domenica 7 aprile 2013

MONS. BRUNO GHERARDINI: ERMENEUTICA DELLA CONTINUITA' O ERMENEUTICA DELLA ROTTURA?

MONS. BRUNO GHERARDINI: ERMENEUTICA DELLA CONTINUITA' O ERMENEUTICA DELLA ROTTURA ( Le oscillanti tesi sulla Tradizione nei documenti del Concilio Vaticano II )

(di Piero Vassallo) Per la fede illuminata, per la benigna profondità del pensiero, per la stupefacente erudizione e per l’obbedienza al sommo Pontefice, monsignor Brunero Gherardini è ritenuto universalmente legittimo erede e continuatore della prestigiosa scuola teologica romana e sicura guida alla corretta lettura dei non sempre univoci documenti del Vaticano II.
Nel numero 3/2012 dell’autorevole rivista “Divinitas”, mons. Gherardini pubblica un saggio di ermeneutica della continuità, un testo magistrale, che finalmente dirada le nebbie, fatte scendere dall’immotivata euforia degli scolarchi modernizzanti sull’antica, indeclinabile dottrina, che contempla le due fonti della Verità cattolica, la Tradizione e la Sacra Scrittura.
La finalità dello scritto inteso a far chiarezza, dopo tanti fraintendimenti, sul concetto di Tradizione, è ristabilire l’unità cattolica, oggi insidiata dalle aspre dispute intorno all’ermeneutica della continuità o all’ermeneutica della rottura.
Afferma mons. Gherardini: “C’è un valore di fondo, cui di necessità si richiama l’ermeneutica della continuità, sistematicamente infranto, però, da quella della rottura: la Tradizione. Se si riesce ad impostarne correttamente l’argomento, i lamentati litigi fra le due ermeneutiche non avran più motivo né occasione d’insorgere, anzi, non potranno più esserci due ermeneutiche. Dal canto loro pastori, teologi, studiosi e lettori del Vaticano II troveranno, in questo stesso valore, la chiave di volta per un’obiettiva e corretta interpretazione conciliare”.
Correttamente l’Autore avvia il suo ragionamento stabilendo l’esatto significato della parola Tradizione: “La spiegazione etimologica di tradizione descrive un arco linguistico che, con radici nel lontano ebraico/aramaico, risale attraverso il greco e il latino e si riproduce come un calco dell’espressione latina nella lingua italiana, così come in altre lingue e sempre con lo stesso significato di trasmissione-consegna”.
Stabilito che la comunicazione orale è lo strumento della Tradizione e che la Tradizione emerge come fonte della Fede e della Verità rivelata, l’Autore rammenta che gli apostoli hanno derivato il loro concetto di Tradizione molto più dal mondo giudaico che da quello ellenistico: “stando al pensiero di J. Raft, si tratta sempre e comunque d’una tecnica di trasmissione e comunicazione orale della verità rivelata, della qual cosa fa fede lo stesso Paolo, il quale trasmette, secondo il modello della scuola rabbinica cui appartiene, quanto ha egli pure ricevuto. Con lui ne fan fede le comunità cristiane che accolgono il messaggio degli apostoli come quello stesso di Cristo“.
In tal modo è dimostrato che la Tradizione “è la vita stessa della Chiesa, oltre che la sua Fede e la sua prassi, solo se è apostolica”. La Tradizione ovviamente non la Sacra Scrittura, che “trova anzi in questa la sua fondazione. E’ essa stessa evangelo o lieta notizia come lo è la scrittura, pur non essendo unum et idem né qualitativamente né quantitativamente, con essa”.
Il riconoscimento delle due fonti della Fede cattolica – “la teoria delle due fonti, una indipendente dall’altra ma ambedue collegate insieme dal Magistero ecclesiastico nell’unità di un’unica e medesima Fede” - allontana la tentazione di menomare alcune verità di Fede ad esempio i dogmi mariani, dedotti dalla Tradizione e non dalla Sacra Scrittura. Una tendenza rovinosa, che si è impadronita del pensiero degli ermeneuti della discontinuità, suggestionati e infatuati dall’errore intorno alla sola scriptura dettato dalla rabbia antiromana a Martin Lutero.
Opportunamente l’Autore cita l’insegnamento solenne del Concilio Tridentino e del Vaticano I, che conferma la dottrina sulle due fonti della Fede. E ai teologi che insistono sul fatto che il Tridentino non cita espressamente le due fonti replica umoristicamente: “se il Tridentino non parla di due fonti, è solo perché confida nella capacità dei suoi destinatari d’arrivare a due sommando uno-più-uno e d’ammettere come incontestabile la decisione infallibile del Concilio circa l’esistenza di tradizioni non scritte, distinte in quanto tali dalla tradizione biblica”.
Rassicurato e sostenuto infine da incontestabili argomenti, l’Autore può ignorare la temeraria opinione dei teologi che giudicano ereticale la qualunque flebile obiezione ai testi del Vaticano II e affrontare la delicata e tormentata questione della continuità della Costituzione dogmatica “Dei Verbum” con la Tradizione cattolica e, in special modo, con il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I.
Al proposito è citato il paragrafo 7 della “Dei Verbum”, in cui il messaggio cristiano “vien subito allacciato a due distinti tipi di comunicazione: quello orale della predicazione stessa e quello scritto in cui la predicazione si travasa come annuncio della salvezza”.
E’ dunque stabilito che alcuni punti della “Dei Verbum” sono in linea con l’insegnamento del Tridentino. L’Autore elenca la predicazione apostolica come contenuto della Tradizione, la sua durata fino alla fine dei tempi, il suo progresso relativo mediante un’ulteriore comprensione e spiegazione più profonda della rivelazione, la sua aperta professione di fede nell’azione dello Spirito Santo, la sua distinzione dal testo scritto.
Di seguito l’Autore rammenta che in Dei Verbum 9 la fedeltà al Tridentino e al Vaticano I è indebolita e diluita: “circa il rapporto fra Tradizione e Sacra Scrittura le congiunge entrambe in base alla medesima sorgente divina dalla quale scaturiscono e le congiunge a tal punto da farne in certo qual modo una cosa sola”.
E’ evidente che una tale variazione esige un chiarimento. Si manifesta infatti l’ineludibile necessità di stabilire “se il Vaticano II debba considerarsi l’ultima effervescenza sul tronco sempre vivo della Tradizione oppure – come sostengono i bolognesi – l’inizio di un Cristianesimo nuovo e di una nuova coscienza della Chiesa”.
L’Autore propone di orientare l’ermeneutica della continuità alla puntuale, solenne verifica della continuità e della rottura nei singoli documenti del Vaticano II e dei suoi pronunciamenti.
Ultimamente la richiesta ha per oggetto “un voltafaccia nei confronti di un postconcilio che ha fatto della tautologia l’unico criterio della sua presunta analisi critica: ha spiegato ripetendo alla lettera tutto quello che intendeva spiegare“.
Benedetto XVI ha iniziato l’opera del voltafaccia (eretico secondo l’opinione del cabaret teologizzante) dimostrando che nella Gaudium et Spes si propone il dialogo con il mondo moderno ma non si formula una credibile definizione di esso. Il tabù del Concilio bolognese è infranto. La via indicata da mons. Gherardini è finalmente percorribile


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Mons. Brunero Gherardini
Quod et tradidi vobis
La Tradizione
vita e giovinezza della Chiesa
Quest'ultimo libro di Mons. Gherardini, esamina il concetto di Tradizione allo scopo di contribuire alla fissazione di un criterio cattolico generale di questo termine che, a partire dal Vaticano II, ha subito ogni sorta di forzature per far coincidere la Tradizione cattolica con le più disparate opinioni di teologi e ricercatori.
In particolare l'Autore mette bene a fuoco il vero significato dell'espressione “tradizione vivente”, di cui troppo s'è abusato a partire dal Concilio per far passare l'idea che la Tradizione cattolica abbia una valenza “evolutiva” del tutto paragonabile alla concezione evoluzionista moderna.
La fissazione di questo criterio, e la sua accettazione universale, è condizione indispensabile per il lavoro di revisione dei documenti conciliari “alla luce della Tradizione”, appunto. A sua volta chiave di volta per comprendere il senso vero, e realmente praticabile, di quella che oggi viene chiamata da molti “ermeneutica della continuità”.
Non un semplice lavoro di corrispondenza dei testi si richiede, e quindi un ulteriore lavoro di interpretazione degli stessi, bensì un attento esame di questi testi in relazione ai principi che la Tradizione contiene e che ha trasmesso ininterrottamente per quasi duemila anni.

Il libro ha una decisa caratura teologica e l'Autore lo ha scritto proprio avendo in vista i lettori in possesso di competenze teologiche. Ne sono prova le tante citazioni di testi di teologia. E ciò nonostante è un libro di agevole lettura e di facile comprensione, tale da costituire un buon testo di riferimento per chi volesse mettere a fuoco il senso della Tradizione della Chiesa cattolica, ed orientarsi nel dedalo dell'attuale pubblicistica cattolica.

Mons. Brunero Gherardini, Quod et tradidi vobis. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV), 2010, formato 15 x 23, pp. 460, € 25,00




Il libro, reperibile nelle librerie cattoliche,
può essere richiesto direttamente alla casa editrice:

Casa Mariana Editrice
Strettoia Santa Teresa degli Scalzi, 4

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Per rendersi conto del tenore del libro, pubblichiamo
il prologo, scritto dall'Autore
e
l'indice del libro

Qualche informazione su Mons. Gherardini






Prologo

Titolo e sottotitolo non son affatto ermetici: riguardan la T r a d i z i o n e ecclesiastica. Tuttavia, credo opportuno premettere qualche considerazione.

l - Alla Tradizione la coscienza cristiana dedicò sempre, fin dagl’inizi, un’adeguata riflessione. Le grandi monografie sull’argomento son, però, opera della teologia moderna. Dopo l’intenso dibattito sorto in ambito tridentino e concluso da una ben nota definizione conciliare sul fatto e sul concetto di Tradizione, il tema fu ripreso con intenti decisamente contestatari dal Secolo dei Lumi, le cui conclusioni ed il cui spirito furon poi la culla nella quale la dissoluzione modernistica della Tradizione sarebbe cresciuta e si sarebbe trovata a proprio agio.
A tale dissoluzione, alcuni teologi - e certamente non gli ultimi venuti - opposero di volta in volta e con indubbia efficacia il frutto delle loro ricerche e del loro “intellectus fidei”. Al loro nome son legate le monografie di cui sopra, in special modo quelle di J. B. Franzelin e L. Billot, in seguito continuate e precisate da Y. M.-J. Congar, A. Deneffe, P. Lengsfeld, A. Michel, J. Ranft, G. H. Tavard, J, R. Geiselmann, H. Holstein, J. Beumer e tanti altri ancora. In genere, si tratta d’opere davanti alle quali sta non “lo spazio d'un mattino”, ma l’oggi e il domani. È quindi logico che qualcuno mi chieda se ci fosse proprio bisogno del mio intervento. Che proprio io dovessi intervenire e che il mio intervento fosse necessario in assoluto, son il primo a negarlo. Ho peraltro la consapevolezza che il mio non è un intervento di ripetizione. P. es., mentre mi trovo in sostanziale armonia con Geiselmann, qualche perplessità suscita in me Tavard; e mentre seguo in gran parte l’opera di Beumer, ne rifiuto l’acritica adesione al Vaticano II. Nemmeno lo scritto di Congar, un po’ confuso ed eccessivamente didascalico, mi convince molto né m’entusiasma. Quanto a Deneffe, che pur ha scritto una delle opere migliori sulla Tradizione, mi discosto dalla sua identificazione di Tradizione e Magistero. Anche se, per quanto mi riguarda, su quest’argomento mi soffermo poco, son di parere nettamente contrario.
Quanto al mio intervento, il titolo proviene notoriamente dall’apostolo Paolo, il quale, in l Cor 11,23, introduce così il racconto dell’istituzione eucaristica. Alla giovane comunità di Corinto, dove non mancan abusi e deviazionismi, rivolge un salutare richiamo perché la fede sia vissuta con totale e cordiale adesione alla sua fonte genuina. Si tratta d’una fonte non già umana, né puramente storico-letterararia, anche se passa attraverso la testimonianza degli uomini e le maglie della storia. Ciò che d’umano e di storico la caratterizza non costituisce la fonte in sé e per sé, ma indica la mediazione che la veicola ad una libera e responsabile scelta. La fonte, in effetti, è rivelata. Parte da Dio. È sua parola. Una parola non al vento, ma alla coscienza dei destinatari, ai quali Dio la rivolge.

1/1 - In forma diretta ed immediata quella parola fu rivolta alla Chiesa nella persona di coloro che, fin dall’inizio, eran considerati le sue colonne (Cf G1 2, 9): gli apostoli, nel cui collegio una chiamata d’eccezione (1) inserì pure Paolo di Tarso, il convertito sulla strada di Damasco (At 9,3-9).
L’annuncio dell’avvenuta Rivelazione e del suo contenuto - un annuncio ufficiale, in nome cioè della Chiesa che ne aveva avuto il sacro deposito dal suo divin Fondatore - fu tra i compiti precipui degli apostoli e di coloro ai quali essi stessi l’affidarono perché si perpetuasse nel tempo. E “Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato ad esser apostolo e destinato alla proclamazione dell'Evangelo” (Rm l,l), fa appello a questa sua qualità e conseguente responsabilità e trasmette ai Corinzi la Fede ch’egli stesso ha ricevuto.
Come l’abbia ricevuta fa parte delle sue confidenze e del suo racconto; è quindi un fatto acquisito. Egli è apostolo perché scelto come tale non da questo o da quello, ma dallo stesso Cristo (Gal l,l). Il riferimento all’evento di Damasco che lo trasformò da persecutore a confessore e lo pose al servizio di Cristo e della Chiesa è qui evidente. Evidente è, alla base di tutto, una manifestazione diretta; quello ch’egli predica non proviene da un insegnamento umano, ma “da una rivelazione di Gesù Cristo - αλλα δι αποκψεωσ ’Ιησου Χριστου” (Gal 1,12). L’espressione rievoca certamente un fatto straordinario. È la stessa con cui, “quattordici anni dopo”, giustifica la sua seconda ascesa a Gerusalemme (Gal 2,2).
Subito dopo Damasco, era stato accolto in seno alla Chie¬sa. La Rivelazione ricevuta direttamente da Cristo passò allora attraverso la voce della Chiesa stessa; e ne ebbe conferma. Poi, tre anni dopo, il convertito “rese omaggio” (ιστορεσαι) a Pietro e si fermò “quindici giorni con lui” (Gal 1,18); fu l’occasione d’una prima verifica del suo “Evangelo”. Nella circostanza del suo secondo ritorno a Gerusalemme, confessa candidamente d’aver “confrontato” la sua predicazione con quella degli altri apostoli, per accertarsi di “non correre invano” (Gal 2,2). Dal confronto con coloro che, nella stima comune, eran alla guida della Chiesa (cf Gal 2,2), uscì con la confermata coscienza d’una predicazione in tutto conforme a quella delle “colonne” ecclesiali - gli altri apostoli - con l’eccezione d’alcune circostanze esterne e non sostanziali. Ben poteva perciò dichiarare di trasmettere ciò che - da Cristo e dalla Chiesa - aveva egli stesso ricevuto.

1.2 - Ho parlato di forma diretta ed immediata. Ma la vicenda stessa di san Paolo fa capire - a me sembra chiaramente - che perfino per lui ci fu anche una forma indiretta e mediata.
Riportiamoci sulla via di Damasco per assister ancor alla drammatica scena descritta in At 9,3ss. L’ex persecutore, rialzatosi cieco da terra, venne accompagnato “per mano” in città, dove Anania, un discepolo, l’accolse fraternamente, “gl’impose le mani” in segno di benedizione e lo battezzò. Altri discepoli, stupefatti per il suo cambiamento o dubbiosi ancora, lo trattennero in città “alcuni giorni”. Non si sa quanti, ma furon sufficienti perché da Anania e dagli altri apprendesse “la buona notizia” e subito dopo la trasmettesse, predicando Cristo in quelle sinagoghe (At 9,10-22). La dinamica del “ricevere-trasmettere” è qui fuori discussione. Ma è ormai indiretta e mediata: Paolo ritrasmette quello che ha ricevuto. È la dinamica della παραδοσισ, la quale è la vita stessa della Chiesa: un’ininterrotta trasmissione dell’eredità apostolica.
A suo tempo si vedrà come una siffatta trasmissione fu messa in moto, con lo scopo che non subisse alcun arresto né alcun’innovazione in processo di tempo e continuasse a normare per sempre la vita della Chiesa con l’eredità degli apostoli. Ebbe così inizio la trasmissione ecclesiale, priva della sua prima caratteristica di comunicazione diretta ed immediata. Con la morte dell’ultimo apostolo - san Giovanni - la Rivelazione si chiuse. Da allora, il Cristianesimo vive non già di nuove rivelazioni, non di nuove dottrine, non d’una Fede nuova, ma di quell’unica Rivelazione ed unica dottrina ed unica Fede che, predicata da Cristo e dai suoi apostoli, attraversa il tempo del “già e non ancora” mediante il ministero della Chiesa.

1.3 - Mediante, vale a dir in forme spazio-temporali che si rifanno a valori originari ed ormai lontani, ne ripeton la normatività sempre attuale, li fanno rivivere. È questa la vita della Chiesa: una continuità mediante l’aggancio all’originario e la sua inalterata attualizzazione. Ciò che ella ebbe in origine, è ciò che ritrasmette in ogni istante del suo “hic et nunc”: in origine le fu consegnato per via diretta ed immediata ciò che, qui ed ora, il suo ministero ne fa una comunicazione indiretta e mediata, in risposta ad una precisa disposizione di Cristo: “Andate in tutt’il mondo ed ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ed insegnando loro a conservare tutto quanto vi ho comandato”. Poi, quasi a rivendicare per sé l’ammaestramento in forma diretta ed immediata, aggiunse: “Ecco, io sono con voi o¬gni giorno, sin alla fine del tempo” (Mt 28,18-20). Il maestro, la guida, il pastore è Lui: “non vi lascerò orfani” (Gv 14,18).
Sembra di capire che anche nel mediante - fermo restando e non discutibile lo statuto indiretto e mediato della comunicazione cristiana ad opera dei “mandati” da Cristo - sussiste qualcosa della comunicazione originaria, diretta ed immediata. La Chiesa, è vero e lo si sa, non è un semplice megafono né un ripetitore meccanico; trasmette infatti ciò che ha ricevuto con tutta la sua responsabile soggettività. Ma il maestro la guida il pastore continua ad esser Lui. Misticamente sacramentalmente mistericamente è sempre Lui colui che comunica. Una vera interazione si verifica, dunque, nell’atto stesso della παραδοσισ: dalla trasmissione ecclesiale dei valori ricevuti mediante l’ininterrotta catena del ricevere e ritrasmettere, emerge l’Io di Cristo, “il rivelatore del Padre” (cf 2Cor 4,4; Col 1,15).
Cristo stesso, del resto, aveva affidato al suo Spirito il compito d’attualizzare la propria parola: “Fin a che son rimasto in mezzo a voi, vi ho comunicato queste cose. Poi il Padre manderà il Paraclito, cioè lo Spirito Santo, il quale vi ripeterà tutto quello che v’ho insegnato io” (Gv 14,25-26). “E quando questo Spirito della verità sarà venuto, v’introdurrà – οδηγησει - nella verità tutt’intera” (Gv 16,13).
Questi due ultimi testi hanno un’importanza decisiva per la storia della Chiesa, a condizione che non se ne equivochi il genuino significato. Nella sua sostanza, infatti, la verità che lo Spirito Santo trasmetterà alla Chiesa non avrà nulla di nuovo: sarà costituita da “tutto quello che v’ho insegnato io”. Il fatto, poi, che lo Spirito Santo introduce la Chiesa in tutta la verità, non significa che la “revelatio” di Cristo, perché parziale, verrà integrata dalla “suggestio” dello Spirito Santo; significa invece che, grazie a codesta “suggestio”, saranno scoperti, della Rivelazione di Cristo, aspetti prima in tutto o in parte nascosti o moduli espressivi meno inadeguati.
A questi due testi non pochi, oggi, fan risalir errori e contraddizioni evidenti tanto quanto stridenti rispetto alla comunicazione originaria. Come se Dio, verità sostanziale che non inganna né s’inganna, si correggesse nel rinnovarsi del suo rapporto con l’uomo e con la storia. Come se questo rapporto fosse in tanto nuovo, in quanto allineato con la cultura del momento, ignorando superando o azzerando il passato, recente o remoto. S’è infatti convinti che lo Spirito Santo tutto legittimi e perfino il contrario di tutto, fosse pur un’eresia. Introducendo nei gangli vitali della Chiesa ciò che ieri si riteneva errore, se ne coglierebbe non “frutti di cenere e tosco”, ma un’efflorescenza nuova ed attuale della verità quale “qui ed ora” si rende visibile. In tal modo verrebbe garantita alla Chiesa una vitalità sempre nuova e rigogliosa, proprio perché prima nemmeno intravista. E tutto, anche un assurdo teologico/dogmatico, diventerebbe la novità, che lo Spirito della verità farebbe scaturire come giovane e vitale virgulto dal vecchio ceppo della prima Rivelazione, dimostrandone tutta l’imperitura e rinascente vitalità.
Anche il Tridentino si richiamò ai due testi giovannei, ma con ben altro intento ed altro significato. Tra le sue righe, specie là dove si parla delle verità predicate da Cristo o (suggerite) dallo Spirito Santo (2), riemerge, come culla della novità, la prima comunicazione diretta ed immediata. Da tutto l’insieme perfino l’ombra della contraddizione e dell’assurdo è assente. La novità vien legittimata da una “conditio sine qua non”: quella dell’ “eodem sensu eademque sententia” (3) .

2 - Se la spiegazione d’un titolo che proprio sibillino non sembra, a queste considerazioni - ma anche ad altre, per il momento taciute - ha portato, le parole con cui è formulato il sottotitolo parrebbero ancor men bisognose di precisazioni e d’osservazioni ermeneutiche, grazie alla loro chiarezza ed alle stesse discussioni di questi ultimi tempi.

2.1 - Può darsi che anch’io abbia dato un contributo a codeste discussioni con il mio recente scritto sull’ermeneutica del Vaticano II (4). Certo è che l’impatto è stato vastissimo e vivace; se n’è parlato e si continua a parlarne. E la discussione verte preminentemente sulla Tradizione: una realtà vivente, o un soprammobile del passato?
Non ho alcuna intenzione d’anticipar a questo prologo il nucleo di fondo della mia riflessione. Ma allo scopo di render questa medesima riflessione non puramente teorica ed astratta e di convincer il lettore, fin da subito, sulla provata necessità della discussione, se non proprio sulla sua ineludibilità per alcuni aspetti riguardanti la vera Fede cristiano-cattolica, ritengo che il sottotitolo debba esser adeguatamente sviluppato.
Nessuno s’aspetti d’incrociare, attraverso le sue letture, qualche difensore dell’alternativa sopra indicata. Credo che nessuno formuli la domanda in termini così nettamente alternativi. La maggior parte, anzi, anche di coloro che parteggian per la c. d. Tradizione vivente, si dichiara a favore della Tradizione apostolica, di cui intende metter in evidenza la vitalità imperitura, la capacità di corrisponder alle attese di sempre, la funzione di tacitarle assumendone in proprio le acquisizioni scientifiche e come proprie proclamandole, la sintesi della verità cristiana nella “geltende Lehre” di schleiermacheriana memoria (5) con conseguente integrazione di Cristianesimo e cultura imperante.
Sì, l’alternativa parrebbe del tutto estranea agl’intenti critici di chi si schiera a difesa della Tradizione vivente. Lo sanno tutti che nessuna verità può aver diritto di cittadinanza nel complesso delle verità cristiane se in concorrenza con esse, o a sostituzione anche parziale d’una sola di esse. Le verità rivelate godono dell’intangibilità ed inalterabilità di Dio; le altre in tanto sono, in quanto cambiano. Si potrebbe applicar loro una famosa ed acuta osservazione agostiniana: “Mutantur enim, ergo creata sunt”. Il loro stesso adattarsi agl’imperativi del momento esclude che vengan da Dio, la cui parola “dura per sempre” (Sal 119/118,89).
L’alternativa è, allora, assente dall’orizzonte teologico dei fautori della Tradizione vivente? Non lo direi. Da quando l’aggettivo “vivo/vivente” fece il suo ingresso nel Vaticano II (6) portandovi un significato ignoto all’uso che prima se ne faceva, l’alternativa è in atto. In alcuni teologi e pastori, in modo acritico e superficiale, in ossequio alla “svolta” conciliare, sotto la spinta emotiva dell’ondata innovatrice che il gruppo di Bologna (Alberigo e colleghi) era riuscito a diffondere ovunque, giustificandola all’insegna d’una Chiesa pre- e d’una Chiesa postconciliare. Chi infatti considerava il Vaticano II come l’evento epocale che aveva conferito un assetto nuovo alla Chiesa, un nuovo inizio, una nuova autocoscienza, celebrandone il trionfo sulle ceneri del vecchiume tridentino e scolastico, non era affatto tenero per la Tradizione che, fin a poco prima, aveva sorretto proprio quel “vecchiume”. Davanti a sé aveva solamente “il sol dell'avvenire” e ne preparava l’avvento mediante tutto ciò che di vivo e vitale fosse reperibile nella matrice cristiana. La “nuova Pentecoste” e l’“ondata di primavera”, espressioni ormai proverbiali dopo che Giovanni XXIII aveva in esse sintetizzato il Concilio (7), escludevan uno sguardo a ritroso verso quei valori che il tempo aveva inesorabilmente usurato - qualcuno parlava pure di “nuova primavera”, come se l’alternarsi di essa alle stagioni precedenti potesse anche farne qualche cosa di vecchio -. Son fatti, questi, ch’escludon perentoriamente il bilanciarsi delle posizioni tra l’una e l’altra Tradizione. Che lo si dicesse o no, la scelta e le simpatie avevan una sola direzione, quella della Tradizione vivente.

2.2 - Che di natura sua il Magistero ecclesiastico sia vivente fa parte delle certezze illustrate e suggellate dalla dottrina teologica. Quando, solo per portar un esempio, san Tommaso fa intervenire il Magistero per render più esplicita una verità di Fede e per adeguarne la proposta al superamento d’incomprensioni ed errori (8) , ne dimostra l’intrinseca vitalità. E quando dalla sponda del Magistero si passa a quella della Tradizione per ricuperarne la qualità apostolica e risponder agl’interrogativi del momento con la dottrina proveniente dagli apostoli, non il Magistero soltanto si rivela vivo e vitale, ma anche la Tradizione. Questa, cioè, dimostra la sua immanente ed immutabile vitalità in quanto “deposito sacro” di quella divina verità che il Magistero eredita dagli apostoli e ripropone in quanto tale e che, in quanto tale, trascende ogni limite di tempo e di cultura. La qual cosa mai si verificò, né mai si verificherà per nessun sistema nato nel tempo, espressione del livello culturale di quel tempo e perciò stesso destinato a tramontare insieme con esso.
L’eredità apostolica ha una vitalità che trascende ogni limite spaziotemporale, perché raccoglie nel “sacro deposito” affidato al Magistero qualcosa d’assoluto: la verità rivelata da Cristo nell’intero arco della sua esistenza terrena, compresi i giorni tra la sua risurrezione e la sua gloriosa ascensione. Essendosi definitivamente chiusa la Rivelazione pubblica con la morte dell’ultimo apostolo, si chiuse pure con essa quel periodo transitorio che s’era aperto con la prima Pentecoste cristiana, durante il quale lo Spirito Santo aveva dato inizio alla sua missione di ricordar alla Chiesa “tutto quello che Cristo aveva insegnato”. Da allora la sua “suggestio” immette nel “sacro deposito” qualche nuovo elemento, estrinseco all’insegnamento di Cristo, ma in grado di confermarlo e d’approfondirne la conoscenza. Quando ciò avviene, entra nel “sacro deposito” non una nuova rivelazione, ma un nuovo raggio di luce che illumina la verità rivelata da Cristo (9).
Nient’altro potrà più entrarci. Nient’altro, da allora alla fine del mondo. È questo il tempo del “già e non ancora”, riempito illuminato e signoreggiato - per quanto attiene alla vita cristiana e all’eterna salvezza - da Cristo e dallo Spirito Santo: una presenza che mantiene la Tradizione apostolica sempre viva e sempre vivificatrice perché sempre se stessa nel volger inarrestabile dei secoli.

2.3 - Ciò non ha nulla a che fare con il fissismo e l’immobilismo dogmatico, rimproverato a Roma - non solo alla teologia della Scuola Romana, ma anche alla Curia romana, alla Santa Sede, agli organi di governo e di magistero ecclesiastico -. Fronteggiò queste accuse il beato Pio IX soprattutto con il Syllabus del 1864 e fece altrettanto san Pio X con i suoi interventi antimodernistici. Dunque, non solo un no all’immobilismo, ma anche un sì ad una visione evolutiva della Tradizione. Anche se ne parlerò più diffusamente in fase espositiva, dev’esser chiaro fin d’ora che la Tradizione è viva non se cambia i suoi connotati, ma se li mantiene; e li mantiene non per sclerotizzarli, ma per precisarli sempre meglio.
Si vedrà a suo tempo che la vitalità della Tradizione è dovuta, paradossalmente, ad un non negoziabile sbarramento d’ingresso per ogni progresso sostanziale o intrinseco di essa. Per capir di che cosa si tratti, basta riferirsi al pericolo mortale, subdolamente teso alla Fede e alla Chiesa dai campioni più rinomati del modernismo, quando il dogma veniva da loro dissolto nel suo contrario con l’immissione di dati emergenti dalla cultura del tempo, dalle scienze cosiddette umane e segnatamente dalla psicologia (“e latebris subconscientiae” [10]), dalle filosofie immanentistiche e razionalistiche, dalle metodologie c. d. critico-scientifiche. La rivelazione diventava un’illuminazione soggettiva del senso religioso, Dio non ne era più l’autore personale e trascendente; e suo contenuto non eran più le verità oggettivamente e storicamente da Lui rivelate. Tutto si risolveva sul piano della coscienza individuale, del sentimento, della cultura, della storia e del suo “eterno” movimento.
Forse pochi altri movimenti eterodossi furon più del modernismo responsabili d’un piano così terribilmente eversivo del dogma cattolico. Sottoposto ad un suo movimento interno che ne dissolveva il contenuto e si concludeva, sia pur temporaneamente, con un suo sostanziale cambiamento, il dogma modernisticamente corretto e riveduto era sempre qualcos’altro. Si vide in ciò il suo “progresso sostanziale”; senza l’opera di san Pio X, sarebbe stato la tomba di se stesso.
Eppure, va detto con altrettanta chiarezza e fermezza che la vitalità della Tradizione apostolica non impedisce del dogma un miglioramento espressivo-conoscitivo, detto sintomaticamente progresso accidentale. Si tratta d’un progresso estrinseco, estraneo alla natura d’un dogma in particolare, o del dogma in quanto tale. A solo titolo d’esempio, riporto l’attenzione al grande e grandemente bistrattato Pio IX. Nel 1854, come ognuno sa bene, proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione (11) . Se, con tale definizione, avesse inteso:
• aggiungere nel “sacro deposito” delle verità rivelate una nuova e fin a quel momento sconosciuta verità;
• arricchire d’un nuovo contenuto dogmatico l’esperienza originaria della Rivelazione;
• ed affermar il ripetersi degli atti rivelatori anche dopo la morte dell’ultimo apostolo,
avrebbe operato un cambiamento veramente sostanziale della Tradizione apostolica, della Rivelazione e dello stesso dogma. Della Tradizione, infatti, avrebbe dilatato i margini contenutistici al di là del “sacro deposito” che la Chiesa ha ereditato da Cristo e dagli apostoli; della fonte rivelata avrebbe considerato tuttora aperto e mai prima d’ora chiuso il flusso rivelatorio; del dogma avrebbe dissociato il rapporto “fondativo” con codesta medesima fonte, nei limiti storici e dogmatici entro i quali essa è conclusa.
Nulla di tutto questo è ascrivibile al beato Pio IX. Va intanto ricordato che né inventò lui la pia credenza nell’Immacolato Concepimento di Maria - riconosciuto, certo a modo suo, perfino da Lutero (12) - né convertì la pia credenza in dogma con un coup de théâtre. I precedenti storici, le commissioni di studio, i pareri raccolti presso tutto l’episcopato son dati di fatto storicamente accertati. Con la definizione e dopo di essa, la Fede cattolica non registrò alcun cambiamento sostanziale, rimanendo quella ch’era sempre stata. Il cambiamento ci fu, ma esclusivamente sul piano d’una più profonda intelligenza del dogma cristologico e d’un passaggio dall’implicito all’esplicito.

3 - Quando leggo o ascolto eminenti teologi che, dall’alto della loro raffinata intelligenza e sconfinata cultura, apron con evidente convinzione - e qualcuno spalanca -la Fede al mondo per integrar in essa principi e metodi assolutamente inconciliabili con la trascendenza della Fede stessa; quando ne seguo l’affannarsi nella dimostrazione dell’inconciliabile conciliabilità e addirittura dei vantaggi che la verità cristiana potrebbe trarre dall’apporto del sapere profano; quando perfino altissime personalità della Chiesa leggon nel positivismo, nel razionalismo, nel romanticismo ed in genere nell’illuminismo segnali certi d’un’ineludibile provenienza da Cristo e d’una Tradizione che proprio in questo rivelerebbe la sua vitalità, mi si stringe il cuore e mi chiedo se si sappia davvero ciò di cui si sta parlando. Di per sé, cioè nel rigoroso rispetto dei propri e degli altrui confini, il compito d’annunciar la Fede, e di professarla annunciandola in piena conformità alla Tradizione apostolica e non come una “lezione cattedratica”, spetta al “ministro della parola” (At 6,4) e soprattutto al vescovo. Il professore, invece, ne proporrà i termini tecnici e l’analisi scientifica, per dimostrare che fede e scienza, se rispettose dei propri statuti, non si contraddicono. Quando “ministro della parola” e professore son la stessa persona, annuncio e lezione interagiranno, ed anche utilmente, ma solo se s’asterranno da reciproche prevaricazioni.
Un’invasione di campo sarebbe insostenibile: lo scienziato che, con lo strumento del suo metodo sperimentale, sdottoreggia in campo teologico; il giornalista che, solo perché accreditato presso la sala stampa della Santa Sede, s’atteggia a san Tommaso d’Aquino; il teologo che, specie se non digiuno d’infarinature scientifiche, concilia la creazione con il fantasmagorico Big Bang originario e sua disseminazione dell’essere; il pastore, che scambia il pulpito o l’ambone con la cattedra. L’invasione di campo è davvero un caos e caos è quel farneticare degli invasori che nella Tradizione vivente introduce o il tarlo che la corrode, o il veleno che l’uccide.
A chi mi chiedesse una parola più chiara, potrei risponder “tolle et lege”: c'è solo il problema della scelta. Indirettamente, tutt’il presente volume sarà una risposta. Al fine di renderla il più possibilmente accessibile mediante una fondamentale consonanza d’idee tra chi scrive e chi legge, mi rifaccio al titolo di questo volume ed al testo paolino (l Cor 11,23) che l’ha suggerito.
Anche al tempo di san Paolo, specie nella città di Corinto, c’eran non pochi e perfino gravi disordini. Per liberarsene e dar un nuovo assetto alla scomposta situazione determinata da alcuni scontenti, l’apostolo invitò i Corinzi a voltarsi indietro, verso l’inizio. Oggi, al contrario, proprio quella situazione qualcuno avrebbe analizzato - ovviamente in profondità - per valutarne i disordini come un arricchimento della comune esperienza vissuta. Avrebbe osservato che quei disordini nascevan non dalla, ma all’interno della vita cristiana. Potevan esser, perciò, rettificati purificati ed amalgamati nella grande Tradizione apostolica. L’apostolo Paolo fu di tutt’altro avviso. Invitò i Corinzi a discernere i dati costitutivi dell’inizio, per confrontare con essi la situazione del momento e risolverla alla luce del detto confronto. All’inizio c’era stato un ricevere ed un ritrasmettere: “vi ho infatti trasmesso ciò che io pure ho ricevuto”. Nel dire “ciò che” l’apostolo stabilisce un’assoluta coincidenza, anzi un’indiscutibile identità di contenuti fra il ricevere ed il ritrasmettere, in ogni loro margine e senz’alcun’eccezione. Ne consegue che la verità cristiana è reperibile non già nella situazione sopraggiunta, l’ultima nella ridda di tutte le altre, senza connessione con l’inizio o in rottura con esso, ma nell’accennata coincidenza ed identità fra ciò che si riceve e si ritrasmette. Ai Corinzi, pertanto, l’apostolo affida il compito di ripristinare codest’identità ed espungerne ogni deviazionismo dalla Tradizione degli apostoli.
Non diverso sarà il compito sia di chi, oggi domani e sempre, regge in mano i “suscepta gubernacula” di cui parla san Leone Magno (13), sia di quanti son in comunione con lui nel moderare la rotta della Chiesa: davanti ad essi sta l’inizio come faro e punto d’orientamento. Il segreto della Tradizione vivente - di quella forza vitale che ringiovanisce la Chiesa nonostante il passare degli anni e l’irrobustisce nonostante ogni assalto dall’interno e dall’esterno - sarà dunque la fedeltà all’inizio, a quel “ciò che” ricevuto e ritrasmesso che porta la Tradizione stessa nel presente per predisporre il futuro prossimo e remoto.

4 - Aggiungo qualche breve indicazione metodologica, forse superflua, considerando che i lettori del presente scritto saranno soprattutto i teologi. Rifuggendo dalle deprecabili invasioni di campo, mi son fatto scrupolo di rimaner e procedere su un terreno specificamente teologico, lungo i suoi più tipici percorsi. Il discorso sul metodo, si sa, è il discorso sulle strade da battere: metodo significa “attraverso la strada” o “via che conduce oltre”. Sembra ovvio che, svolgendo un argomento teologico, si segua una strada teologica, vale a dir un metodo teologico. Ma quale?

4.1 - Prima, tuttavia, di stabilire quale esso sia, non si può non tener conto del fatto che l’attuale interconnessione dello scibile ha toccato anche il “santuario”. È vero, inoltre, che poche altre discipline hanno, come ha la teologia, contatti e riferimenti al di là del proprio recinto. Filosofia, diritto, storia, psicologia, sociologia ed altre scienze c.d. umane: un ventaglio molto ampio, dal quale il teologo potrebb’esser tentato e perfino disorientato. Per quel che mi riguarda, credo d’esser rimasto nel mio orticello.
Con riferimento più diretto alla questione del metodo, posso dire d’essermi rigorosamente attenuto al principio del decreto conciliare OpT 16/a: “In lumine fidei - sub Ecclesiae Magisterii ductu”. Esso sembra, almen a prima vista, un principio aureo. Pone nella Fede il punto di partenza e l’orientamento sicuro; chiede poi di proceder accompagnati per mano dalla Chiesa.
Affiora subito, peraltro, qualche interrogativo: qual è la Fede che illumina? la mia, cioè quella del singolo credente, che egli crede e per la quale crede, o quella pubblica, sociale, ecclesiale? ed in base a che cosa o l’una o l’altra potrà costituir il “lumen” per il mio orientamento ed il mio avanzamento? dove dovrò attinger questa Fede e dove la sua luce: dalla Sacra Scrittura? dalla mia coscienza? e perché non dalla Tradizione?
Se dalla Tradizione, l’oggetto stesso di tutta la ricerca funge pure da faro d’orientamento. Ma non ne deriva, allora, una contraddizione? o quanto meno una tautologia? una “petitio principii”?

4.2 - Quando i Padri conciliari proclamaron: “In lumine fidei - sub ductu Ecclesiae” forse non vennero nemmeno sfiorati dai suesposti interrogativi. Si può dire, anzi, che non percepiron nemmeno tutta la portata del “ductus Ecclesiae"”. Il quale, lungi dall’abbinarsi con il “lumen fidei", ha di questo il pieno controllo ed esercita a suo favore una funzione formale. Impressiona, a tale riguardo, la frequenza con cui san Tommaso parla di "fides Ecclesiae”, dove il genitivo indica non solo il soggetto d’un possesso, ma anche il titolo di esso e la sua ragione. La Fede, pertanto, che dovrà guidar il mio cammino di ricerca sarà non astratta e generica, ma specifica e garantita dal giudizio della Chiesa. In ultim’analisi, il principio metodologico suggerito dal Vaticano II stabilisce, sì, due condizioni, ma le collega in un rapporto per cui la prima dipende dalla seconda, da questa autenticata e quasi legittimata.

4.3 - La “fides Ecclesiae” è in realtà la Fede oggettivamente ed inequivocabilmente ricevuta precisata formulata e ritrasmessa come propria dalla Chiesa cattolica nell’arco della sua storia più che bimillenaria. È il patrimonio delle verità che ebbe in “deposito” da Cristo e dagli apostoli e che ritrasmise nei secoli con fedeltà sostanziale, se pur non senza qualche passaggio da una minore ad una maggiore chiarezza, né senza qualche conoscenza più piena, più profonda, più chiara delle parti men evidenti del patrimonio stesso. Al termine della ricerca, non sarà difficile per nessuno - questa è la mia speranza - chiamar per nome questa “fides Ecclesiae”: Tradizione apostolica, identificandola con la Tradizione ecclesiastica.

4.4 - I lettori teologicamente più provveduti non avran difficoltà a collegar una siffatta metodologia con le linee maestre d’un’opera ormai completamente dimenticata, ma degna, come il nome del suo autore, il domenicano Melchior Cano († 1560), di rinnovato interesse. Alludo al De locis theologicis (14). L’espressione, nell’improvvisato linguaggio d’alcuni moderni, è diventata sinonimo di tematiche teologiche, mentre in Cano indicava l’elenco delle autorità a sostegno delle singole verità della Fede cattolica. Le elencò secondo l’ordine decrescente del loro valore probatorio: Sacra Scrittura, Tradizione di Cristo e degli apostoli, Chiesa cattolica, Concili ecumenici, Curia apostolico-romana, Santi Padri, Teologi scolastici, Ragione naturale, Filosofi, Storia umana (15). È sintomatico il posto assegnato alla Tradizione, immediatamente dopo la Sacra Scrittura e prima della Chiesa stessa, anche se poi gran parte dell’intero discorso ha un valore prettamente ecclesiologico. E proprio in esso sta la ragione dell’incontro metodologico fra la strada da me seguita e quella suggerita da M. Cano. Anche se mi son astenuto dal portar l’attenzione alla storia delle religioni – un’attenzione di cui Cano si sarebbe avvalso, secondo J. Ranft (16), per dar risalto alla specificità della Tradizione cattolica – l’accennato accostamento metodologico mi sembra evidente nel fatto stesso del premetter la Tradizione alla Chiesa e del ricondurre alla Chiesa la Tradizione. Nel dir Chiesa, in realtà, si dice implicitamente Tradizione. Nella Tradizione la Chiesa trova la divina Rivelazione che la fa Madre e Maestra. Nella Chiesa la Tradizione vive la sua inalterata stagione ed assicura l’identità della “Sponsa Christi”.

5 - Dovrei, a questo punto, elencare le opere alle quali, direttamente o no, la mia si riferisce. In genere, non son molto entusiasta delle lunghe liste bibliografiche, perché né sempre né in tutto “sunt ad rem” ed in qualche caso son semplicemente affastellamenti di titoli. Riconosco peraltro la funzione non solo documentaria, ma anche orientativa d’una buona bibliografia. Ad una tale funzione rispondon, nel mio caso, la nota a piè di pagina, senz’alcuna pretesa né d’esaurire l’elencazione delle opere esistenti, né di segnalar le migliori. Segnalo infatti quelle che mi sono state utili.
Tuttavia, per un argomento di tale e tanta rilevanza, una nota bibliografica minima e ridotta all’essenziale mi sembra doverosa. Così com’è doveroso iniziarla con il nome di:
FRANZELIN J. B., Tractatus de divina traditione et scriptura, Roma 1870 (18964). La prima edizione ha recentemente trovato un bravo traduttore e commentatore francese nella persona di Jean-Michel Gleize (Cardinal Jean- Baptiste Franzelin -1816/1886 - La Tradition, Courier de Rome, s.d.);
BILLOT L., De immutabilitate Traditionis, Roma 1904;
BAINVEL J.V., De magisterio vivo et traditione, Parigi 1905;
RANFT J., Der Ursprung des katholischen Traditionsprinzips, ed. M. Schmaus, Monaco 1931;
DENEFFE A., Der Traditionsbegriff Studie zur Theologie, Miinster 1931;
SALAVERRI J., La tradición valorada come fuente de la revelación en el Concilio de Trento, in “Estudios eclesiásticos” 20 (1946) 33-61;
MICHEL A., Tradition, in DThC XVI/I (1946) 1252-1350;
GEISELMANN J.R., Die Tradition - Fragen der Theologie heute, Einsiedeln 1957; ID., Das Konzil von Trient über das Verhältnis der Heiligen Schrift und die nichtgeschriebenen Traditionen: die mündliche Überlieferung, ed. M. Schmaus, Monaco 1957;
VAN DEN EYNDE D., Tradizione e Magistero, in AA.VV., Problemi e orientamenti di Teologia Dogmatica, 1. Milano 1957, p. 231-252;
PIEPER J., Über den Begriff der Tradition, Colonia 1958;
LENNERZ H., Scriptura sola? In “Gregorianum” 40 (1959) 38-53; ID., Sine scripto traditiones, ivi, p. 624-635;
CONGAR Y. M., La Tradition et les traditions. Essai historique, Parigi 1960; tr. it. di G. Auletta, ed. Paoline 1961;
HOLSTEIN H., La Tradition dans l’Eglise, Parigi 1960;
RAMBALDI G., In libris scriptis et sine scripto traditioni¬bus. La interpretazione del teologo conciliare G. A. Delfino OFM Conv., in “Antonianum” 35 (1960) 88-94;
BEUMER J., Die mündliche Überlieferung als Glaubensquelle, Friburgo i. Br., 1962; tradotto in fr. da P. Roche e P. Maraval, Parigi 1967;
TAVARD G. H., Écriture ou Église? La crise de la réforme, Unam Sanctum 42, Parigi 1963;
PENNA A., La Scrittura come momento della tradizione - la tradizione come contesto della Scrittura, in “Atti della XX Settim. Biblica”, Brescia 1970, p. 151-176 (17).

6 - Manca, in questa nota, ogni riferimento ad opere non direttamente né squisitamente teologiche (18), così come ad alcune elaborazioni teologiche della Tradizione secondo i due Concili Vaticani (19). Sull'influsso di questi due Concili e su coloro che più d'altri se ne fecero assertori convinti, riferirò al momento opportuno.

7 – Un’ultima precisazione. Manca in questi preliminari un elenco di sigle, il ricorso alle quali generalmente vorrebbe semplificare l’esposizione. Ci ho rinunciato, preferendo alla sigla il nome intero, per motivi di chiarezza e di tempo: il lettore avrà sotto gli occhi la citazione nella sua interezza e non sarà più obbligato a verifiche che ne interrompan la lettura.
Qualche sigla, peraltro abituale ai lettori d’altri miei scritti, è l’eccezione che conferma la regola. I documenti del Vaticano II son tutti indicati con la loro sigla abituale: LG per Lumen gentium; GS per Gaudium et spes; DV per Dei verbum; DH per Dignitatis humanae, e così via.

8 - Ho la triste consapevolezza che, a distanza di quasi mezzo secolo dall’ultimo Concilio, ancora non si sia colto di esso una sintesi teologica che ne inquadri l’insegnamento all’interno ed in armonia con l’insegnamento di sempre: con la Tradizione e con lo stesso concetto di essa. Si è indubbiamente parlato in tal senso, ora per auspicare l’accennata sintesi, ora per assicurare che determinate iniziative teologiche - monografie, manuali, articoli, tavole rotonde ed atti di congressi anche ad altissimo livello – s’inseriscano, col Vaticano II, nel solco della Tradizione viva della Chiesa.
Ma, né l’auspicio è realtà, né la realtà è andata oltre il limite della sterile e talvolta ingannevole declamazione. Potrei portare migliaia d’esempi, attingendo direttamente al Vaticano II, ai suoi celebrati interpreti, all’attività della Santa Sede, alle numerose riviste teologiche italiane e straniere, alla valanga di libri ed articoli del c. d. postconcilio, ai già ricordati congressi. Un solo atteggiamento prevale: il plauso. E quando ad esso s’aggiunge una parvenza d’interesse critico, non è per verificare se “l’ermeneutica della continuità” abbia frnalmente smosso le acque, ma per proporre il ridicolo d’accostamenti impossibili, come quello recentemente (15-16 maggio 2009) compiuto da un periodico dal nome glorioso: la “Revue thomiste” e dall’Institut Saint-Thomas d’Aquin di Tolosa (20). Ridicolo, ho detto: non saprei in qual altro modo qualificar un “colloquio” che “si propone di riflettere sul modo con cui l’indirizzo teologico ispirato a san Tommaso d’Aquino possa concorrere ad una ricezione tale del Vaticano II, che onori il Concilio come un atto della Tradizione vivente”. Come se del Concilio bastasse sottolineare “l’aspetto-memoria e l’aspetto-novità” per poter parlare di Tradizione vivente. E come se la memoria fosse di per sé riferibile a fatti di “Tradizione vivente”, e fatti di “Tradizione vivente” venissero in piena luce con la novità. Il colmo, poi, è nella convinzione che ciò possa conseguirsi con l’aiuto di quel san Tommaso d’Aquino che, in tutto il Vaticano II, vien ri¬cordato due sole volte e quasi di passaggio.
È pertanto evidente che, sul concetto cattolico di Tradizione, s’impone un’operazione chiarificatrice. Nella storia della teologia cattolica l’impresa è stata tentata, talvolta egregiamente e qualche altra volta un po’ meno. Mi ci provo anch’io, con l’intento e la speranza d’aggiornare l’argomento.

Dal Vaticano, 31gennaio 2010
Brunero Gherardini

NOTE


1 - Il fatto avvenuto sulla via di Damasco è noto. In At 9,1-19 si nar¬ra la straordinaria trasformazione del persecutore Saulo nell’apostolo e “vaso d'elezione” Paolo. Sui Dodici, cioè sugli apostoli, cf KREDEL E. M., Apostolo, in BAUER J., (a c. di), Dizionario di Teologia Biblica, ed. italiana a c. di L. Ballarini, Morcelliana, Brescia 1965, p. 127-139; ID., Der Apostelbegriffin der neueren Exegese. Historisch-kritische Darstellung, in “Zeitschrift f. kathol. Theologie” 78 (1956) 266-290, 425-444. (su)
2 - CONC. OECUM. TRIDENT., sess IV (8 apr. 1546) DS 1501; cf CONC. OECUM. VATIC. I, sess. III (24 apr. 1870) DS 3006. (su)
3 - Cf. S. VINCENZO DA LERINS, Commonitorium 23 PL 50,667. (su)
4 - GHERARDINI B., Concilio Ecumenico Vaticano II - Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009. In poco più d’un mese si è provveduto ad una seconda edizione e si stan già ultimando varie traduzioni. (su)
5 - SCHLEIERMACHER Fr., Kurze Darstellung des theologischen Studiums, a c. di H. Scholz sulla terza ed. del 1910, Verlag Olms, Hildesheim 1977, §§ 94-97 e 195-231, p. 40-41 e 73-88. (su)
6 - GHERARDINI B., Concilio Ecumenico…, cit., pp. 130-133 (su)
7 - GIOVANNI XXIII, Alloc. 8 dic. 1962 in SEGRETERIA GEN. VA¬TICANO II, Constitutiones, decreta, declarationes, Poliglotta Vaticana 1966, p. 891. (su)
8 - S. TOMMASO, STh 11/2,1,9 ad 2. (su)
9 - A ciò si riferisce il Tridentino distinguendo tra verità di Cristo e dello Spirito Santo. (su)
10 - PIO X, Encicl. “Pascendi dominici gregis”, 8 sett. 1907, ASS 40 (1907) 597-598. (su)
11 - PIO IX, Bolla “Ineffabilis Deus”, 8 dic. 1854, DS 2800-2804. (su)
12 - GHERARDINI B., Lutero-Maria. Pro o contro?, Giardini editori, Pisa 1985, p. 140-147. (su)
13 - S. LEONE MAGNO, Serm 3,3-4 PL 54,146-147. (su)
14 - M. CANO, De locis theologicis lib. XII, Tipogr. Remondiniana, Venezia 1799, spec. p. 4-7. (su)
15 - M. CANO, De locis, cit., p. 4. (su)
16 - RANFT J., Der Ursprung des katholischen Traditionsprinzips, Würzburg 1931, p. 112-113, 248-284. (su)
17 - Ovviamente si dovrebbe far attenzione anche ai manuali di Teologia dogmatica, d’estrazione sia romana che straniera. Quanto all’elenco sopra presentato, si tratta solo d’un piccolissimo “specimen” d’interventi a carattere o storico o dogmatico, non tutti dello stesso valore né tutti dello stesso indirizzo, ma tutti meritevoli della massima attenzione. (su)
18 - Un solo esempio: ZOLLA E., Che cos’è la Tradizione?, Bompiani, Milano 1971. L’opera non è priva d’un suo afflato religioso ed ha soprattutto nella parte esplicativa un’importanza di notevole rilievo. S’oppone - e qui colpisce anche nel segno teologico - ad ogni ricostruzione storicistica della Tradizione, come forma e come contenuto, e difende egregiamente una visione metafisica di essa. (su)
19 - Non si tratta d’un rifiuto, come se i due Concili in parola non avessero una loro dottrina sulla teologia della Tradizione e non avessero avuto un forte influsso sul successivo dibattito teologico. Ne parlerò in fase espositiva e non mancherò di tratteggiare il detto influsso, ricordando pure qualcuno dei teologi che vi s’impegnarono. Questo farò anche per colmare una strana lacuna: né il Beumer né lo Holstein, giustamente ammirati e spesso lodati, son molto sensibili all’influsso del Vaticano I sul concetto di Tradizione. (su)
20 - REVUE THOMISTE - INSTITUT SAlNT-THOMAS D’AQUIN, Vatican II: rupture ou continuité. Les herméneutiques en présence. (su)








INDiCE

Prima parte

Capitolo I - di che cosa si tratta'

1 - Sul piano filologico
2 - Sul piano storico
3 - “In libris scriptis et sine scripto traditionibus”


Capitolo II - All'interno del Nuovo Testamento

1 - Nei quattro Evangeli
2 - Negli Atti degli Apostoli
3 - Nell'epistolario dell'apostlo Paolo


Capito III - radizione - Scrittura - Magistero

1 - La scrittura, “sorgente delle verità salutari e della disciplina morale”
2 - Il Magistero della Chiesa
3 - Natura e funzione del Magistero


Capitolo IV - Nella testimonianza dei Padri

1 - Fin dal 180 circa
2 - Nel periodo postapostolico
3 - Nel periodo aureo e nella fase conclusiva del pensiero patristico


Capitolo V - tradizione e Scolastica

1 - I prodromi
2 - Nella Scolastica
3 - La Tradizione in San Tommaso d'Aquino


Capitolo VI - Dottrina conciliare

1 - Tradizione e Tridentino
2 - Nel Concilio Ecumenico Vaticano II
3 - Nel Concilio ecumenico Vaticano II


Capitolo VII - Tradizione e postconcilio

1 - Devianze postconciliari
2 - La Fraternità San Pio X
3 - La Tradizione vivente


Seconda parte

Capitolo VIII - Dagli apostoli ad oggi, verso domani

1 - parola trasmessa
2 - la Rivelazione
3 - la “predicazione” della Chiesa
4 - Continuità della dottrina appresa dalla viva voce di Cristo e degli apostoli
5 - La parola detta
6 - Né fissismo, né rivoluzione, né semplice riforma, ma sviluppo
7 - La “Regola della Fede”
8 - La Tradizione: un concetto articolato


Epilogo

Indice biblico
Indice deglu autori
Indice generale











Qualche informazione su Mons. Gherardini


Mons. Brunero Gherardini è nato a Prato il 1° febbraio 1925, ed è stato ordinato sacerdote il 29.6.48 a Pistoia
Residente presso la Canonica Vaticana, Città del Vaticano, 00120 Roma

Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi
Canonico nella Basilica Papale San Pietro in Vaticano
Già Professore presso la Pontificia Università Lateranense

Già membro e responsabile della Pontificia Accademia Teologica Romana e della Pontificia Accademia di S. Tommaso, (da cui si è volutamente staccato “quando le Accademie Pontificie vennero "rifondate").
Postulatore della causa di beatificazione di S. S. Pio IX
Direttore della rivista Divinitas.
Riconosciuto studioso tomista, allievo di C. Fabro, ha approfondito lo studio del Protestantesimo e della Riforma in genere.





settembre 2010


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d. CURZIO NITOGLIA
3 agosto 2011
Prologo
● Monsignor Brunero Gherardini ha dato alle stampe la sua ultima fatica: La Cattolica. Lineamenti d’ecclesiologia agostiniana (Torino, Lindau, 2011)[1]. Essa riassume la sua attività sia di professore di ecclesiologia alla Lateranense dal 1968 e sia di Autore degli studi recenti[2] sul problema spinoso dei rapporti tra Tradizione e Concilio Vaticano II.
S. Agostino e S. Tommaso sono i maestri preferiti dell’Autore. Egli nel suo ultimo volume espone l’insegnamento eccesiologico di S. Agostino (+ 430), il quale di fronte al pericolo di frattura e frantumazione, che correva la Chiesa nel suo tempo (donatismo e pelagianesimo), riuscì a “trovare la quadra” tornando alla dottrina di sempre o alla Tradizione apostolica e mostrando come gli errori e le divisioni contemporanei non minano l’unità della Chiesa. Oggi ci si trova in una situazione analoga ove la “Una, Santa, Cattolica e Apostolica” si trova sbattuta dai flutti del mare in tempesta della modernità e post-modernità filosofica, che ha prodotto il modernismo e neo-modernismo teologici, i quali si sono infiltrati nelle menti di molti uomini di Chiesa tanto da far sembrare che Essa stia per soccombere e frantumarsi, si fieri potest.
● Mons. Gherardini risponde al problema dell’ora presente con lo stesso metodo di S. Agostino: il ritorno alla Tradizione apostolica, quale garanzia di unità, continuità, vita e giovinezza della Chiesa sempre Santa nella sua sostanza malgrado gli uomini (buoni e malvagi) che la compongono. Quindi il rimedio alla crisi che attraversano i cattolici oggi e gli uomini di Chiesa (non la Chiesa in sé, che è divina e non muta) va affrontata e risolta col ritorno alla Tradizione quale ce la fa conoscere S. Agostino.
● Quando (nel 1600 a. C. circa) i figli di Giacobbe erano nell’indigenza e per poter sopravvivere dovettero recarsi in Egitto, ove era vice re il loro fratello Giuseppe (che avevano tentato di uccidere), si diceva tra la gente affamata: “Ite ad Joseph” per ottenere cibo e sostentamento. Oggi si può dire, coll’Autore, “Ite ad Augustinum”, per sormontare la carestia che attanaglia le anime, ben più brutta di quella che attanagliava i corpi all’epoca di Giacobbe.
Cristo Capo principale della Chiesa e il Papa suo Vicario in terra
● La ‘prima Sede’ è un elemento costitutivo essenziale della Chiesa. Il Papa assicura la vita, l’unità, l’apostolicità e la cattolicità della Chiesa, che è stata voluta e fondata da Cristo su Pietro e i suoi successori sino alla fine del mondo. Su Pietro la Chiesa trova la roccia su cui si fonda e che non la fa crollare[3]. Quindi coloro che non riconoscono in Pietro e nei Papi la roccia inespugnabile non riconoscono la Chiesa[4].
● L’Ipponate prosegue: “Petrus petra, petra Ecclesia[5]; insomma la Chiesa ha per fondamento Pietro, che è il Vicario di Cristo su questa terra. Gesù è il capo principale e invisibile mentre Pietro è il Capo secondario, subordinato e visibile della Chiesa. Quindi, Pietro, anche se roccia subordinata a Cristo e suo prolungamento storico su questa terra, nella catena ininterrotta di suoi successori impersona e sintetizza la Chiesa. Perciò “ubi Petrus, ibi Ecclesia” e “sine Petro, nulla Ecclesia”. Sempre S. Agostino scrive: “Ergo in Petri nomine figurata est Ecclesia[6] e ancora: “Sic Petrus ab hac petra appellatus, personam Ecclesiae figuraret[7]. Ma, come spiega S. PaoloPetra autem erat Christus” (1 Cor., X, 4). Quindi la Pietra, che secondariamente è Pietro, principalmente è Cristo. S. Agostino, con uno dei suoi giochi di parole, spiega: «Non dictum est illi “Tu es petra”, sed “Tu es Petrus”. Petra autem erat Christus; quem confessus Simon, dictus est Petrus».
● La Cattedra da cui insegna, governa e santifica Pietro è stata istituita da Cristo per confermare la Fede dei credenti e per garantire l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità della Chiesa. Pietro e Roma hanno una preminenza su ogni Apostolo e Vescovo, in quanto sono secondariamente “la pietra [principale] che è Cristo”. L’unità, con le altre tre note, e la visibilità della Chiesa si personificano in Pietro. Pietro è la sintesi della Chiesa stessa. Quindi senza Pietro o Papa non sussiste la Chiesa, che è in comunione con Cristo tramite il Primo e il Principe degli Apostoli[8]. Per cui tutto ciò che avviene fuori della catena di Pietro e dei suoi successori è fuori dell’apostolicità formale della Chiesa[9] ed evidenzia lo staccarsi dei rami secchi dal tronco vitale della Chiesa di Cristo. I rami secchi non hanno la vita che è Cristo “Ego sum Vita…” e sono gli eretici e gli scismatici formali, ai quali manca la linfa vitale della pianta che è la Chiesa, ossia Pietro e Cristo[10]. I Vescovi sono ‘pastori’ dei fedeli o ‘agnelli’, ma ‘pecorelle’ sotto Pietro, il ‘Principe dei pastori’, alla scuola dell’unico Maestro, “Via, Verità e Vita”, che è Cristo[11].
● L’apostolicità è, nella crisi che l’ambiente ecclesiale sta vivendo, la nota più utile e importante per capire cosa succede e porre rimedio a tanto male. Senza Apostoli non sussiste la Chiesa di Cristo, poiché Gesù stesso l’ha fondata su di loro. Ma senza il Principe degli Apostoli, senza Pietro, che è la ‘pietra’ secondaria e subordinata a Cristo, gli Apostoli sono slegati da Cristo. È allora assolutamente necessaria la presenza del Papa e dei Vescovi in atto o in essere e non solo in potenza o in fieri. Infatti, se la Chiesa fosse in potenza o in divenire, non sarebbe con Cristo tutti i giorni dal calvario sino alla fine del mondo, ma lo sarebbe ad intervalli, certe volte in atto o in essere e certe altre solo in potenza o in fieri. Ma il fieri non è l’essere. Quindi il Papa e i Vescovi in fieri non sono la Chiesa esistente in atto, ma la “Chiesa cosmica” che diviene, come il “Cristo cosmico” di Teilhard. Il Papato o la Chiesa materialiter sono la “Chiesa cosmica”, che si evolve continuamente e passa dalla potenza all’atto. Invece Cristo ha fondato una Chiesa sul Papato in atto d’essere e non in divenire perpetuo o a intermittenza: Pietro e gli Apostoli erano Papa e Vescovi in atto e formalmente, non in potenza, in fieri o materialmente. La Chiesa poggia sull’essere, sull’atto e la forma, non sul divenire, la potenza e la materialità. Come la sana filosofia si fonda sull’essere e non sul divenire. La filosofia dell’essere è la filosofia perenne e sana, mentre la filosofia del divenire è la filosofia falsa o sofistica della modernità. Così la Chiesa o il Papato materiale o in divenire è un Papato concepito dalla mente di un uomo, fosse anche un grandissimo teologo (che non è Cristo in terra né il Magistero ecclesiastico), ma non è la Chiesa voluta da Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.
● Se i “gerarchi” ecclesiali e spirituali sono i successori formali di Cristo, di Pietro e degli Apostoli, sono la Chiesa di Cristo come Cristo l’ha voluta; altrimenti sono una “emergenza”, un’“escrescenza”, una “protuberanza” o un prodotto dell’intelletto (cometa dialettica hegeliana) in uno stato di “emergenza”, il quale potrebbe giustificare una soluzione “emergente” o “protuberante” in divenire, ma non stabile e non fondata sull’immutabilità dell’essere. Tale prodotto dell’intelletto umano è essenzialmente diverso dalla Chiesa di Cristo. Il reale stato di emergenza o necessità in cui ci troviamo non ci autorizza a cambiare l’essenza della Chiesa, quale Cristo l’ha voluta e fondata, idealizzandone una in fieri o in potenza o materiale, che non è (est, da esse) ma diviene (fit da fieri). La Chiesa è stata, è e sarà in atto; non in divenire, proprio come Cristo è hodie, heri et in saecula, “semper idem” e non “semper in fieri”. La successione apostolica vera è quella formale, alimentata dalla sua radice, che è la ‘Pietra’, Cristo, e il suo Vicario in terra, ‘Pietro’. S. Agostino insegna che una semplice successione materiale, non unita formalmente con la sua radice, sarebbe sterile[12]. Come un tralcio che parte da rami recisi e secchi non è vivo e fruttuoso, così una successione apostolica solamente materiale è morta e mortifera. È una “successione” o “protuberanza” storica, cronologica, materiale, fisica, ma non apostolica, viva e vivificante[13].
Rapporti tra Stato e Chiesa
● Al capitolo VII del suo libro mons. Gherardini tratta dell’origine divina del potere civile[14]. Secondo S. Agostino[15] il governante o Principe deve amministrare la res publica con un’attività volta al bene comune, ossia per far conseguire ai cittadini il bene morale e far loro evitare il male. L’origine remota – come rivela S. Paolo (Rom., XIII, 1) – del potere è divina. Il governo, quindi, è buono se rispetta la sua natura, ossia la Causa efficiente da cui trae l’Autorità, che è Dio, e la sua Causa finale, che è il bene comune temporale subordinato a quello morale o spirituale. Altrimenti, se non riconosce Dio come sua Causa efficiente e non ha di mira il vivere virtuosamente (naturale e soprannaturale) il governo è cattivo, anzi è paragonabile ad “una banda di ladroni”[16].
● Il buon governante deve, secondo S. Agostino e tutti i Padri greci e latini, mettersi al servizio del bene e deve promuovere socialmente o assieme alla Società civile o Stato la Religione divina[17]. L’obbedienza all’Autorità civile, tuttavia, è condizionata al di lei mantenersi nella finalità morale (vivere virtuoso) e nella dipendenza da Dio (causalità efficiente). Altrimenti, l’Autorità diventa tirannia ed è lecito resisterle a certe determinate condizioni (specialmente quella di non rendere la situazione posteriore peggiore di quella anteriore)[18].
● Secondo l’Ipponate il governante cristiano non solo deve provvedere alla pace interna ed esterna della Società civile, ma anche a quella spirituale, cioè lo Stato deve favorire la Chiesa nella sua missione di espandere il Regno di Dio in tutto il mondo[19]. Certamente la Chiesa e lo Stato non possono costringere a fare il bene, che non sarebbe più libero e meritorio, ma debbono proibire di fare il male[20]. Anzi, per difendere la Fede, è lecito chiedere anche l’intervento di chi porta la spada. Infatti se il Principe deve punire i crimini civili, perché mai gli si dovrebbe impedire di reprimere anche i crimini spirituali (l’eresia e lo scisma)? Siccome l’eresia e lo scisma sono un male, anzi il massimo dei mali, chi porta la spada non può non servirsene per reprimerli[21].
● S. Agostino confuta con 1000 anni di anticipo l’obiezione dei catto-liberali secondo i quali l’uomo, come singolo individuo, è religioso, ma, come cittadino facente parte di uno Stato, deve essere neutrale in materia religiosa (cfr. Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis humanae, sulla “Libertà religiosa”, 7 dicembre 1965). L’Ipponate infatti afferma che il Principe serve Dio in due modi: come uomo vivendo la Fede informata dalla Carità e come Governante facendo leggi conformi a quella divino-naturale, facendole rispettare e punendo i loro trasgressori[22].
Conclusione
1°) Se - in matematica - si toglie il ‘numero 1°’, cadono tutti gli altri numeri. Così - in teologia - se si toglie la ‘prima Sede’ la Chiesa non ha più fondamento. Ma questo è un assurdo, reso impossibile dalle promesse di Gesù alla sua Chiesa.
2°) ‘Pietro’ o Cefa significa ‘Pietra’: “Petra autem erat Christus” (1 Cor., X, 4). La Chiesa coincide con e si fonda su Cristo, suo Capo invisibile, e con/su Pietro, suo Capo visibile: Ubi Petrus ibi Ecclesia.
3°) Pietro e Cristo sono Persone in atto, non in divenire. Altrimenti avremmo, oltre il “Cristo cosmico” di Teilhard de Chardin, il “Papa cosmico” e la “Chiesa cosmica”.
4°) La Chiesa ha fatto sua la filosofia e teologia dell’essere stabilmente immutabile ed ha ripudiato quella del divenire in continuo cambiamento o in “moto perpetuo”. La Tesi del Papato in divenire è contraria allo spirito della sana ragione, della retta teologia e al “sentire cum Ecclesia”: “Stat Beata Trinitas dum volvitur orbis”.
5°) Lo Stato deve essere subordinato alla Chiesa come il corpo all’anima, la materia alla forma, la potenza all’atto, il divenire all’essere. S. Agostino - assieme a tutti i Padri ecclesiastici - ha insegnato la dottrina della cooperazione gerarchica tra Stato e Chiesa. Mons. Gherardini ha compendiato nel suo ultimo volume questi princìpi sulla Chiesa in sé ed in rapporto alla Societas o Polis. La Chiesa “non può non fare politica” (San Pio X), che non è partitica ma è la virtù di Prudenza applicata alla Società civile, essendo l’uomo un “animale sociale per natura” (Aristotele e S. Tommaso).
d. CURZIO NITOGLIA
3 agosto 2011
http://www.doncurzionitoglia.com/chiesa_cattolica_e_s_agostino.htm



[1] Corso Re Umberto, n. 37, 10128-Torino; www.lindau.it, pagine 200, 18 euro.
[2] Gli altri suoi libri più recenti sul problema ecclesiologico in relazione alla tematica del Concilio Vaticano II in “continuità” o in rottura con la Tradizione apostolica sono: Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009; Id., Tradidi quod et accepi. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2010; Id.,Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011; Id., Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Torino, Lindau, 2011.
[3] S. Augustinus, De baptismo contra Donatistas, II, 1.
[4] S. Aug., De agone christiano, 31, 33.
[5] Enarr. In Ps. 103, 3, 2.
[6] Retractationes, I, 21.
[7] In epist. Johann. ad Parthos, 10, 1.
[8] Cfr. B. Gherardini, La Cattolica. Lineamenti d’ecclesiologia agostiniana, Torino, Lindau, 2011, pp. 77-78.
[9] S. Aug., Ep., 53, 1, 2.
[10] Ep., 232, 3.
[11] S. Aug., Contra Cresconium, II, 11, 13.
[12] Psalmus contra partem Donati, PL 43, 30.
[13] S. Aug., Ep. 223, 3. Cfr. B. Gheradini, La Cattolica, cit., pp. 121-124.
[14] B. Gheradini, La Cattolica, cit., p. 147.
[15] S. Aug., Contra Faustum manichaeum, XXII, 75; Id., De civitate Dei, IV, 4 e V, 1; Id., Serm., 358, 6.
[16] S. Aug., De civitate Dei, IV, 4: “Remota iustitia, regna sunt magna latrocinia”.
[17] S. Aug., Contra Cresconium, III, 51, 56; Id., De civitate Dei, V, 24.
[18] S. Aug., De catechizandis rudibus, 21, 37. I “rudi” non sono i “rozzi”, ma coloro che ancora non conoscono la dottrina cristiana.
[19] S. Aug, Contra Cresconium, II, 19; III, 51-56.
[20] S. Aug., Contra litteras Petiliani, II, 38, 183-184.
[21] S. Aug., Contra epistulam Parmeniani, I, 10, 16.
[22] S. Aug., Epist., 185, 5, 19.



“L’ECUMENISMO”: CONCILIAZIONE TRA “CRISTO E BELIAR”?
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DON CURZIO NITOGLIA
14 giugno 2009



Introduzione
Mons. Brunero Gherardini in “Divinitas” (rivista fondata dall’ex rettore della Lateranense, mons. Antonio Piolanti), Città del Vaticano, n° 2/2008, di cui egli è oggi il Direttore, ha scritto un bellissimo articolo (“La vexata quaestio del deicidio”, pp. 215-223), in cui sostiene e prova che per i cattolici, i quali credono nella divinità di Cristo, la sua uccisione fu (per l’Unione Ipostatica, delle due nature, divina e umana, nell’unica Persona divina del Verbo) un vero “deicidio”.

San Tommaso d’Aquino tratta esplicitamente il problema della responsabilità morale del giudaismo nella crocifissione di Nostro Signor Gesù Cristo. Nella Somma Teologica (III, q. 47, a.5), infatti, si domanda ‘Se i carnefici di Nostro Signore lo conoscessero come il Cristo’ e risponde con una distinzione: i maggiorenti “lo conobbero come il Cristo [...] essi infatti vedevano avverarsi in Lui tutti i segni predetti dai Profeti. Ma essi non conobbero il mistero della sua divinità [...]. Però bisogna notare che la loro ignoranza non li scusava dal delitto perché si trattava di ignoranza affettata. essi infatti vedevano i segni evidenti della sua divinità, ma per odio e per invidia verso Cristo li travisavano, e così non vollero credere alle sue affermazioni di essere il Figlio di Dio. Mentre il popolo [...] non conobbe pienamente né che egli era il Cristo, né che era il figlio naturale di Dio” (in corpore). “Si affaccia a questo punto una obiezione: se non uccisero la divinità (che in Cristo non morì), i giudei sono colpevoli soltanto di semplice omicidio (e non di deicidio ndr). Al che si risponde: se qualcuno insudicia intenzionalmente la veste del Re, non viene considerato colpevole di reato allo stesso modo che se ne avesse imbrattato la persona? Perciò sebbene non abbiano ucciso la natura divina di Cristo (cosa impossibile), gli autori morali della morte di Gesù hanno meritato, in base alle loro intenzioni, una gravissima condanna. [...] Chi lacerasse un decreto regio, attenta alla stessa maestà regale; e quindi il peccato dei giudei è di tentato deicidio” (In Symb. Ap.,a. 4, n° 912, Opuscola theologica; De re spirituali, Marietti, Torino, 1954).

Si noti inoltre che per il mistero del­l’Unione Ipostatica, la natura umana di Cristo sussisteva nella Persona divina del Verbo, quindi è lecito dire che gli ebrei uccisero Dio, anche se non scalfirono neppure la sua natura divina, ma colsero soltanto quella umana che sussiste nella Persona del Verbo divino. Così il Dottore Angelico conclude questo articolo della Somma Teologica: “Vedendo i giudei le mirabili opere di Cristo, per odio, non vollero ammettere che egli era il Figlio di Dio” (ad 2um). La loro fu dunque una ignoranza affettata che non scusa dalla colpa, ma piuttosto l’aggrava: infatti essa dimostra che uno è talmente intenzionato a voler peccare, che preferisce rimanere nell’ignoranza per poter fare il peccato: “Et ideo judei peccaverunt, non solum hominis Christi, sed tamquam Dei crucifixores” (S.T., III, q. 47, a. 5, ad 3um). Il peccato di Deicidio è da attribuirsi quindi ai Capi del popolo in maniera molto grave. Perciò, se da una parte è vero che soltanto una parte del popolo giudaico (inteso in senso etnico-politico) vivente ai tempi di Gesù in Palestina e nella Diaspora abbia preso parte attiva alla crocifissione fisica di Gesù, «Non rimane scagionato da colpa o da pena il giudaismo o la religione giudaica, cioè il popolo inteso in senso religioso! [...] A me sembrano essere nel vero i numerosi e valenti esegeti i quali vedono emergere chiaramente da tutta l’economia del Vecchio Testamento [...] il principio della ‘responsabilità collettiva’ nel bene come nel male. [...] l’intero popolo è ritenuto responsabile e quindi punito, per i delitti commessi ufficialmente dai suoi capi, anche quando gran parte del popolo ne sia estranea. Ritengo legittimo poter affermare che tutto il popolo giudaico dei tempi di Gesù - inteso in senso religioso, cioè quale collettività professante la religione di Mosè - fu responsabile in solidum del delitto di deicidio, quantunque soltanto i Capi, seguiti da una parte degli adepti, abbiano materialmente consumato il delitto [...] la sentenza di condanna fu emanata dal concilio (Jo XI, 49 sg.),cioè dal massimo organo autoritativo della religione giudaica. [...] Fu il sacerdozio aronitico, [...] a condannare il Messia. È lecito, pertanto, attribuire il deicidio al giudaismo, in quanto comunità religiosa. […]. Anche il giudaismo dei tempi posteriori a Nostro Signore partecipa oggettivamente della responsabilità del deicidio, nella misura in cui tale giudaismo costituisce la libera e volontaria continuazione di quello di allora» (Luigi M. Carli: La questione giudaica davanti al Concilio Vaticano II, in “Palestra del Clero”, n°4, 15 febbraio 1965, pp.191-203).


Inoltre nella rivista “Fides Catholica”, Frigento, n° 1/2008 mons Gherardini ha scritto un secondo magnifico articolo (“Sugli Ebrei: così, serenamente”, pp. 245-278). In esso il monsignore distingue il giudaismo vetero-testamentario da quello talmudico, parla di responsabilità collettiva del popolo ebraico, e non dei soli Capi, nella morte di Gesù; muove degli appunti a Nostra aetate - riallacciandosi all’articolo succitato - per aver omesso la parola “deicidio”, la quale è l’unica che possa definire esattamente l’uccisione di Gesù; asserisce che il giudaismo di oggi, continuando nel rifiuto di Cristo e non avendo rotto con quello il quale condannò a morte Gesù, forma una stessa entità con esso; riafferma che il giudaismo talmudico discende da Abramo solo secondo la carne e non per la fede; critica pacatamente, ma fermamente la teoria dell’Antica Alleanza mai revocata, poiché la Nuova ha rimpiazzato la Vecchia, che era caduca ed ora è definitivamente sorpassata; afferma inoltre che, Israele, avendo rifiutato Cristo, è stato abbandonato da Dio e da tale abbandono è seguita la “maledizione” oggettiva di esso, mentre “il piccolo resto d’Israele”, che ha creduto al Messia, è entrato coi pagani nella Nuova ed Eterna Alleanza. Infine - egli scrive - i doni di Dio sono irrevocabili da parte di Dio se gli uomini cooperano con Lui, ma, se lo abbandonano, sono da Lui abbandonati e quindi conclude qualificando l’insegnamento “pastorale”, dal Concilio Vaticano II al post-Concilio, come “teologicamente assurdo, ma politicamente corretto”.




IL DEICIDIO E IL CONCILIO VATICANO II


La dichiarazione conciliare “Nostra aetate” (28 ottobre 1965) recita: “Quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. [...] Gli ebrei non devono essere presentati come riprovati da dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla S. Scrittura” (Nostra aetate 4 g-h). Ora la S. Scrittura ci presenta gli ebrei come riprovati e maledetti da Dio (F. Spadafora, La Chiesa e il giudaismo, Caltanisetta, Krinon, 1987). Il Concilio asserisce inoltre che la morte di Nostro Signore è “dovuta ai pec­cati di tutti gli uomini” (Nostra aetate 4), e questo è pacifico quanto alla causa finale; invece la causa prossima ed efficiente della morte di Gesù furono i giudei (Giuda, i prìncipi e la folla), come è stato dimostrato ‘ad abundantiam’ per quel che riguarda il deicidio. Come conciliare ora la dottrina del Vaticano II con quella tradizionale? E’ impossibile.


Resta da vedere come si è potuti arrivare a tale dichiarazione conciliare con 2041 placet,88 non placet e 3 voti nulli. Léon de Poncins scrive che: «La mozione votata a Roma dimostra da parte di molti Padri conciliari una profonda misconoscenza del giudaismo. Sembra che essi si siano attenuti solo all’aspetto umanitario del problema, presentato abilmente dai portavoce del giudaismo mondiale. [...] Infatti all’origine delle riforme proposte dal Concilio per modificare l’atteggiamento e la dottrina secolari della Chiesa verso il giudaismo [...] vi sono diverse personalità ed organizzazioni ebree: Jules Isaac, Labelkatz [...] Nahum Golduran [...]. Tra le personalità ebree sopra citate ce n’è una che ha svolto un compito preminente: lo scrittore Jules Marx Isaac, ebreo d’Aix en Provence. [...]. Profittando del Concilio, dove aveva trovato serî appoggî tra i Vescovi progressisti, Jules Isaac è stato il principale teorico e promotore della campagna contro l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Vediamo ora la posizione presa per far prevalere la sua tesi: [...] L’antisemitismo cristiano a base teologica è il più temibile. Infatti l’atteggiamento dei cristiani verso il giudaismo è stato sempre fondato sul racconto della passione tale e quale è stato riportato dai quattro Evangelisti e sull’insegnamento che ne hanno fatto i Padri della Chiesa. [...]. Jules Isaac ha tentato di distruggere questa base teologica fondamentale, contestando il valore storico dei racconti evangelici e screditandone gli argomenti proposti dai Padri della Chiesa. [...]. Il 13 giugno 1960 Jules Isaac è ricevuto da Giovanni XXIII al quale domanda la condanna dell’insegnamento del disprezzo e consiglia la creazione di una sottocommissione incaricata di studiare tale problema. Più tardi il signor Isaac aveva la gioia di sapere che le sue proposte erano state prese in considerazione dal Papa e trasmesse per lo studio al card. Bea. [...]. Nel 1964 la questione era sottoposta al Concilio. Jules Isaac ha consacrato due libri per criticare e distruggere i due pilastri dell’insegnamento cristiano (riguardo al deicidio: i racconti evangelici e la dottrina dei Padri della Chiesa, ndr). Nella prima di queste due opere, “Jesus et Israel”, pubblicata nel 1949, Jules Isaac critica gli Evangelisti, principalmente S. Giovanni e S. Matteo. “Lo storico ha il diritto ed il dovere di considerare i racconti evangelici come testimonianze faziose contro i giudei. [...] È evidente che tutti e quattro gli Evangelisti hanno avuto la stessa preoccupazione di ridurre al minimo le responsabilità romane per maggiormente aggravare quelle giudaiche [...] L’accusa cristiana contro Israele, l’accusa di deicidio [...] è essa stessa criminale, la più grave, la più nociva ed anche la più iniqua” (jules isaac: L’Enseignement du Mépris, p. 141). In breve, dal racconto della Passione rivisto e corretto da Jules Isaac gli Evangelisti ci appaiono come menzogneri matricolati, ma il più velenoso è senza dubbio Matteo. Nella seconda delle sue opere, ‘Genèse de l’Antisémitisme’, pubblicato a Parigi nel 1956, Jules Isaac si sforza di screditare i Padri della Chiesa: [...] “Contro il giudaismo [...] nessuna arma si è rivelata più temibile dell’insegnamento del disprezzo dimostrato soprattutto dai Padri della Chiesa del IV secolo; ed in questo insegnamento nessuna tesi è più nociva di quella del popolo deicida”. (jules isa­ac: Genèse de l’Antisémitisme, ed. Cal­mann-Lévy, Paris, 1956, p. 327). La Chiesa, ci dice Jules Isaac, è la sola colpevole; i giudei sono completamente innocenti, [...] solo la Chiesa perciò deve fare atto di riparazione emendando il suo millenario insegnamento. E Jules Isaac giunge alle sue pratiche realizzazioni. Egli domanda o piuttosto esige dal Concilio: [...] la modifica delle preghiere liturgiche riguardanti gli ebrei, particolarmente quelle del Venerdì Santo. L’affermazione che i giudei non sono affatto responsabili della morte di Cristo [...] Il mettere a tacere [...] i passi evangelici che riportano il cruciale episodio della Passione, particolarmente quello di S. Matteo, che Jules Isaac […] tratta da menzognero e falsario. Nel Numero del 23 gennaio 1965 il settimanale ‘Terre de Provence’, pubblicato ad Aix, dava il resoconto di una conferenza tenuta da Mons. de Provenchères, Vescovo di Aix. Citiamo l’inizio dell’articolo. Parlando di Jules Isaac mons. de Provenchères ci dice che fin dal primo incontro nel 1945 egli ebbe una profonda stima per lui, stima rispettosa che ben presto ebbe una sfumatura d’affetto. Lo schema conciliare sembra essere la ratifica solenne di quella che fu la loro conversazione. L’origine di tale schema conciliare (Nostra aetate) si deve ad una domanda di Jules Isaac al Vaticano, esaminata da più di 2000 vescovi. Questa iniziativa fu presa da un laico ed un laico giudeo”. (‘Terre de Provence’, 23 gennaio 1965). 2041 Padri hanno ritenuto che il racconto della passione secondo la versione di Jules ­Isaac era da preferirsi a quella di s. Giovanni e s. Matteo. [...]. In poche parole questo voto [...], sotto l’apparenza di cari­tà cristiana [...], è un’altra tappa nella via del cedimento, del­l’abbandono del cristianesimo tradizionale e del ritorno al giudaismo. [...] Per i pensatori giudei la riforma conciliare deve essere una nuova tappa nella via dell’abbandono, del cedimento, della distruzione della tradizione cattolica svuotata a poco a poco della sua sostanza» (léon de poncins: Il problema dei giudei in Concilio, Tipografia Operaia Ro­mana,Via E.Morosini 17, Roma senza data, pp. 6-28).

● Il recente “caso Williamson”, con la dichiarazione dell’obbligo di riconoscere la vulgata sterminazionista della shoah da parte di Benedetto XVI per essere in piena comunione con la Chiesa (“Lettera ai vescovi di tutto il mondo”, 4 marzo 2009), rappresenta - teologicamente - un ulteriore gravissimo passo verso la giudaizzazione, tramite l’olocausto-latria, dell’ambiente e della mentalità cristiane.



1°) POSSONO I GIUDEI VENIR CHIAMATI ‘RIPROVATI’ DA DIO?


La riprovazione di cui si parla ora non è quella che designa l’azione della Provvidenza di Dio riguardo al conseguimento del fine ultimo da parte di ogni singola anima. Il nostro problema riguarda un popolo (in senso religioso e non politico-etnico o razziale) il cui fine si esaurisce nel tempo e che nel tempo deve avere premio o castigo. resta salvo perciò il dogma che Dio “vuol che tutti si salvino”(1 Tim II, 4); anche il singolo giudeo in buona fede, quindi, riceve da Dio la grazia sufficiente per salvarsi l’anima. (Per chiarezza è bene ricordare che la parola “riprovare” etimologicamente significa: reputare inutile, disapprovare, rigettare, sconfessare, ndr). “Parlare di riprovazione o meno di Israele non può significare altro che affermare o negare che quella comunità in quanto tale abbia conseguito o meno il fine terrestre per il quale Dio l’aveva eletta [...]. Il vecchio Israele, a causa della sua incredulità, è stato da Dio privato del suo ruolo speciale che avrebbe dovuto avere nella storia della salvezza [...] è subentrato il nuovo Israele, la Chiesa. .[…] Israele ad un dato momento della sua storia risulta aver infranto il Patto di Alleanza con Dio [...] per il fatto di aver rifiutato il fine stesso del Patto rifiutando Gesù: ‘finis enim Legis Christus’ (Rom X, 4). [...] Automatica­mente rimase senza scopo, frustrata in pieno, l'elezione di Israele; perdettero la loro ragione sufficiente i privilegi ad essa connessi. [...] La religione mosaica la quale, per disposizione dichiarata di Dio, doveva sfociare nel cristianesimo per trovarvi il proprio fine e la propria perfezione, si è così invece costantemente rifiutata di aderire a Cristo [...] Per propria colpa si è cristallizzata in una situazione obiettiva di contrarietà al volere di Dio. [...] Si tratta di un positivo opporsi al volere di Dio. [...] Sotto questo profilo il rapporto tra cristianesimo e giudaismo è di molto peggiore del rapporto tra cristianesimo e altre religioni. Israele, nel piano di Dio, era tutto relativo a Cristo e al cristianesimo. Non avendo avverato, per propria colpa, tale e tanta ‘relatività’, da se stesso si è posto in uno stato di obiettiva ‘riprovazione’. e tale stato perdurerà fino a quando il giudaismo religione non avrà ufficialmente e glo­balmente riconosciuto ed ac­cettato Gesù Cristo” (mons. m. l. carli, op. cit.).

2°) POSSONO I GIUDEI VENIR CHIAMATI ‘MALEDETTI’ DA DIO ?

«Non si tratta di maledizione formale [...] si vuole soltanto indicare una maledizione oggettiva, cioè una situazione concreta, sulla quale Dio esprime il suo giudizio di condanna. (Oggettivamente Israele, avendo rifiutato il piano di Dio, si trova in uno stato di rivolta e di sterilità, che è constatata e condannata o “maledetta” da Dio fino a che non si converta da tale stato, Dio, infatti, vuole che il peccatore viva e si converta e torni a penitenza, ndr). [...]. Tale situazione è stata liberamente accettata da Israele finché dura questa libera accettazione permane lo stato di “oggettiva maledizione”. [...] va però categoricamente negato che alcuna autorità umana, privata o pubblica, possa, a qualsivoglia titolo o pretesto farsi esecutrice della pena connessa al giudizio divino di condanna. [...] Ciò premesso, esprimo il parere che il giudaismo (sempre inteso in se­nso religioso e non etnico-politico) possa legittimamente dirsi “maledetto” allo stesso titolo e nella stessa misura in cui [...] può dirsi “riprovato” da Dio. Del resto già in San Paolo l’idea di maledizione [...] è affine [...] a quella di riprovazione [...] chiunque non porta frutto di opere buone è “maledetto” da Dio come il fico (Mc XI, 21) di cui Dio constatò e condannò la sterilità, ndr). [...] Questo stato di “maledizione” (o condanna della sterilità già constatata, ndr) cesserà soltanto alla fine dei tempi, quando “omnis Israel salvabitur” (Rom XI, 26) Quando cioè accetterà la salvezza messianica » (Mons. l.m. carli, op. cit.).


Conclusione

Infine, mons. Gheradini ha scritto (oltre ai due succitati) anche vari articoli sulla “collegialità”, mettendone a nudo la contraddizione intrinseca. Questi due articoli sono stati messi assieme ad altri inediti e raccolti in un libro dello stesso Gherardini, intitolato, Quale alleanza può esservi tra Cristo e Beliar?, Verona, Fede e Cultura, 2009. In questo il Nostro affronta soprattutto le varie tematiche che aveva soltanto sfiorato nel suo Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (Casa Mariana Editrice, Frigento, 2009) del dialogo inter-religioso o “ecumenismo”, in oltre 200 pagine, fitte di osservazioni teologiche, molto ben scritte e intelligibili anche ai non specializzati in teologia.

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d. Curzio Nitoglia
14 giugno 2009
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Concilio Vaticano II. Il discorso mancato

Brunero Gherardini (mons.) - Lindau, Torino 2010, pp. 96, € 12



Monsignor Gherardini, dopo il suo Vaticano II. Un discorso da fare, uscito due anni fa per le edizioni Casa Mariana Editrice, legata ai Francescani dell’Immacolata, ritorna sull’argomento e lo fa per rimarcare, in maniera più sintetica e accessibile, i punti in base ai quali si deve discutere serenamente su ciò che fu il Concilio Vaticano II. «Chi ha paura del Vaticano II?» si chiede il prelato. E risponde: «Chi se ne fa paladino».

Infatti sul suo libro, che si presentava come una supplica al Santo Padre affinché si discutesse sull’argomento in questione è stata opposta una particolare tipo di congiura: non esattamente del “silenzio”, come capita di solito per un certo genere di pubblicistica non conformista, bensì della costante “affermazione” quando mons. Gherardini desiderava ricevere una “dimostrazione” e di che cosa? Ad esempio del fatto che il Concilio sia effettivamente fedele alla Tradizione, come sostenuto da più parti, ma senza darne dimostrazione alcuna. L’autore parla infatti di un “contro-spirito” del Concilio (usando il termine filosofico di gegen-Geist) secondo il quale il Vaticano II segnerebbe l’anno zero della nuova Chiesa, con il rifiuto totale in primo luogo del Vaticano I e del Concilio Tridentino, ma sostanzialmente dell’intera Tradizione. Tale contro-spirito si sarebbe (vittoriosamente) scontrato con quello che sarebbe dovuto essere il vero spirito del Concilio (anche secondo Benedetto XVI), perfettamente inserito nel solco della Tradizione.

Ma su questo punto non sono giunte risposte adeguate, lamenta mons. Gherardini, forse perché «si è preferito continuare una volgata infinitamente più comoda, che non era, però, né poteva esser la vera ermeneutica conciliare. C’era troppo, in essa, d’inautentico, di prevenuto, di non documentato. Poneva infatti il Concilio o tutt’in un senso, o tutt’in un altro. O il punto d’arrivo d’un lavoro incessante che (…) attualizza la Tradizione di sempre nell’oggi della Chiesa; o la rivoluzione che travolge inesorabilmente il passato per mettere finalmente la Chiesa al passo con la realtà in atto» (p. 62). In ogni caso, conclude, se pur non è mancata la fede, è sicuramente mancata la critica.

Il tema del gegen-Geist è ripreso a proposito dei frutti del Concilio, ovvero il post-Concilio: il Vaticano II è paragonato all’otre di Eolo, da cui si scatenò l’uragano dello “spirito del Concilio” (che mons. Gherardini definisce «contro-spirito»). E, se una pianta si giudica dai frutti, i risultati del Concilio sono sotto gli occhi di tutti e impietosamente ricordati dall’autore: il crollo delle vocazioni, la perdita del senso della fede e della morale, la banalizzazione dell’Eucarestia e della celebrazione eucaristica e via enumerando. Ma su tali “frutti”, su queste necessarie conseguenze del Concilio (e non solo del post-Concilio) un discorso sereno non si riesce proprio a fare…

(RC n. 65 - Giugno 2011)



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Ecumene tradita. Il dialogo ecumenico tra equivoci e passi falsi

Ecumene tradita. Il dialogo ecumenico tra equivoci e passi falsi


di Brunero Gherardini


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Descrizione


Quarantacinque anni fa fu promulgato da parte di Papa Paolo VI il Decreto conciliare Unitatis che mise in evidenza alcuni punti fermi, oltre i quali nessun interlocutore cattolico è autorizzato a procedere: unità/unicità della Chiesa, governata dai successori degli Apostoli con a capo il successore di Pietro; integrità dottrinale, accompagnata da carità ed umiltà. Il Decreto avverte: "Niente è più alieno dall.ecumenismo, quanto quel falso irenismo che nuoce alla purezza della dottrina cattolica e ne oscura il senso genuino e preciso". La realtà dei fatti susseguenti fu però una reticenza pratica, se non anche formale, dei suddetti principî, la politica del consenso prima di tutto e soprattutto, i ripetuti cedimenti. La conseguenza è che oggi il buon popolo di Dio non ha più riferimenti sicuri, tutti (o quasi) naufragati nel "mare magnum" dell'indifferentismo largamente diffuso e nel non meno diffuso relativismo. Già da cardinale, l'aveva constatato anche l'attuale Pontefice Benedetto XVI, secondo il quale s'è instaurato nella cultura in genere, e particolarmente nell'ambito religioso-teologico, l'impero d'un paralizzante relativismo. In questo volume si scopre che l'impedimento ad un corretto ecumenismo si chiama confessionalismo: non la confessione o professione della fede cristiana, ma quel complesso strutturale e d'apparato in base al quale si parla di chiesa luterana, riformata, anglicana, ortodossa, cattolica.



Dettagli del libro



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