pagine della sua magistrale opera, Pasqualucci dimostra che, per uscire dal vicolo cieco in cui langue la cultura postconciliare, è necessario rammentare la dipendenza dei nuovi teologi (Rahner e Küng, ad esempio) da uno stato d’animo abbagliato dalle luci della ribalta progressista. Una ribalta peraltro devastata dal corso sfavorevole degli eventi e dall’involuzione dei pensieri “a monte”.
Un teologo autorevole, quale Brunero Gherardini ha scritto che la nuova teologia mette una pietra tombale sulla metafisica “spogliando la ragione umana della sua capacità di pervenire alla verità, di scoprirne l’essere, d’isolarne l’atto di essere”.
Il difficile compito dei restauratori cattolici, in ultima analisi, consiste nel rianimare la perplessa e depressa maggioranza dei credenti, dimostrando che il potere, tuttora esercitato da novatori tanto ostinati quanto esausti e sorpassati, non discende dalla presunta evoluzione del dogma ma dall’esagerata fiducia riposta in ideologie perdenti.
Durante gli anni Sessanta il potere della suggestione era a tal punto influente che perfino un uomo cauto e scrupoloso come Giovanni XXIII dichiarò ammirazione “per il meraviglioso progresso del genere umano”, in pratica per le conquiste vantate dai propagandisti della rivoluzione illusionista.
Nell’Allocuzione inaugurale Gaudet Mater Ecclesia papa Roncalli tratteggiò due scenari divergenti: un Concilio indirizzato alla risoluta, intransigente conferma dei dogmi (“il Concilio deve condurre ad un sempre più intenso rafforzamento della fede”) e un Concilio orientato ad evitare la condanna degli errori moderni, visto che “ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.
In una fase storica caratterizzata dall’incubazione dell’anarchismo sessantottino, Giovanni XIII affermò addirittura che gli uomini contemporanei sembravano “più inclini a recepire gli ammonimenti” della Chiesa cattolica.
Di qui la convinzione, illusoria dato il furore delle persecuzioni anticristiane in atto nell’Unione sovietica e in Cina, oltre che nel mondo islamico, che si potesse giudicare avvenuto “l’ingresso in una nuova età, la quale, fatta salva la sacra eredità trasmessaci dalle generazioni precedenti mostra un meraviglioso progresso nelle cose che riguardano l’animo umano”.
Evidentemente la visione di un mondo verniciato di rosa non può essere equiparata all’errore teologico, perciò nessuno mette in discussione la fedeltà di papa Giovanni al dogma, fedeltà che fu peraltro autorevolmente attestata da Cornelio Fabro. L’infallibilità non copre le opinioni dei papi sull’effimero, tanto meno sacralizza gli abbagli
Senza dubbio erronea è, invece, la teologia progressista, avanzata sotto l’ombrello dell’immaginario contemplante i progressi spirituali della modernità, fino a raggiungere il punto di non ritorno che è rappresentato dalla teoria di Karl Rahner sui cristiani anonimi. Teoria in cui Cornelio Fabro vedeva il rovesciamento della teologia in antropologia.
Le suggestioni diffuse dai nuovi teologi hanno purtroppo inquinato il dibattito conciliare, imponendo una soluzione interlocutoria e minimalista, la “pastoralità”, che ha escluso il radicamento delle costituzioni conciliari nell’infallibilità ma non ha impedito la circolazione tra i novatori di una surrettizia opinione infallibilista, affermante l’inviolabilità dell’ecumenismo latitudinario, che era giustificato soltanto dagli immotivati entusiasmi intorno alle ideologie.
In seguito, l’infallibilismo è stato usato come copertura offerta dall’esorbitanza dell’ortodossia ai teologi che, in nome del “concilio” erano intenti all’erosione del depositum fidei. Per un singolare paradosso, il partito dei nuovi teologi ha trovato rifugio nella deformazione infallibilista dell’intransigenza dottrinale dichiarata da Giovanni XXIII durante la cerimonia inaugurale del Vaticano II.
Per ridare vitalità e slancio missionario alla Chiesa cattolica è necessario sciogliere i lacci che tengono unito l’incontrollato entusiasmo dei novatori all’intransigenza dottrinale, cioè interrompere il giro vizioso che si è stabilito tra l’eccesso infallibilista e il deficit prodotto dal precipitoso avventurismo teologico.
Occorre specialmente che questa delicata operazione sia compiuta, come propone Pasqualucci, con rigore ma senza ventilare lacerazioni irreparabili.
L’interruzione del giro vizioso della teologia è tuttavia impensabile senza la preventiva rinuncia alle anacronistiche illusioni intorno agli splendori della modernità. Si tratta di trarre le dovute conseguenze dall’invito all’autocritica della modernità e del cattolicesimo modernizzante, formulato da Benedetto XVI nella Spe salvi.
È questa, infatti, la condizione necessaria a ottenere la liberazione del pensiero cattolico dal peso morto e mortificante della moderna utopia. Nei testi del Concilio pastorale (e non dogmatico) un illuminato esercizio del senso autocritico può, infatti, scoprire e rimuovere le tracce dell’ingenuo ottimismo professato da Giovanni XXIII, quindi avviare, senza inscenare drammi, l’attesa separazione del dogma cattolico dalle temerarie opinioni dei teologi privati.
IL CONCILIO VATICANO II E IL DIRITTO NATURALE - di Piero Vassallo
La verità cattolica e il
controcanto della pastorale
di Piero Vassallo
di Piero Vassallo
Padre Giovanni
Cavalcoli o. p. ha esposto una condivisibile tesi sull'infallibilità delle
dottrine insegnate dal Concilio Vaticano II. L'affermazione di padre Cavalcoli
ha fondamento incrollabile nella dichiarazione di Paolo VI, secondo il quale
"la dottrina cattolica non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente
modificata, ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la
sviluppa con autorevolissima apologia".
La
tradizionale teologia del diritto naturale, ad esempio, è stata solennemente
confermata dal Vaticano II.
La Costituzione
dogmatica Gaudium et spes, nel capitolo De dignitate conscientiae
moralis, contrasta l'ingannevole e rovinosa teoria di Kant e dei kantiani
di scuola e di sacrestia, dimostrando che "nell'intimo della coscienza
l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve
obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene
e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore:
fa questo, fuggi quest'altro".
Con
chiarezza magistrale, don Dario Composta precisava che il Concilio predica uno
iustum e non di una facultas soggettiva; più un ordine
naturale oggettivo e meno una invenzione degli uomini, un ordine e non un
ordinamento positivo, che dipende dalla natura e, nella sua purezza
istituzionale, dalla storia.
Disconoscere la fedeltà del Vaticano II alla
dottrina di sempre, almeno in questo caso, non è seriamente possibile. La
Gaudium et spes, affermando un ordine naturale derivante
da Dio, indica la via d'uscita dalle illusioni intorno all'uomo legislatore
supremo, chimere che dalle empiamente pie pagine di Kant si discendono nelle
statolatrie, che hanno offuscato l'età moderna.
E' quasi inutile
rammentare che da tali dottrine dipendono le mostruosità giuridiche (aborto,
eutanasia, famiglia pederastica, procreazione eterologa, manipolazioni genetiche
ecc.) che oggi avviliscono e tormentano le società sedicenti libere e
progredite.
Purtroppo alcuni
autorevoli e ufficiali protagonisti del Vaticano II interpretarono a
modo loro il chiaro insegnamento del Concilio e in tal modo fecero cadere sul
dogma l'ombra della perdente modernità.
Negli agitati e
roventi anni del post-concilio, don Composta ha dimostrato che il gesuita Karl
Rahner, insieme con un'effervescente risma di teologi modernizzanti, sosteneva,
con allarmato e forse finto candore, che l'uomo d'oggi non si convince
facilmente che si diano realtà e norme immutabili.
Allarme che
continua ad essere gridato ipocritamente dalle velette della navi teologiche
fuori rotta.
Fine nascosto nel
tormentoso grido di allarme, infatti, è dimostrare la necessità di modernizzare
e addolcire la dottrina cattolica ossia renderla adatta al pensiero
dell'uomo da bar e da giornale, che si definisce adulto e
vaccinato.
[Se non fosse nota
la tartuferia dei teologi modernizzanti sarebbe il caso di rammentare agli
scopritori del dubbio nella coscienza dell'uomo contemporaneo, che la difficoltà
a riconoscere realtà e norme immutabili fu dichiarata anche da pensatori
pre-moderni, ad esempio sofisti, epicurei, gnostici, catari, averroisti,
frankisti e libertini].
Imperterriti
Rahner e i teologi della sua scuola insinuavano che in metafisica occorre
riferirsi a deduzioni trascendentali e non a dati empirici (Cfr.: Dario
Composta, Teologia del diritto naturale, Brescia 1972, pag.
53).
Fatta cadere dalla
finestra del Vaticano II, la fuorviante filosofia morale di Kant è rientrata in
chiesa dalla porta della teologia postconciliare.
E rientrando ha
seminato gli stati d'animo confusionari che attualmente agitano i teologi e i
prelati ostili all'insegnamento di Benedetto XVI sui princìpi non
negoziabili.
A questo punto
sorgono spontanee alcune domande: perché il buon grano seminato dal concilio,
negli scritti di alcuni eminenti padri conciliari e di molti pastori si è
trasformato nel loglio delle teologie avventurose e delle prediche senza
sale?
E' possibile che
l'ammirazione per la modernità, in corsa senza controllo tra le righe della
pastorale, abbia oscurato le verità dogmatiche solennemente affermate
dal Vaticano II?
Si può escludere
che gli avventurosi annunci di una splendida primavera
cattolica abbiano incoraggiato le tesi sulla chiesa che si adegua alla
modernità trionfante in mezzo a fumi satanici?
Perché Kant gode
di tanto prestigio nei circoli del progressismo cattolico, quando la filosofia
kantiana è ridotta a orticello coltivato solo da appassionati dell'antiquariato?
Paolo Pasqualucci, in un saggio edito dalla Fondazione Capograssi, ha demolito
le colonne portanti della filosofia kantiana: perché nel mondo cattolico
circolano ancora pensieri ispirati dalla pia e infantile soggezione nei
confronti del criticismo?
Per quale breccia
i rottami del pensiero moderno sono penetrati nella teologia postconciliare per
generare errori datati, dubbi senza fondamento, immotivata sfiducia nella
tradizione e false attese?
In definitiva,
come si può abbattere la confusione imperversante nella Chiesa senza mettere a
rischio il primato petrino?
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